Nasce a Roma l’8 giugno 1843, dove muore il 7 marzo 1921.
Nel 1910 alla LXXX Esposizione di Belle Arti a Roma, espone tre dipinti.
Nel 1913 figura all’VIII Esposizione dell’Associazione degli Artisti Italiani, che si tiene nel Palazzo Strozzi di Firenze, presenta otto dipinti ad olio, dodici acquerelli e due acqueforti: La lettura, Al Tabernacolo.
Nel maggio-ottobre 1921 viene ricordato alla 1^ Esposizione Biennale Nazionale d’Arte della Città di Napoli, con il dipinto: La fioraia.
Dal 10 settembre al 9 ottobre 1955, figura con le incisioni: La lettura, Il tabernacolo del pastorello, alla Mostra della Acquaforte Italiana dell’800. Rassegna storica. a cura Ente Provinciale Turismo di Reggio Emilia, che si tiene a Milano, presso la Soc. per le Belle Arti ed Esposizione Permanente.
Joris Pio
Oggi che l’arte pittorica si va, sovente, perdendo dietro sforzi grotteschi per esprimere le più strane idee con la tecnica più assurda, per fare, insomma, a tutti i costi del nuovo, è quasi di sollievo fermare 1’ occhio sui quadri di quei nostri vecchi artisti che seppero ispirarsi a sani principi. Essi rappresentano per noi la buona tradizione, e ciò che hanno compiuto con assiduo e austero lavoro, resterà come un edificio costruito solidamente.
A questa nobile schiera appartiene Pio Joris, che in 40 anni di vita artistica ha messo insieme tutta una pinacoteca. Egli è di quella scuola di impressionisti di cui gli ultimi campioni furono Giacomo Favretto e Angelo dall’Oca Bianca. Scuola sempre viva di fronte alle arditezze sovente insane ed ingiustificate di coloro cui lo studio della luce aveva creduto di poter consentire un non ancora scusabile disprezzo delle regole elementari del disegno e della stessa pittura; scuola che resiste al tempo perché profondamente onesta e coscienziosa. I quadri di Pio Joris stanno fra quelli della scuola storico-romantica del Vannutelli e del De-Sanctis e l’impressionismo non superficiale di maestri come il Morelli e il Celentano.
Nato in Roma l’8 giugno 1843, da genitori di modesta condizione sebbene di nobile stirpe (il suo nome è di origine fiamminga e il ramo della sua famiglia passò nel Trentino fin dal secolo XV col titolo di conte), Pio Joris giunto all’adolescenza seppe che si voleva fare di lui un orologiaio o un prete. L’idea non era del padre, un antiquario archeologo innamoratissimo dell’arte antica, ma, forse, di amici di famiglia. Però rimase tale, poiché il caso volle che il giovanetto s’incontrasse con un pittore napoletano, Edoardo Pastina, paesista di straordinaria facilità, quasi un secondo Luca fa presto, capace di cominciare e finire un quadro in un sol giorno. Egli lo tenne a cresima e gli infuse la passione per il paesaggio. Il piccolo Joris, vedendo lavorare quell’uomo così speditamente, si convinse che fare il pittore fosse la cosa più facile di questo mondo. Solo quando provò a dipingere alberi venne il disinganno. «Non sarò mai pittore - egli disse scoraggiato - poiché non so fare le foglie ad una ad una». Tuttavia sperò nell’avvenire.
«All'età di dodici anni, cioè nel 1855, narra egli stesso nel volume “Infanzia e giovinezza di illustri italiani contemporanei” - entrai nell’Istituto di Belle Arti, allora dipendente per gl’insegnanti dall’Accademia di San Luca. Sembra che io vi abbia fatto progressi, poiché, dopo sei anni, avevo preso parte a tutti i concorsi, riportando quasi sempre i primi premi. Da allora fino al 1861, anno in cui fui premiato per il nudo e per la prospettiva dal vero, avevo, nello studio del compare, fatto pratica di colori, se non di colore, eseguendo copie dall’antico, tanto su tela quanto a pastello; sicché non riuscii nuovo nella scuola della pittura all’Accademia e vi stetti un solo anno.
