Nel 1894 viene commemorato a Modena con una grande Mostra retrospettiva.
Nel 1895 figura alla Prima Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con il dipinto: Idillio (proprietà del sig. Pietro Foresti di Carpi).
Alla V Esposizione di Venezia del 1903, viene esposto il suo dipinto storico: Funerali di Britannico.
- Vidi un tempo una curiosa caricatura: rappresentava un professore dell’Accademia modenese di Belle Arti, con una tuba alta come una torre, che si traeva dietro uno scolaro che pareva un nano; portava scritto: IL pulcino e la chioccia. La chioccia era il pittore Simonazzi, che lasciava cader la polvere sulle sue telo per vivere tutto pe’ suoi scolari, che pagava loro la carta e le matite, quando non l’avevano; il pulcino era Giovanni Muzzioli, lo scolaro di cui parvero fenomenali i progressi, e gli scarabocchi segni del genio.
A Modena si parlava di lui come d’una speranza della patria; al suo nome si facevano chioccare le dita; e Malatesta, il Nestore degli artisti modenesi, guardava sorridente al piccolo campione dell’arte. Dall’Accademia uscì con medaglie a carrettate: e suo padre, un orologiaio, stava calcolando quante molle e catene d’orologio dovevano rompersi, quanti vetri avrebbe dovuto rimettere ai cronometri per mantenere il figlio suo, la sua ambizione, alla Capitale.
La buona sorte volle che in quel tempo l’architetto Poletti, morendo, lasciasse il frutto delle sue onorate fatiche al Municipio di Modena, e istituisse nel testamento una pensione a favore dei giovani artisti modenesi, acciocché si recassero fra i capolavori dell’arte, a Roma, Firenze e Venezia. Il vecchio architetto dei Cardinali di Roma, una colonna dell’Accademia di S. Luca, un Don Chisciotte del classicismo, aveva fede di fornir così nuove reclute all’Accademia, e invece doveva servire all’educazione di pionieri dell’arte moderna.
Il primo di essi fu Giovanni Muzzioli. Vinse il concorso Poletti, e si mise in viaggio per Roma, piena la mente di baldi propositi, come s’egli andasse alla conquista del vello d’oro. Arrivò a Roma una sera rannuvolata e buia: la gran città gli parve tutta una rovina: si aggirò confuso, incerto, stanco: non ebbe ardire di metter piede sulla soglia degli alberghi, e s’addormentò in fine su una sedia in piazza Navona. Due vigili lo presero per un suonatore ambulante; lo scossero dal sonno; vollero sapere nome, cognome e patria; e poi l’accompagnarono a dormire in una locandaccia fetente, dove fiaccherai russavano in coro, e ricevettero con un grugnito il malcapitato compagno.
L’indomani andò all’Accademia di S. Luca per farsi inscrivere. Aveva immaginato un gran palazzo, adorno di statue, con un gran portone, un gran vestibolo; e invece trovava una casetta con un’arma da posteria sulla porticina; aveva immaginato grandi sale piene di getti dal vero; e invece trovava brutti corridoi, stretta la sala delle statue e nemmanco un’estremità cavata dal vero.
Un bidello gli mise innanzi un quadretto con nasi, occhi e bocche; e il giovinetto ar tista protestò con energia. Il bidello, allora, con aria di sovranità, fece due passi indietro esclamando: «Vuole imparare a far le figure senza il naso, lei!».
A poco a poco ingigantiva dinanzi a’ suoi occhi la città di Roma: sulle gradinate del Colosseo andava ogni sera a fumare un paio di sigari: scriveva del San Pietro con una confusione indiavolata e con lunghe schiere di punti ammirativi.
A scuola studiò sotto al Podestà. L’Asioli, a Modena, lo aveva educato al purismo di contorni; e là al contrario si disegnava con linee serpentine, e le vene prendevan la forma di serpi striscianti sulla pelle, sì che egli chiamava Lacoonti i suoi nudi; era stato educato ad ombrare le sue accademie con un forte chiaroscuro; ma all’Accademia di S. Luca si usavano tali masse d’ombre nere, che per usare una sua frase, i suoi chiaroscuri erano chiaroscuri senza chiaro.
Al principio del nuovo anno 1874, passò a dipingere sotto alla direzione del professore Coghetti, ma lavorava di mala voglia in quella scuola non animata da gara feconda.
Fuori della scuoia, trovava invece estasi d’artista in uno studiolo che aveva preso in affitto con un compagno, lavorando intorno a un quadro che doveva inviare a Modena come saggio.
