Bignotti Umberto

pittore
Castiglione delle Stiviere (MN). 1884 - Castiglione delle Stiviere (MN). 1926

Nasce a Castiglione delle Stiviere (MN) nel 1884, vi muore nel 1926.

Dal 1901 al 1903 frequenta la scuola “Moretto” di Brescia, nel 1910 frequenta l’Istituto Superiore d’Arti Decorative di Bologna; nel 1911 frequenta i corsi della Accademia di Belle Arti “Cignaroli” di Verona. Da questo momento Bignotti, dotato di una personalità già formata, inizia a dipingere in grado di utilizzare una buona tecnica.

Chiamato alle armi, parte per la guerra nel 1915, ritorna a Castiglione nel 1917 con le braccia quasi paralizzate a soli trentatré anni; poi un aggravamento lento e inesorabile della malattia lo porta alla morte dopo nove anni.

Viene presentato nel 1939, alla Mostra dei Pittori, Scultori e Incisori Mantovani ’800 e ’900, a Palazzo Te di Mantova con venticinque dipinti: Case a Castiglione, Vecchio, Sera, Ritratto di Cia Bonati, Castiglione delle Stiviere, Nudo, Ritratto, Casolare, Nudo, Casolare, Vecchio, S. Maria di Castiglione, Riratto del padre, Paesaggio, Ritratto della moglie (tempera), Paesaggio, Ritratto, Le Muradelle, Ritratto del padre (tempera), Ritratto di Elsa Chiarini, Castiglione (panorama), Vecchio, Castiglione, Paesaggio, Chiesa.

A questo proposito Alfredo Puerari sulla La Voce di Mantova il 25 maggio scriveva:

“Spiritualmente egli appartiene a questo secolo nel momento di dissidio con l’altro, con eredità e formazioni culturali da accettare e respingere. In lui si avvertono i risultati dell’impressionismo, inseriti entro schemi spesso scolastici che vorrebbero, reagendo, ridurne la formula oramai, nel senso di una plasticità piena della forma. Dare autonomia costruttiva al colore, mantenergli quasi un senso di peso, di sostanza compatta, ma non pietrificata, conservata fluida con un suo interno luccicare e chiaroscurarsi, provare la gioia della ricostruzione fisica, sentirne il coagulamento nel liberarla dalla sua fragilità: questo appare in molti tratti della sua pittura di alta esigenza spirituale e formale; e il risultato ne è una forma faticata tutta di tono e di pasta, modellata e modellabile ancora, si direbbe, vegetalmente umida, non sempre maturata e disintossicata da un pieno calore di vita.

Di quanta scuola non si dovette alleggerire e come al tempo stesso ne sentì l’esigenza assoluta; dal 1901 al 1903 alla scuola “Moretto” di Brescia, nel 1910 studente all’Istituto Superiore d’arti decorative di Bologna, nel 1911 allievo “esemplare”, ci viene riferito, dell’Accademia di Belle Arti di Verona. E la natura intima del suo stile di raro condotto alla piena estrinsecazione di sé, è così personale e fuori degli assuefacimenti accademici. Dove questi sono riecheggiati noi abbiamo l’impressione di sorprendere tutti gli elementi di una tavolozza non concorde, che un’altra pittura comincia su quello studio, anche se a quei colori opachi e acquitrinosi, che si sfanno e seccano in una macchia slavata sotto cui compare la tela, sappiamo che è mancata la vitale elaborazione di una mano obbediente, per la disgrazia che colpì nel corpo il pittore. Pochi anni ebbe di lavoro, di responsabilità di fronte alla coscienza della propria arte. In guerra nel 1915, ritorna a Castiglione nel 1917 con le braccia quasi paralizzate a trentatré anni; poi una lenta agonia di nove anni. Ci hanno parlato di quando andava per le vie di Castiglione con un leggero mantelletto nero che gli veniva appuntato con uno spillo perché non gli scivolasse dalle spalle, di passeggiate con un suo allievo lungo la periferia, di alcuni insegnamenti a voce non potendo più la mano tracciare più una pennellata, della povera casa e delle poche cose rimaste nell’incuria dopo la sua morte, e s’è riconosciuto il significato spirituale e a tratti persino fisico della forma pittorica. Nel graduale irrigidirsi della mano forse gli s’affrettò quel processo d’eliminazione di certe durezze strutturali di contorni segnati accademicamente, insensibili ed estranei al colore, ed anche sarà stato portato a semplificazioni intense e disperate d’espressione. Nel contare tutto sulla pasta cromatica e quasi su un suo coagularsi morbido nel colore dei toni, rispetto a quei contorni, i piani spesso sfuggono su in superfici decorative con un’ottima esposizione di tavolozza ma ancora con scarso peso e profondità. E ci soccorre il sapere che egli esercitò a lungo prima dell’ultima accademia, il mestiere di decoratore. Per cogliere il passaggio da un sentimento del colore in superficie a quello in profondità plastica si osservino i due nudi, quello steso, di pezzo anatomico, e l’altro raccolto in se stesso, di fianco, e se ne senta la tragicità: nell’uno rende il disfacimento della carne con forti pennellate essenziali entro una atmosfera squallida, nell’altro lo smarrimento fisico di una natura umana svelata come un’erba bianca sepolta nell’ombra, e sostiene questa cupezza con la forza di un tono mattone resistentissimo alla profondità, accogliente quel brivido di pennellata fluida tra bianca e rosea che lascia sentire nella sua pietosa tenerezza l’infinita solitudine e miseria di quel fisico d’uomo. Può sembrare il suo un mondo di decomposizione, la sua un’arte “decedente” e a prospettarci al confronto i modelli di pacifica salute ottocentesca, “malata”, ed essa lo è in quanto al mondo che presuppone, smarrito, doloroso, e là dove non sorreggendolo l’arte esso si svela nella sua crudezza; ma nobilissima e purificata e liberata della sua pena dove la forma accoglie il suo tormento interiore e gli assegna sicura espressione. Troveremo piuttosto il mancato, non il falso e nel primo riconosciamo gli intenti, le ricerche della prossima generazione.