«Nel 1861 mio padre mi condusse a Firenze, dove, per un paio di mesi, potei ammirare lo splendore dell’arte del Rinascimento che solo quella città può mostrare.
«Ivi copiai il ritratto del Cardinal Bembo, di Raffaello e molti disegni di Andrea Del Sarto nel chiostro dell’Annunziata. Feci anche, per volere di mio padre, la copia del quadro: L'Adorazione del fiammingo Van der Werf. Dovetti, però, per gusto altrui, cambiare la testa della Madonna, sostituendola con un’altra di Raffaello; sicché dubito di esser riuscito perfettamente a metter d'accordo i due originali.
«Uscito dall’Accademia con un corredo di medaglie scolastiche, credetti di aver fatto Dio sa che; ma ben presto mi accorsi che esisteva un mondo diverso da quello sognato nell’Accademia di cui non avevo idea e vidi la prima Esposizione di Firenze.
«Le opere di Domenico Morelli, Filippo Palizzi, Eleuterio Pagliano, Giuseppe Nitti. Saverio Altamura furono per me una rivelazione, tanto che al mio ritorno a Roma ne entusiasmai Mariano Fortuny, il quale non frappose indugio. Volò a Firenze e da Firenze a Napoli per conoscere ed abbracciare il Morelli ed il Palizzi.
«Dopo aver fatto la conoscenza di quel mondo da me prima ignorato, dissi fra me: « Quibisogna ricominciare da capo.».
Alternò, quindi, al lavoro retribuito a giornata, lo studio dal vero, e cosi giunse fino al 1866, anno in cui conobbe Achille Vertunni e vi si strinse in un’amicizia intima che svelò gli ultimi misteri dell’arte alla sua anima. Egli intese come cadergli una benda davanti agli occhi, e vide chiaramente ciò che doveva fare.
Nel 1867 mise su uno studio, e due anni dopo ebbe la visita di un pittore tedesco, Wider, incaricato di scegliere le opere degli artisti romani per la 1° Esposizione Internazionale di Monaco di Baviera. Egli gli consigliò di finire un quadro appena cominciato, La Via Flaminia in una mattina di Domenica. Il consiglio fu buono, poiché Pio Joris ebbe nel settembre successivo la medaglia d’oro di 1° classe per la pittura, mentre Giulio Monteverde la conseguiva per la scultura. «Andai a vedere l’esposizione prima del giorno della distribuzione dei premi, a cui neanche pensavo. Cercai il mio quadro con paura; e, quando lo vidi, benissimo esposto, lì per lì non Io riconobbi, tanto mi pareva impossibile di aver potuto fare quel quadro che fu venduto subito con piena mia soddisfazione. Un’impressione si favorevole è rarissima, perché agli artisti succede quasi sempre il contrario quando rivedono i loro lavori fuori dello studio».
Questo quadro piacque tanto al pittore Faruffini, finito, cosi infelicemente, vittima di una strana mania, che volle egli medesimo degnarsi di fotografarlo.
Fino al 1875 Pio Joris lavorò per il Goupil di Parigi. Nel 1879, ad un’altra Esposizione di Monaco di Baviera, ebbe un secondo premio e fu decorato nell’ordine bavarese di San Michele di 1° Classe. Nel 1888 mandò all’Esposizione di Belle Arti di Roma un gran quadro, La fuga di Eugenio IV, che venne acquistato dal Governo per la Galleria d’Arte Moderna. Nel 1900 all’Esposizione Mondiale di Parigi vinse la medaglia d’oro di 1° classe, e fu decorato della Legion d’Onore per i due quadri: La processione delle ammantate e Il Giovedì Santo. Nel 1901 quest’ultimo otteneva a Dresda un’altra medaglia d’oro. Oggi si trova nella Galleria di San Luca, che lo acquistò con il lascito Muller (L. 11.000).