Moriva in quell’anno il Fortuny; ed egli si piantò, con occhi sbarrati, in mezzo alla folla, cercando, fra le persone del corteo, il Morelli. Vide un uomo con un gran cappellone, un gran giubbone, una sciarpa al collo; china la testa pensosa; le sopracciglia corrucciate; lo sguardo penetrante. È lui! gridò, per ben persuadersi che il gran pittore era senza che alcuno glielo additasse. È lui! E gli corse dietro, divorandolo cogli occhi, quasi per ben persuadersi che il gran pittore era un uomo di carne ed ossa. Continuò a lavorare con furia intorno al quadro Abramo e Sara alla corte dei Faraoni, e nel marzo del 1875 lo portava a Modena.
Il quadro aveva il difetto di tutti i lavori giovanili, l’esuberanza; colori caldi, brillanti, visti coll’occhio di gioielliere; accessori ammonticchiati, portati via di peso da fotografie e dal Rosselini; per fondo una réverie dell’Egitto; ma intanto si rivelava anche la più bella virtù di un giovane pittore, l'audacia; la testa di Sara che spiccava sul fondo di granito; il patriarca Abramo che Sara allietava col suo sorriso, col suono dell’arpa, con le sue carni splendenti, con la sua veste bianca; e intanto il sole entrava dalla loggia lontana e fra i palmizi, schiarando la terra sparsa di fiori.
Quando dai centri popolosi, discende nelle piccole città qualche raggio d’arte, si rischiara il contrasto tra due arti: quella delle città minori, dove l’arte è passata solo pel follatoio dell’Accademia, e le teoriche e i sistemi hanno avuto campo di fabbricarsi baluardi, ed ogni nuova idea di affondare nel padule del convenzionale, appare smorta, stentata, floscia, impacciata; l’altra delle maggiori città, dove l’assimilazione è rapida e la rinnovazione perenne, appare invece rosea, fresca, giovane, disinvolta.
Non è a dire quindi come fosse accolto a Modena il quadro di Muzzioli; fu un fasto artistico, un trionfo; il pittor Narciso Malatesta e gli appendicisti dei giornali cittadini bagnarono nell’ acqua di rosa la loro penna: gli artisti brindarono al giovane pittore in un’agape fraterna; si applaudì con islancio e frenesia.
Tornò a Roma senza che i fumi del vino generoso versatogli dagli amici gli fossero saliti al cervello; disegnò con furia d’artista che sente quanto sia lungo il cammino dell’arte, fece mille abbozzi, copiò frammenti dell’antica Roma con la diligenza d’un antiquario.
Nel gennaio 1876, parti per Firenze, ove diede mano al quadro Poppea che si fa recare innanzi la testa di Ottavia. In quegli anni Nerone era di moda: il Cossa lo faceva declamare pei teatri; il poema dell’Hammerling, divenuto popolare in Italia, lo presentava come il prototipo d’un’epoca di corruzione; il Siemiradesky ne mostrava le tetre luminarie del tiranno; gli accademici buttavano dietro le tabacchiere al Nerone vestito da donna del Gallori.
Muzzioli fece pure il suo Nerone, mettendolo però nella penombra del suo quadro che intitolò, come abbiamo detto, Poppea.
Anche qui l’autore si preoccupò degli accessori tanto da perder d’occhio la linea della composizione e l’effetto del dramma: certi contrasti di colore lo distrassero, e l’accento principale lo trovò in un bel giallo folgoreggiante d’un tripode d’oro, fumante innanzi a una statua colossale di Giove in basalto nero.
Il saggio mirabile, del resto, per la maestria del disegno, per la novità e illusione della scena, fu accolto con plauso a Firenze e a Modena; destò polemiche; critici grandi e piccini s’affollarono nel pianterreno dei giornali cittadini; combattè per lui il Signorini; il Da Fosciano s’inforcò gli occhiali; e il Basini, traduttore dell' Ahasvero, fra il mazzo delle ortiche dei critici, pose un fiore di poesia.
Gli artisti di Firenze, e fra gli altri il Barabino, si accordarono per dare una cenetta ad onore del Muzzioli, e si promisero a vicenda di far l’invito ufficiale al pittore.
La sera destinata, gli artisti, riunitisi all’albergo, aspettavano che il Muzzioli occupasse alla mensa il posto d’onore.
Aspetta, aspetta, passa un’ora, e il posto d’onore è sempre vuoto.