Nel ritratto di Cia Bonati c’è ancora un’impostazione nettamente convenzionale affiorante dalla pennellata tutta ricerche di morbidezza e insistenze su toni olivastri d’ocra pallidamente rosati alle guance, ma scarse di vita per lo statico indugio della ricerca di profondità, non comunicate sufficientemente all’insieme; così che di quel volto interessantissimo rimane soffocata la vita interiore che ci s’aspetterebbe più effusa. Nel Vecchio non è superata la sua origine illustrativa con l’accavallamento di colore non assimilato dalla forma entro cui vorrebbe comporsi, lasciandone allo scoperto le intenzioni strutturali nel gioco ancora della prova delle pennellate.

Il Paesaggio ha buon ritmo di disposizione cromatica e chiarezza persuasiva di rapporti che però per la diminuita profondità del cielo porta avanti i piani, esposti così in crudezza d’elenco, in varia dimostrazione astratta di bell’ordine decorativo. In Santa Maria di Castiglione la ricerca di profondità è persino imposta e cercata in un paesaggio senza cielo, in quello scendere a imbuto di pendii e vallette in cui i verdi innumeri di tono hanno via via sempre più peso e levità senza che il fondo della valletta sia cieco per la libertà di tutte le gamme di verde su e giù per ombre raccolte e l’una all’altra legatissima.

Non sono da dimenticarsi Le Muradelle, sereno e vivido acquerello, aperto, definito con energia in pochi tratti d’ampia prospettiva di piani di colori ricchi e densi di vibrazione in una atmosfera di luce bianca su verdi densi e caldi, il paesaggio di Castiglione delle Stiviere; la pennellata tiene tutto ilo colore nella mobilità della luce senza essere flaccida di pasta, non più acquosa e di riflessi d’acquitrino, bensì di schietta luminosità. Anche qui si ha una buona misura del superamento d’un contrasto formale che era la fatale conseguenza d’una vita interiormente divisa. Negli altri ritratti, escluso quello della moglie, specialmente la parte in ombra, i contorni sono duri e il colore o fa sentire la tela a la superficie, e i piani che ne derivano sono cartacei, lasciando lo strano senso di disagio del non finito anemico che si ripiega con la sua povera vita su se stesso.”

Dopo un lungo periodo di silenzio, l’artista viene presentato nel 1983 alla mostra “dal Mincio al Naviglio” a Gazoldo degli Ippoliti.


Bibliografia:

1939 - Alfredo Puerari, La Mostra dei Pittori, Scultori ed Incisori mantovani dell’800 e 900, Mantova, catalogo mostra, pp. 38, 39;

1939 - Alfredo Puerari, La Mostra di pittura ottocentesca mantovana, La Voce di Mantova, 25 maggio, p. 3;

1939 - Alfredo Puerari, La Mostra di pittura ottocentesca mantovana, (IV), La Voce di Mantova, 16 maggio, p. 3;

1939 - Alfredo Puerari, La Mostra dei Pittori, Scultori ed Incisori mantovani dell’800 e 900, Mantova, Mantus, maggio-giugno n.3, p. 4;

1970 - Comanducci, IV ed., Milano, Patuzzi Editore, p. 322;

1983 - R. Margonari, Dal Mincio al Naviglio e ritorno, Gazoldo degli Ippoliti, catalogo mostra, pp. 6, 38;

1993 - I pittori italiani dell'ottocento, Milano, Ed. Il Quadrato, p. 71;

1999 - Renata Casarin, Schede Biobibliografiche, Arte a Mantova, 1900-1950, Zeno Birolli (a cura di), Electa, Mantova, catalogo mostra, pp. 154, 155, (ill.).

1999 - Adalberto Sartori - Arianna Sartori, Artisti a Mantova nei secoli XIX e XX. Dizionario biografico, volume I, A - Bona., Mantova, Archivio Sartori Editore, pp. 442/445.

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