Pio Joris prese parte a parecchie altre esposizioni ed oggi le sue opere arricchiscono molte Gallerie fra cui quelle nazionali di New York, Stuttgart, Budapest.
Anche i palazzi reali d’Italia ne raccolgono parecchie, poiché Re Umberto e la Regina Margherita ebbero per il forte pittore una speciale benevolenza.
Di statura media, semplice nel vestire come nelle maniere, con una fluente barba bianca che accentua la simpatia del suo benevolo sorriso, Pio Joris passa la nobile vecchiaia ancora nel lavoro.
Nello studio che dà su quella Ma Flaminia tante volte illustrata nei suoi quadri, egli può trovarsi quasi in tutte le ore del giorno innanzi al cavalletto. E per lo più intento a rifare, poiché ha, in misura oltremodo accentuata, l'incontentabilità dei lavoratori seri, degli artisti di razza. Poche delle numerose sue opere si salvano da questo rimaneggiamento: la maggior parte, pure conservando la loro fisonomia, vengono modificate. E là dove appariva un branco di pecore è sostituito un prato verdeggiante, là dove potevano vedersi molte figure se ne vede qualcuna di meno. Non sempre nel rifare l’artista migliora: tuttavia sempre ha questa specie di ossessione.
Quando Pio Joris aggirandosi sorridente fra le opere sue, prende a discorrere degli acrobatismi dell’arte moderna è piacevolissimo. Con parola arguta egli mette in ridicolo la mania del nuovo che anima smodatamente i giovani di oggi. Pur riconoscendo che i gusti del pubblico sono mutati e che i quadri i quali piacevano 40 anni fa non piacciono più oggi, non sa intendere come possa accettarsi presentemente tutto ciò che trasmodi, dalle vecchie regole dell’arte, e soltanto per il fatto che trasmodi.
- Rinnovarsi, sta bene. Ma a momenti, per essere originali, si dipingono le figure con la testa in terra e i piedi in aria, si aboliscono la prospettiva e i piani…
Gli ultimi lavori di Pio Joris non sono, certo, informati alla tecnica dei primi: ma essi conservano, tuttavia, un carattere di grande serietà d’arte.
Pio Joris in 40 anni di vita artistica ha, lavorando assiduamente, dipinti una quantità enorme di quadri.
Egli ha affrontato i generi più diversi: dal paesaggio alla figura, alla composizione, si può dire che non vi sia stato soggetto che non l’abbia attratto. E il suo pennello ha prodotto sempre opere egregie, sia quando ha voluto fissare lo squallore o l’allegria chiassosa di una strada, che quando ha voluto darci la rappresentazione vivace di tipi e costumi caratteristici. Egli ha illustrato come nessun altro pittore italiano contemporaneo, Roma nei monumenti e nella vita: ha saputo cogliere la grandezza delle sue memorie storiche e ha saputo discendere nell’animo del popolo per rendercene le più tenui vibrazioni. Si potrebbe comporre, con questa sola categoria di quadri, un magnifico album.
Ma egli ha fatto altro ancora; ha ritratti costumi ed usanze pittoresche della romantica Spagna, ove passò qualche anno della sua giovinezza; ha riprodotte le scene popolari dei dintorni di Napoli, da Capri a Sorrento ove per qualche tempo ebbe a studiare col Vertunni. E sempre con una luminosità, una festa di colori che allarga il respiro.
La Via Flaminia è stata da lui, dirò così, esaurita. Prima ancora che la penuria delle abitazioni la rendesse quasi un centro di vita, quando essa difettava di case ed aveva l’aspetto selvaggio delle strade campestri. L’artista la studiava in tutte le ore del giorno. Cosi nacquero quei tre quadri che, come in un ciclo, ce la rappresentano sotto i suoi vari e diversamente seducenti aspetti.
