Michetti Francesco Paolo

pittore fotografo
Tocco di Casauria (CH), 2 ottobre 1851 - Francavilla al Mare(CH), 5 marzo 1929

Nel 1895 partecipa alla Prima Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con la tempera: La figlia di Jorio.

Nel 1909 partecipa alla VIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con due pastelli: Testa d'uomo (studio), Testa di donna (studio).

Nel 1910 partecipa alla IX Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con 15 tempere di Paesaggi abruzzesi.

Nel 1922 alla Prima Internazionale d'Arte a Sanremo, presenta Pastorella.

Nel 1932 alla XVIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, viene ricordato con una Mostra Individuale Retrospettiva, con l'esposizione di 38 opere. Pitture: La figlia di Jorio (1895), (app. alla Galleria Nazionale di Berlino). Testa della giovane sposa / studio del « Voto » (1882/ 3) (pastello). Depoti striscianti / studio del « Voto» (1882=3) (pastello). Testa di bimba (1882/3) Testa di donna, Bimba pelata / studio del « Voto» (1882=3). Tipi femminili / studio del « Voto » (1882=3). 7/10a Cinque disegni (appartengono alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma). Due pecore (1872).Pastorella (1817).Vitellino.Fiori del folto.a Sette studi (1870=75).(appartengono al Museo Nazionale di San Martino » Napoli).II morticino = (Replica dei * Morticela »).(app. alla Galleria d’Arte Moderna « Ricci Oddi » » Piacenza).Testa di ragazza.Studio per il « Voto » (pastello).(appartengono al Senatore Giovanni Treccani » Roma).Za pesca delle telline (1878).Bimba al sole.21 a Pastorelli (1887).(appartengono al Comm. Paolo Ingegnoli • Milano).


MOSTRA INDIVIDUALE RETROSPETTIVA DI FRANCESCO PAOLO MICHETTI (1851 - 1929).

Commissione ordinatrice: S. E. Ugo Ojetti, Accademico D’italia, Presidente; S. E. Barone Giacomo Acerbo; Giorgio Michetti; Tommaso Sillani; Barone Carlo Chiaranda; Scultore Nicola D’antino.

- Fa chillo che puo’, ma pitta, - aveva ordinato Domenico Morelli all’indisciplinato Michetti quando questi nel 1870, a diciannove anni, aveva voltato le spalle alle scuole dell’Accademia napoletana e se n’era tornato sdegnoso a Chieti, nell’Abruzzo nativo. Morelli aveva ragione. Michetti era nato pittore come si nasce poeta, almeno ai tempi in cui la poesia era anche ritmo e rima. Eppure questo pittore che a ventisei anni, col Corpus Domini mandato all’Esposizione nazionale di Napoli si era di colpo fatta una fama europea, negli ultimi trent’anni della sua vita si può dire che non abbia dipinto più.

Dopo i due grandi quadri esposti a Parigi nel 1900, Gli storpi e I serpenti, aveva solo nel 1910 raccolto a Venezia alcuni suoi paesaggi, più che per rientrare nel novero dei pittori operanti, per provare la bontà di una sua nuova invenzione, dei colori sciolti non più nell’ olio ma nella glicerina.

Era nato nel 1851 a Tocco Casauria, in provincia di Chieti, in una casa alta alta, color di rosa, dove quei di Tocco v’additano una finestrella incorniciata di bianco con la commozione con cui v’indicherebbero una stella in cielo: lassù è nato Michetti. Suo padre, Crispino, era maestro di musica e capobanda. Alle scuole tecniche di Chieti Michetti cominciò a disegnare e a diciassette anni ottenne dalla Provincia un aiuto di trenta lire al mese e corse a Napoli. Ma in Accademia restò poco, scontroso com’era e curioso di tutto, e smanioso di arrivar presto a saper dipingere, incidere, scolpire. Allora l’arte era davvero per lui un modo di capire, il mezzo più certo e più diretto per conquistare e possedere il mondo esterno. Nella pittura, chi più allora lo dominò fu Filippo Palizzi, anch’egli abruzzese, di Vasto. E soprattutto per ritrovare Palizzi e anche l’amico Dalbono e l’ospitale casa di lui, Michetti continuò a venire spesso da Chieti a Napoli. A Napoli nell’estate del 1874 conobbe lo spagnolo Fortuny che villeggiava a Portici e, come gli altri pittori napoletani, restò ammaliato da quella pittura mossa, vibrante, colorita come le ali d’una farfalla. Attraverso alla pittura del Fortuny imparò anche ad amare la pittura giapponese, i bronzi e le lacche giapponesi allora venute di moda, tanto che finì a incorniciare (diceva lui) alla giapponese, con fiori, fronde, granchi, stelle di mare su un angolo della cornice, i suoi quadri e quadretti abruzzesi.