- Ma chi l’ha invitato? - Alla domanda si guardarono in faccia l’un l’altro, e scoppiarono in una risata. Allora, come tanti segugi sguinzagliati, gli artisti corsero a cercarlo per Firenze; ma poi ritornarono, con una fame canina, e senza pensare più a Muzzioli, si misero a divorare la cena.
Muzzioli arriva all’osteria, e chiede la sua solita minestra, la bistecca e il fiasco; quando i compagni strepitanti lo assaltano d’improvviso, lo tirano di stanza in stanza, e con inchini profondi gli presentano… un piatto di bucce.
Dal ’76 prese stanza a Firenze, dove trovò numerosi amici in tutti i partiti artistici, e fu tra i primi che riuscirono a raccoglierli e a fondare scuole di costume e il circolo artistico.
A Firenze, allora, vi erano tre partiti artistici ben distinti: vi erano i Piagnoni, in gran parte avanzati d’età, che gridavano a squarciagola alla decadenza dell’arte; vi erano gli Arrabbiati dedicati a ricerche delicate di colore, di rapporti, di gradi di luce; nemici d’ogni autorità, che vedevano Bastiglie accademiche per ogni dove: caporioni il Gallori, il Signorini e il Lega; vi erano i Quattrinai, Vinea a capo e Tito Conti, Gordigiani, Andreotti e Gelli nel seguito: abitavano il rione dei Pinti: adoravano il tipo del masnadiere, del cicisbeo, del cavalier servente: erano innamorati come gazze dell’oro e del luccichio. Muzzioli ha un po’ di tutti, e natura mite e modesta, andava di pieno accordo con tutti; coi primi aveva comune l’amore al soggetto storico, coi secondi l’attenta e saporita intonazione, coi terzi l’amore allo splendido.
Nel 1877, il giovane pittore andò all’Esposizione di Napoli. Alla Torre Annunziata e a quella del Greco, rimase colpito dal cielo azzurro, dalle case bianche, da quella gente che formicolava al sole, in mezzo a un turbinio di polvere bianca; e allora pensò al l’Oriente, alla «terra del cedro e della vite…, dove una porpora intensa colora l’Oceano…, dove le vergini sono tenere come le rose che intrecciano ».
L’amore all’Oriente era il nastro color di rosa che collegava le diverse scuole d’Italia.
Nato frale fosforescenze di Fortuny e le malie della tavolozza di Regnault, produsse una vera migrazione dell’arte nostra in Oriente, pareva proprio che intorno all' artista italiano susurrasse il canto ispirato della Sposa di Abido.
Il vecchio Ussi correva al Marocco per cercare nuovi sorrisi dell’arte; il Bisco, del quale abbiamo pianto la morte si repentina lo scorso gennaio, si tuffava con lui in quei mari di luce; e intanto il Pasini errava sulle rive del Bosforo e sugli altipiani del Libano.
Muzzioli, fin da giovinetto, pose amore alle scene orientali; le illustrazioni della Bibbia disegnate dal Dorè erano per lui un incanto; ma a Roma abbandonò le fantasie e il caleidoscopio del Dorè per le forme vive e le iridi del Fortuny.
A Napoli poi le tele erano abbarbaglianti; il sole rideva sulle faccio bronzine di pescatori e di mozzi, vestiva i paesaggi di porpora, riscintillava nelle acque quadro era una battaglia di luce, ogni sog- delle marine. Morelli aveva attecchito; ogni getto racchiudeva un problema di luce.
L’arte tendeva al decorativo; e Muzzioli, troppo giovane, per non lasciarsi travolgere dalla corrente, non pensò più che ad ottenere col suo quadro un forte contrasto di colori, a mettere le sue figure al sole, a imitare il Fiore che aveva, piuttosto con una scopa che con pennelli, ottenuto un effetto potente.
Dominato da quella tendenza, abbozzò il suo quadro La Maddalena, quella bella peccatrice, che esce dall’ orgia, e guarda il Nazareno che passa fra una folla di poveri e di osannanti.
Le tendenze sfrenate e tiepolesche frenò all’Esposizione di Parigi del 1878: colà intese che l’arte non consisteva in uno sprazzo di colori, ma più nel sorprendere l’intima e fugace natura dell’espressione e del movimento. La scuola inglese, trionfatrice al Campo di Marte, sorprese il giovane artista per la potenza d’osservazione, per la semplicità di mezzi e l’efTetto straordinario che, si rivelavano specialmente nelle opere di Alma Tadema, di Herkomer e di Gregory.
