Ticò Alcide

scultore
Trento, 11 dicembre 1911 - Ortisei (BZ), 7 aprile 1991.

Nel 1926, incoraggiato da Gino Pancheri, si iscrive alla scuola del marmo dell'Accademia di Belle Arti di Milano, sotto la guida di Adolfo Wildt.

Nel 1932 fa ritorno a Rovereto, e realizza i busti di Damiano Chiesa e Fabio Filzi.

Nel 1935 alla IV Sindacale Trentina, a Trento figura con un torso di Donna e con il bronzo Il Duce.

Nel 1938 apre uno studio in via Margutta a Roma. Durante la seconda guerra mondiale si arruola come volontario ed è più volte decorato.

Nel 1939 partecipa alla Ill Quadriennale di Roma e l’anno seguente (1940) alla XXII Biennale di Venezia, con una scultura. Nel 1942, grazie a una breve licenza, espone nuovamente alla Biennale di Venezia dove presenta una scultura, e l'anno seguente (1943) è presente alla IV Quadriennale di Roma.

Esegue il grande rilievo raffigurante Giustizia e Potere legislativo ed Esecutivo per la facciata del nuovo Palazzo di Giustizia di Bolzano.

Nel dopoguerra si trasferisce a Capri; dove apre la galleria L'oblò.

Dal 26 maggio al 30 giugno 1995, a Trento presso Palazzo Trentini, si tiene la mostra: Alcide Ticò, L'opera, a cura di Gabriella Belli e Danilo Eccher.


Alcide Ticò

Chiuso nello studio come in un eremo di elezione, Alcide Ticò accoglie le visite con una riservatezza da certosino.

Nell’ampio stanzone bianco di marmi non scolpiti ancora, di altri già impersonati e di gessi freschi di getto, nello stanzone bianco per la luce che si riversa a fasci dai grandi finestroni e dove si abbruna la massa della creta informe, pronta a lasciarsi prendere e plasmare dalle mani operose, lo scultore si aggira nervoso. È, ivi, seguito e attorniato dalla tenerezza della madre, che gli è compagna mite e silenziosa, poiché forse non intende del figlio suo l’ansia nascosta e la passione creativa, ma è paga dell’orgoglio che da lui le viene.

Alcide Ticò ha 23 anni; dopo una avventurosa giovinezza trascorsa nella metropoli milanese, ove ebbe occasione di tentare le più spericolate esperienze delle avanguardie artistiche che nel 1928 e 29 facevano di Milano il crogiolo della nuova arte italiana; dopo di aver frequentato per un anno lo studio del grande ed immaturamente scomparso maestro Adolfo Wildt, che per lui ebbe cure e consigli particolari affinché il giovane allievo si sviluppasse con indipendenza assoluta di arte e di spirito; dopo di aver resistito con sacrificio giornaliero alle dure condizioni di vita che la città tentacolare impone a chi, senza reddito fisso, vi vuol vivere ad ogni costo pur di acquistare esperienza e conoscenza, Alcide Ticò ritornò nel Trentino ovattato di una certa scienza della vita e coscienza di se stesso che hanno dato al suo sguardo una doppia visuale. Quella che vede il mondo nella sua doppiezza, nei suoi livori, nella feroce voracità dei giorni che passano inghiottendo inesorabilmente ogni bellezza e lasciando una scia di fastidi e di disinganni, che sfasciano a poco a poco gli entusiasmi e isolano le anime.

E quella interna, che guarda in profondità; quella che gli lascia scorgere lo smisurato pondo di entusiasmi, di slanci, di titubanze, di ansie, di abbandoni, di gioie: un tutto meraviglioso che dà vita ad una passionalità tormentosa e bella, tanto necessaria all’artista per poter creare un mondo intimo, trascurando il mondo esteriore, troppo lontano e vuoto.