Verso il 1809 chi si fosse recato nelle prime ore del mattino fuori Porta del Popolo avrebbe potuto assistere ad uno spettacolo che oggi non c’è più: al passaggio di carovane di butteri, di schiere di ciociare, che conducevano armenti e offrivano in vendita i prodotti dei campi. E questo spettacolo riproduce uno dei primi quadri di Pio Joris. Sotto un cielo appena rischiarato da pallidi riflessi di luce, si raccolgono, camminano, discutono gruppi di contadini venuti dalle campagne, accanto al gran cancello di Villa Borghese su cui emergono le cime di alberi che rinascono alla vita.
Lo sfondo si presenta nebuloso per la tenuità della luce. È un quadro vivo, che offre una visione larga del luogo e dell’ambiente. Anche in quell’epoca, assai più che oggi, nei giorni festivi la storica strada era percorsa da popolani che a piedi o su barroccini, in abito di gala, si recavano a pranzo nelle trat-torie del piazzale di Ponte Milvio. E un altro quadro del nostro artista - quello che segnò il primo suo grande trionfo all’Estero - la ritrae sotto questa sua fisonomia gaia. Siamo sempre alle prime ore del mattino; ma dagli abiti, dagli atteggiamenti, dallo stesso passo delle persone si vede subito che non è giorno di lavoro, ma di spensierato, giusto riposo.
Nei giorni di mal tempo Via Flaminia è, tuttora, ed era tanto più oltre trent'anni fa, impraticabile per il fango che la imbratta e per i venti che convoglia. Un terzo quadro ce la ritrae sotto questo suo nuovo aspetto. Le donne, quasi sgomente per la mota e per l’acqua, affrettano il passo proteggendo le teste sotto scialli rialzati a guisa di cappuccio; gli uomini che hanno la fortuna di possedere uno di quegli ombrelloni verdi banditi dall’estetica moderna con danno non lieve delle nostre persone, vi si ricoverano come sotto una capanna; le stesse pecore, menate avanti dal pastore, curvano la testa avvilite sotto lo sferzar dell’acqua. Tutto in questo quadro esprime lo squallore: il plumbeo del cielo, i rami degli alberi abbassati e gocciolanti, l’incedere delle persone e degli animali, lo stesso aspetto delle case che quasi appaiono bagnate.
Altra caratteristica di Roma sono le piazze in cui si raccolgono, nei giorni di bel tempo, condotti dalle bambinaie, nugoli di fanciulli, o in cui si tengono periodiche fiere. L’arte di Pio Joris se n’è impadronita: Ed ecco la Piazza Navona animata da bambini che si baloccano mentre le loro accompagnatrici più giovani scambiano sorrisi e parole con gl’intraprendenti popolani. Ecco tutta una serie di quadri che riproducono i diversi angoli di Campo dei Fiori, dove, ogni mercoledì, sopra baracche ambulanti, si vendono le cose più disparate, dal pesce alle frutta, dai fiori alle stoviglie, alle uova, agli abiti, ai libri perfino ed alle gioie. Ogni particolare è osservato in questi quadri, dalla disposizione della folla agli atteggiamenti della sua fisonomia. Si direbbero istantanee fotografiche tanto sono vivaci e movimentati. Quanti altri aspetti della Città Eterna non hanno sedotta l’arte di questo pittore? Il grandioso Ponte Sisto, uno dei più antichi di Roma è il tema di un altro suo bellissimo quadro che ha la luce tenue del tramonto. Il ridente Laghetto di Villa Borghese, intorno al quale egli si è compiaciuto di raccogliere dame e gentiluomini nel costume del secolo scorso, ci appare con tutti gli effetti delle sue ombre e dei suoi riflessi di luce, in una nuova sua tela. Il Tempio di Pallade, con lo strano contrasto delle botteghe scavate alla base delle ciclopiche mura, è dipinto da lui con grande maestria. E Villa d’Este, in cui sono raccolte a merenda delle persone nel costume spagnolo del 700 egli offre pure al nostro occhio in tutta la sua magnificenza.