Ogni novità l’incantava. Col De Nittis cominciò a rimettere in onore la pittura a pastello da più di mezzo secolo dimenticata, perché gli ultimi ritratti italiani dipinti a pastello sono, proprio a Napoli, quelli dipinti ai primi dell’ 800 da Costanzo Angelini. Pastello, carbone, tempera, fotografia, tutto era buono per afferrare la realtà: afferrarla nella sua eterna mobilità. Il Corpus Domini del 1877 fu chiamato lo scoppio d’ un fuoco d’artifizio.

L’eccesso di grazia, la volontà di meravigliare, quella visione un po’ carnevalesca della vita campestre, che pittori d’oltr’Alpe dal Courbet al Millet già da molt’anni rappresentavano con una serietà fatta di malinconia e di pietà, non piacquero, s’intende, a tutti. Ma dietro quell’abbagliante fuoco d'artifizio era una sapienza e un’esperienza precocissima che i più compresero e ammirarono. Guardando un autoritratto del Michetti comparso in quegli anni, dipinto a pastello, il cappello sulla nuca, gli occhi sfavillanti, la camicia aperta sul petto, Camillo Boito giudicava: «Sospetto forte che il pittore non sia poi un tanto gran matto quanto egli vuole che si creda».

La verità è che, se pochi pittori moderni hanno raggiunto tanto presto quanto lui tanta destrezza e prontezza nel dipingere felicemente con tutte le tecniche, pochissimi dopo l’ebbrezza dei primi anni, hanno diffidato quanto lui di questa destrezza e hanno cercato ogni giorno di mutare la piacevole abilità in meditata semplicità. Il pittore Netti che gli era amico affettuoso scriveva di lui: «Finisce a far invidia. Con che diritto costui fa bene senza stentare e senza aver sofferto nulla?». Era il giudizio corrente, ma non era la verità. Lodato, adulato, ricercato, comperato in Italia e fuori d’Italia, dopo i trionfi di Napoli nel 1877 e di Torino del 1880, a Milano nel 1881 espose trentaquattro dipinti che furono venduti tutti in pochi giorni ma che già rivelavano un Michetti diverso dal Michetti del Corpus Domini, del Morticino, della Domenica dette Palme, dell’Ottavario. Accanto a quadretti di genere arcadico, leggiadri e sorridenti, erano grandi feste, le più a pastello, di giovani contadine modellate, pareva, a colpi di pollice e come scolpite, dalle gote sode, dai capelli lisci, dalle labbra tumide, dalle orecchie rosee, ornate da grandi cerchi d’oro, ravvivate sul fondo e sullo scialletto da fregi di color violento, un giallo, un rosso, un cobalto. A comprendere il successo anche popolare di questi quadri, si ricordi che proprio in quegli anni, un conterraneo del pittore Gabriele d’Annunzio, non ancora ventenne, dava al pubblico i versi sensuali e musicali del Primo Vere e del Canto Novo. Anzi la prima edizione del Canto Nodo era illustrata dallo stesso Michetti.

A prevedere dalle opere d’oggi di Michetti o di d’Annunzio la loro opera di domani, non si poteva allora che sbagliare. Nel 1883 infatti, all’Esposizione nazionale di Roma, Michetti mandava il Voto: una vasta tela, un tema lugubre, al chiuso, senza cielo, una pittura che sapeva di terra, anzi di mota, inquadrata austeramente in una cornice stretta come una bacchetta perché lo spettatore sentisse senza ripari quasi la presenza di quei contadini di Miglianico, un villaggio sul monte a un’ora da Francavilla, prosternati davanti al busto d’argento di San Pantaleone, striscianti e sanguinanti dalla soglia della chiesa fino all’idolo che abbracciavano singhiozzando e tremando. Tre mesi di lavoro dicevano le cronache dei giornali. Nel 1880, Verga aveva pubblicato la Vita dei campi, nel 1881 I Malavoglia.