Questo è il bilancio spirituale che traspare dalle brevi parole di Alcide Ticò. Brevi, perché non è davvero molto espansivo questo scultore che, nel parlare, appare quasi trattenuto da una specie di pudore che non gli consente lo sbandieramento dei propri sentimenti; forse per tema di non essere compreso; forse per non dare la parte migliore di Sè in pasto a discussioni e commenti oziosi; o forse perché effettivamente il travaglio interno, manifestandosi in una forma di potenzialità travolgente, rende l’artista lontano e indifferente a quanto non sia essenziale per la sua arte.

Comunque, malgrado questa apparente indifferenza, che a volte sembra isolarlo e farlo quasi scontroso, abbiamo da Alcide Ticò prove molteplici e tangibili che dicono la sua feconda vena appassionata.

A prova di questa affermazione Alcide Ticò ci porta, proprio quest’anno, un succedersi di vittorie nelle manifestazioni e nelle gare scultoree.

Le sue creature nascono sotto l’impeto di un attimo di passionalità e son scolpite poi pianamente con amorosa pazienza. Le sue opere più recenti affermano la violenza del palpito che nell’ora dell’esecuzione, anzi della creazione ebbe scaturigine nell’anima dell’artista. La lista dei prescelti nel concorso della Regina, bandito a Roma, porta anche il suo nome; indiscutibilmente egli imprime alle sue opere le stigmate della forza racchiusa nell’anima sua.

Di questa forza intima il Ticò è ben sicuro, mentre tituba ancora sulle possibilità di manifestazioni e si trova costretto talvolta a sacrificare per il committente le più intime idealità delle sue visioni e del suo pensiero. Ma quale è dunque l’artista che è contento di se stesso? Tra la profondità di sentire e la manifestazione tangibile del sentimento, si dibattono, acerbe, mille circostanze spirituali e materiali che diminuiscono e intralciano la potenza creativa, e cosi accade che, generalmente, mentre il pubblico plaude all’opera di un artista, egli non ne sia soddisfatto; egli che nel suo fervore e nella sua passionalità ben più poderosa l’aveva veduta!

Alcide Ticò è pervaso da questo tormento che gli altri non sanno. Quanto egli da è ben poco in confronto di quanto certamente potrà dare, e la lode che gli viene unanime e sincera non lo commuove né lo esalta, poiché non per la critica e per il pubblico lavora, non dalla massa attende plauso, né si accontenta di soddisfare l’ammirazione del borghese. Soprattutto, innanzi tutto, vuole arrivare a soddisfare se stesso.

La sua giovinezza è chiusa in un eremo lontano dalla mondanità e da inutili amicizie; raccolto in una serena atmosfera tra marmi e libri, tra creta e gessi, tende solo a questa grande aspirazione: fare di se stesso l’artista che egli vuole, indirizzando e guidando l’artista che il pubblico vede.

Studia, legge, lavora. Silenziosamente. In attesa di poter cantare in gloria il suo pieno trionfo e la sua bionda giovinezza, di poter sbrigliare l’artista nei campi dei lauri più fragranti e l’uomo nelle vie più assolate. Per ora non vuole avere a sua distrazione che gli infiniti campi di neve e le solitudini delle sue montagne ove gli sci, amici buoni e sicuri, lo trascinano in discese sature di vento, di luce e di sogni.

Enrico Gaifas junior - (1935 - Enrico Gaifas Junior, Artisti contemporanei: Alcide Ticò. Torino, a b c Rivista d'Arte, anno IV, n. 4, aprile, pp. 25/26).


Bibliografia:

1935 - Enrico Gaifas Junior, Artisti contemporanei: Alcide Ticò. Torino, a b c Rivista d'Arte, anno IV, n. 4, aprile, pp. 25/26.

1935 - Enrico Gaifas junior, Cronache: Trento - La IV Sindacale Trentina, Bergamo, Emporium, n. 490, ottobre, p. 221;

1995 - Gabriella Belli: Alcide Ticò, L'opera. Catalogo mostra, Trento presso Palazzo Trentini.

1996 - La Biennale di Venezia. Le Esposizioni Internazionali d’Arte 1895-1995, Venezia, Electa, p. 654.

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