Ma fra le opere di Pio Joris che eccellono sopra tutte le altre due ve ne sono veramente mirabili: La processione delle ammantate in San Pietro e Il Giovedì Santo nelle chiese di Roma. Sono quadri di grandi dimensioni, composti con una tecnica larga e sapiente. Il primo rappresenta la tradizionale processione che si tiene nella basilica vaticana da tempo immemorabile nell’ottava del Corpus Domini.
La chiesa è parata a festa, con grandi liste di damasco rosso e oro sui pilastri adiacenti alle colonne, ed una schiera di fanciulle biancovestite la percorre, a passo lento, turibolando incenso: precede la croce fra due fanali, e seguono, sotto un baldacchino, alti prelati. Il contrasto del bianco niveo dei manti delle donne con il rosso acceso degli addobbi del tempio ha sedotto l’artista e gli ha suggerita una vera opera d’arte. Il secondo quadro rappresenta, come abbiamo detto, Il Giovedì Santo nelle chiese di Roma. Sui gradini dell’altare, coperti da un gran drappo rosso, poggia un grande crocifisso innanzi a cui si genuflettono, in atteggiamento contrito, delle pie donne che conducono in braccio o a mano dei bimbi. In fondo, altri fedeli si avviano alla visita pietosa. Il quadro, di una grande suggestione, è condotto con mano maestra.
Numerosi sono i lavori di Pio Joris che riproducono scene caratteristiche della vita romana: li chiamerei macchiette se la parola non sembrasse poco riguardosa. Essi hanno della macchietta la fisonomia piccante, poiché riassumono l’attimo fuggente d’un gesto che esprime tutta una situazione. Ora è un gruppo di cittadini che comprano ad una di quelle banchine installate, in determinati periodi dell’anno, anche per le principali vie di Roma, una cartella della tombola, e fra loro si consultano come per distribuire il danaro che saranno, forse, per vincere; ora sono alcune donnicciuole che si affollano intorno ad un frate per chiedergli numeri da giuocare al lotto; ora è un capannello di uomini e ragazzi che, con aria attonita, ascoltano i racconti del classico cantastorie. E le scene che esprimono le occupazioni più semplici del popolo come quelle che riproducono una figura caratteristica sono degne compagne a questi quadri.
Pio Joris ha sentito la serena semplicità dei contadini e ha voluto ritrarre qua la mamma che, mentre gira l’arcolaio, fa dondolare con un piede la rustica culla del bambino a cui volge gli occhi amorosi; là il mercante ambulante di stoffe; più oltre un pasto frugale compiuto frettolosamente presso un casolare di campagna. Anche le lavandaie confuse fra la spuma bianca dei panni sciorinati al sole hanno fornito il tema di diversi suoi quadri.
Fra le opere di Pio Joris che non vanno dimenticate ricorderemo, per conchiudere. La fuga di Eugenio IV; Il poeta; Il prete antiquario; Dopo la benedizione; che rappresenta l’uscita del popolo da una chiesa di Capri ed è assai ben movimentato; Un battesimo ad Ischia, in cui, oltre alla maestà del paesaggio, è notevolissimo raggruppamento festoso dei fanciulli; Un trio a Toledo che ci dà la visione esatta d’una di quelle romantiche serenate spagnole; infine Lo studente a Granata, una scena animata da un fine sentimento di poesia.
La fuga di Eugenio IV è, fra le opere di Pio Joris, una delle più degne ed è delle poche che figurano con onore nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, dove, purtroppo, si raccolgono troppe meschinità. Il nipote di Gregorio XII che, eletto Papa nel 1431, si oppose al concilio di Basilea propugnante l’unione della Chiesa d’Uccidente e d’Oriente, che riconvocò il concilio di Firenze e resistette all’antipapa Felice V e ad Alfonso d’Aragona, è rappresentato, nel mirabile quadro, mentre, camuffato da Benedettino insieme al prefetto di polizia, fugge sopra una barca dalla Città Eterna.