Da quel giorno anche i critici più ostili, e questi erano quasi tutti pittori, primo Nino Costa, dovettero riconoscere che v’erano due Michetti e l’uno, idillico, capriccioso e scherzoso in cui il sottile veleno fortuniano era rimasto presente e lo inebriava, tanto che il quadro di lui sembrava sempre una scommessa, vinta con alta bravura: l’altro memore di Palizzi, serio, anzi tragico, quello del Voto, quello che cercava la via per arrivare alla monumentale semplicità della Figlia di Jorio. E oggi, passato mezzo secolo, si vede che questo Michetti doloroso e severo si riconnetteva schiettamente alla pittura meridionale del ’600, da Massimo Stanzione a Mattia Preti, e vantava la sua razza con giusto orgoglio: verismo di gran rilievo, ombre torbide, caratteri definiti, con un che di rotto nella pennellata e d’istantaneo nei movimenti che gli veniva dall’altro Michetti minore e sfarfalleggiante e dalla recente voga della fotografia, e con una brutalità che il verismo di moda nella letteratura imponeva a lui come in scultura ad Achille D’Orsi.

È troppo presto per studiare quanto profondo sia l’influsso del Michetti sul d’Annunzio e quanto quello del d’Annunzio su lui, fra l’83 e il ’95, fra il Voto e la Figlia di Jorio. Certo i nomi dei due sono legati per sempre. E certo, alla semplificazione e quasi al rassodamento dell’arte michettiana nella Figlia di Jorio apparsa qui alla prima Biennale del 1895, giovò l’esempio di Gabriele d’Annunzio. Da vent’anni Michetti pensava a quel tema che nel 1904 doveva suggerire al d’Annunzio la sua tragedia pastorale.

Fu il poco successo dei due quadri esposti a Parigi nel 1900 ad allontanare il Michetti dalla pittura. Fu in questo innamorato della vita, sano, vispo, vegeto quanto un giovane, il desiderio di godersi ormai sulla sua collina, davanti al suo mare, la tranquillità e la fama conquistate con tanto lavoro?

Nel 1899 vendette a un berlinese mercante di quadri la Figlia di Jorio e tutto quello che aveva nello studio. Andai a Berlino a vedere quella mostra. Quando partivo - mi disse - Troverai là tutto il mio lavoro di vent’anni. Le pareti, i cassoni, le tavole del mio studio sono vuoti. Ricomincio da capo. Non ha più ricominciato. Il 5 marzo 1929 è morto, sereno come un patriarca, guardando dall’alto del suo animo impavido l’opera propria come fosse ormai l’opera d’un altro, in piena pace cogli uomini e con Dio. UGO OJETTI. (1932 - XVIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, pp. 48/52)..


Bibliografia:

1895 - Prima Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 112.

1907 - Il pittore F.P. Michetti mentre sta eseguendo il ritratto ad olio a Gabriele D'Annunzio nel suo studio di Francavilla a Mare, La Domenica del Corriere, Milano, anno IX, N. 22, 2 giugno, p. 11.

1909 - VIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 142.

1909 - Guido Marangoni. VIII esposizione Internazionale di Venezia. Pittori Italiani, Milano, Natura ed Arte, anno XVIII, n. 23, 1° novembre, p. 732.

1910 - IX Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 145.

1910 - La Bella Napoli - Natale e Capo d'Anno dell'Illustrazione Italiana 1910-1911, Milano, Treves, p. 13.

1922 - La Prima Internazionale d'Arte a Sanremo, La Cultura Moderna - Natura ed Arte, Milano, Vallardi, n. 5 maggio, p. 283.

1932 - (Ugo Ojetti) XVIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, pp. 48/52..

1932 - XVIII Esposizione Internazionale d'Arte - Venezia, 1932 X° 28 aprile 28 ottobre, Fascicolo di Maggio della Rivista Le Tre Venezie, anno VIII°, N° 5, pp. 253., 255

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