Thorwaldsen Alberto - Bertel

scultore
Copenaghen, 17 novembre 1770 - Copenaghen, 24 marzo 1844

Scultore danese, noto in Italia come Alberto Thorvaldsen o anche Thorwaldsen, esponente del Neoclassicismo e rivale di Canova. Lavorò principalmente a Roma, sua patria artistica adottiva.

Il Conte Sommariva acquista per la sua villa Carlotta, sul lago di Como, la scultura il Trionfo di Alessandro, (la scultura già ordinata da Napoleone Bonaparte, per collocarla a Parigi, con se stesso raffigurato nel grande conquistatore macedone, ma nel frattempo tramontato il suo tempo, l’opera viene acquistata dal conte Sommariva).

LE OPERE DEL THORVALDSEN A ROMA - Ad Alberto Thorvaldsen, al grande scultore danese, che venuto a Roma giovane e sconosciuto nel 1797, vi dimorò ininterrottamente fino al 1838, trovando qui la via della gloria, è stata intitolata una piazza di quella Valle Giulia, ormai sacra alle belle arti, dove intorno alla Galleria d’Arte Moderna sorgono e sorgeranno fiorenti Accademie straniere. La località non poteva essere scelta più opportunamente, e il Municipio di Copenaghen, con atto simpatico e generoso, ha voluto dimostrare la sua gratitudine, donando a Roma una riproduzione in bronzo della statua di Thorvaldsen rappresentante Giasone col vello d’oro, che è stata già collocata nella piazza che porta il nome dello scultore.

È un nuovo pegno dell’amicizia che unisce la Danimarca all'Italia. L’italiano che si reca a Copenaghen vede colla maggior commozione il monumento a Dante, che fu eretto nel 1922 in una grande piazza del centro; e così i numerosi danesi che vengono a soggiornare a Roma, non mancano di andare, come in pellegrinaggio, nel giardino davanti palazzo Barberini, dove sorge una statua in onore di Alberto Thorvaldsen.

Il Thorvaldsen era nato a Copenaghen nel 1770 da un modesto intagliatore in legno, che scolpiva rozze figure per ornare le prore delle navi mercantili. Ancora fanciullo aiutava il padre nella bottega, mostrando una precoce vocazione per la scultura, e ad undici anni entrò nell’Accademia di Belle Arti; contemporaneamente frequentava, ma sembra con poco profitto, le scuole pubbliche. A diciassette anni vinse per la prima volta il premio che l’Accademia concedeva ai suoi migliori alunni; lavorava insieme col padre per vivere, mentre continuava a studiare per perfezionarsi; sì che nel I793 riuscì ad ottenere il grande premio per la scultura, che consisteva in una medaglia d’oro e in una pensione di tre anni per viaggiare. Egli poté così venire a Roma, che in quell’epoca di risorto classicismo attirava irresistibilmente gli artisti di tutto il mondo, che solo nei musei romani trovavano i modelli da copiare e da emulare, che solo nell’Urbe, dove aleggiava lo spirito antico, potevano vivere e operare.

Il Thorvaldsen s’imbarcò su una nave mercantile, che toccando parecchi porti, impiegò quasi dieci mesi nel viaggio fino a Napoli. L’impressione che Roma produsse sul suo spirito, i nuovi orizzonti che aprì alla sua arte, superarono la sua appassionata aspettazione, sì che egli poi soleva dire: «Io sono nato I’8 marzo I797 » (giorno del suo arrivo a Roma). E ogni anno, per tutto il tempo che rimase a Roma, festeggiò quel giorno cogli amici, invece di quello della sua nascita. Ma la maggior prova dell’entusiasmo del Thorvaldsen per la città che l’ospitava, sta nel fatto che invece di ripartire quando ebbe finito il pensionato, vi fissò la sua residenza.