L’artista ha rievocata la scena nel momento in cui toccava il suo punto culminante. Eugenio IV, animo timido, dovette essere preso a viva forza dal prefetto di polizia e buttato nella barca che, sotto la luce tenue del tramonto, attendeva a Ripa Grande. Ciò attrasse l’attenzione del popolo e molti cittadini, gridando clamorosamente, salirono sopra un’altra imbarcazione per tagliare la strada al fuggitivo. Ma questi potette sottrarsi dall’inseguimento e proseguire il cammino fino ad Ostia. L’istante supremo è fissato nel quadro di Pio Joris in tutta la sua tragica solennità. Quei pochi uomini sembra che scivolino sulle acque protetti dalla penombra e dal silenzio. Il Prete Antiquario fu ispirato al pittore dalla visita alla bottega gestita appunto da un sacerdote antiquario, ed è una gustosa macchietta.
Il negoziante in abito talare si aggira fra un assortimento di oggetti i più disparati, e quella sua figura segaligna pare quasi in armonia fra tutte quelle anticaglie. V’è in questa composizione una sottile punta ironica, o sembra che vi sia.
La rievocazione delle scene popolari napoletane è assai viva nei due quadri eseguiti a Capri e ad Ischia.
Quella ingenua pietà religiosa che spinge cittadini ad ornare con festoni di semplice carta velina colorata o con piccole lampade rudimentali, le facciate delle Chiese, che fa accorrere in fretta le donnicciuole, con un velo pudico sulla fronte, nei tempii a biascicare, fra un segno della croce e l’altro, giaculatorie; quella pomposità contadinesca con cui si accompagna la cerimonia del battesimo, e che attrae il vicinato desioso di curiosare, di… criticare; tutto questo l’artista ci ha reso con pochi tocchi sapienti. Basta guardare la disposizione della folla, le espressioni dei volti, per ricostruirlo.
Negli altri due quadri, eseguiti entrambi a Granata, la gaiezza dei colori ha voluto esprimere la vivacità allegra delle scene.
I pittoreschi costumi nazionali che nel Trio e nello Studente indossano uomini e donne, hanno, in virtù del pennello dell’artista, un rilievo singolare. Essi armonizzano perfetta mente con l’ambiente e rendono le due opere due belle e larghe visioni di vita.
Oggi Pio Joris ha 66 anni. E sebbene abbia già tanto lavorato, continua a dipingere, senza esaurirsi, quadri su quadri. La nuova generazione, che, sovente, troppo presto crede d’aver fatto abbastanza per dormire sugli allori, più o meno discutibili, ne consideri l’esempio.
Arturo Lancellotti, 1909.
Bibliografia
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1909 - Arturo Lancellotti, Arte artisti: Pio Joris, Natura e Arte, n. 18, 20 agosto, Milano, Vallardi, pp. 363/376.
1909 - Onorato Roux, Illustri italiani contemporanei, Memorie giovanili autobiografiche, Vol II - Artisti, parte seconda, Firenze, Bemporad, pp. 129/135.
1910 - Arturo Lancellotti, La LXXX Esposizione di Belle Arti a Roma, Natura ed Arte, Milano, Vallardi, N. 11 - 5 maggio, p. 728.
1913 - VIII Esposizione in Firenze, catalogo edizione ufficiale illustrata, Palazzo Strozzi, Associazione degli Artisti Italiani, p. 177/178.
1921 - 1^ Esposizione Biennale Nazionale d’Arte della Città di Napoli, catalogo mostra, Napoli, maggio-ottobre, p. 38.
1955 - Luigi Servolini, Dizionario Illustrato degli incisori italiani moderni e contemporanei, Milano, Gorlich, p. 420.
1955 - Mostra della Acquaforte Italiana dell’800. Rassegna storica. a cura Ente Provinciale Turismo di Reggio Emilia, catalogo, Milano, Permanente, p. 38.
1985 - Paolo Bellini, Storia dell’incisione moderna, Bergamo, Minerva Italica, p. 449.
2003 - Zeno Davoli, La Raccolta di Stampe “Angelo Davoli”, volume V, Gr-L, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, p. 170, 175 ill.