Quando tornò a Firenze lavorò con idee più precise e più giuste, non pensò più a fare dei tours de force, e intese che l’arte per l’arte è un fine ozioso, come scrisse il capitano del realismo. Gustavo Coubert.
Nel suo quadro La Maddalena rimase tuttavia l’influenza della scuola del Morelli, anche nel modo di interpretare la tradizione religiosa. Muzzioli tentò di staccarsi dalle forme consuetudinarie nel rappresentare la Maddalena, invece di un quadro di devozione fece un quadro di storia, e ci diede nella Maddalena una vaga figlia dell’Oriente dominata dall’entusiasmo della folla che segue il Nazareno.
Chi non ricorda quel quadro? Quanta esuberanza di vita, quanta baldanza di forme! Da un cielo senza nubi piove la luce sulle teste dei bambini dalle carni opaline; su faccie di vecchie giallastre, bronzine e nere; su cappucci e caic variopinti; sui palmizi trasparenti, sul granito; solca il volto della Maddalena, e si riverbera infocato sotto alle nere sue ciglia. Il giallo domina nel quadro come nella natura fortemente illuminata dal sole; il contrasto di tutte quelle tinte calde è forte ed armonico; il colore locale tradotto con felici ardimenti; l’indagine del vero continua, ardente, acuta. L’artista qui è riuscito a colpire la sorpresa, una delle emozioni più difficili da riprodurre dall’arte, in modo da trovar riscontro colle descrizioni di Darwin, il grande notomista dell’espressione; è riuscito ad abbandonare l’artificiale fusione di tinte degli altri suoi quadri. L'artista era già fatto!
All’Esposizione di Milano del 1881 abbiamo ammirato il suo quadro, Al tempio di Bacco, che ha riportato il premio Cantò, il premio assegnato al miglior quadro storico di quell’Esposizione.
Per una gradinati si sale all’ara del dio, dalla quale s’alza il fumo odoroso degli unguenti. Nel primo piano, sul plinto d’un grandissimo otre, siede un ebro con la testa richina sul petto, con le braccia rilassate; mentre Vistilia, vestita come una bassaride, salta innanzi a lui, scuotendo il tirso e un timpano, sorridente di voluttà. Nel fondo, presso all’ara di Bacco, suonatori danno fiato alle tibie, e vaghissime fanciulle, coronate di fiori, seminude, intrecciano una danza vertiginosa. Qua e là i segni del disordine e dell’orgia; un tirso sur un gradino, foglie sparpagliate di rose e di palme; e ai piedi dell’ara, steso un ubriaco, cogli occhi lucidi, e stringendo al petto il suo otre. Il concetto nacque fra due libri elzeviriani, le Odi barbare del Carducci e le Scene tiberiane del De Zerbi; ma il vero padrino fu l’inglese Alma Tadema, che con le sue Scene romane rapì a Parigi il nostro giovane pittore.
Al Tempio di Bacco è il quadro di Muzzioli più semplice e più equilibrato nelle parti. Dapprima appare un po’ basso di tinte, un po’ scuro, un po’ cenerognolo, ma più si guarda, più diventa vero, gaio, chiaro e colorito. L’intonazione ne è perfetta.
E finito senza leccature e senza durezza; e l'occhio riposa su quelle forme non nascoste fra le sfumature, le macchie e gli artifizi.
A chi interroga il vero con tanto amore, l’arte sarà sempre prodiga di baci e di corone!
Paolo Zani, 1909.
Bibliografia:
1894 - Il pittore Giovanni Muzzioli, m. il 5 agosto a Modena, L'Illustrazione Italiana, Milano, Anno XXI - 2° semestre, p. 111.
1894 - Ara funebre pel pittore Muzzioli, L'Illustrazione Italiana, Milano, Anno XXI - 2° semestre, p. 126.
1894 - La Maddalena, Abramo e Saba, Idillio pastorale - (G.) L'Esposizione Muzzioli a Modena, L'Illustrazione Italiana, Milano, Anno XXI - 2° semestre, pp. 380, 383.
1895 - Prima Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 116.
1903 - Vittorio Pica, L'Arte Mondiale alla Quinta Esposizione di Venezia, Bergamo, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, p. 101.
1909 - Paolo Zani, Giovanni Muzzioli e le sue opere. Milano, Natura ed Arte, anno XVIII, n. 17, 5 agosto, pp. 301/311, tav. f.t..