Eppure i primi anni trascorsi a Roma erano stati per l’artista diffìcili e penosi. La pensione dell’Accademia non gli era sufficiente per vivere; e se egli in quel periodo molto studiò, produsse poco, e nulla o quasi poté vendere. Trascorreva ogni giorno lunghe ore nei musei: un fervido lavorio di preparazione interiore si andava compiendo in lui; egli diceva che era come se «la neve che prima aveva negli occhi cominciasse a sciogliersi». Ma intanto la miseria batteva alle porte dello studio di via del Babuino, e la salute del giovane scultore era scossa da frequenti attacchi di febbre. Egli riuscì ad ottenere che la pensione gli venisse prorogata per altri tre anni, e per guadagnare un po’ si adattò a dipingere delle figurette nei quadri di un paesista inglese.

Nel 1803, sesto anno del suo pensionato, il Thorvaldsen ultimò il gesso di una statua colossale, il Giasone, frutto di anni di lavoro. La classica compostezza, la nobile calma dell’eroe vittorioso, mostrano come Io spirito del giovane danese, negli anni romani si era andato felicemente maturando, in modo da poter creare dei nuovi eroi e dei nuovi Dei dell’Olimpo non indegni di quelli della Grecia e di Roma. Ad ammirare la statua del Thorvaldsen accorsero gli intellettuali romani e stranieri, che in quell’epoca, in cui le esposizioni non esistevano, frequentavano ben più di ora gli studi degli artisti. Il consenso fu unanime; anche il più grande scultore contemporaneo, Antonio Canova, esclamò: «L’opera di questo giovane danese è fatta in uno stile nuovo e grandioso». Tutti ammiravano, ma nessuno dava allo scultore la commissione di riprodurre il Giasone in marmo o in bronzo, sì che egli, poverissimo, quando finì la pensione, dovette con dolore prepararsi a lasciare Roma. Vendette, all’infuori del Giasone, tutti i gessi, i mobili e gli oggetti dello studio; e dopo molte dilazioni, dové decidersi a fissare il giorno della partenza. Già i bagagli erano caricati sulla vettura, che attendeva alla porta, quando alcune formalità per il passaporto lo costrinsero a rimandare il viaggio all’indomani. Fu quella la sua fortuna. Venne al suo studio il banchiere inglese Thomas Hope, il quale, innamoratosi del Giasone, gli chiese quanto sarebbe costata la statua in marmo. L’artista commosso e tremante per l’improvvisa speranza, rispose: «Seicento zecchini». Alcuni biografi dicono che il mecenate trovasse il prezzo insufficiente, e ne offrisse ottocento, ma il contratto reca la cifra richiesta dallo scultore.

Così possiamo dire che il Giasone, di cui Roma possiede ora il bronzo, mutò favorevolmente la sorte del maestro, che poté stabilirsi nella città eterna» e non più assillato dal bisogno quotidiano, cominciò a creare quelle opere che in brevi anni gli diedero la ricchezza e la gloria. Egli soleva infatti dire in seguito: «Se dopo aver fatto il modello del Giasone non avessi trovato chi me ne commettesse l’esecuzione in marmo, ed offerto così mezzo di trattenermi in questa sede delle arti, me ne sarei tornato in patria ove malgrado la bontà del mio sovrano, che sommamente prende a proteggere gli artisti, e in particolare me stesso, non avrei potuto certamente eseguire tante opere, e per tanti differenti paesi, quante ne feci stando in questa metropoli».

Principe incontrastato della scultura romana, anzi mondiale, nel primo Ottocento era Antonio Canova. Vent’anni prima del Thorvaldsen, anch’egli era venuto povero e sconosciuto a Roma con una pensione di tre anni del suo governo, la Repubblica Veneta. E nel 1782, venticinquenne, creava il sepolcro di Clemente XIV, Ganganelli, ai SS. Apostoli, che fu giustamente ritenuto dai contemporanei un miracolo. In quello scorcio di Settecento la scultura non faceva che ripetere, peggiorandoli, i deliri del tardo barocco : arte declamatoria vuota di contenuto, in confronto della quale è mirabile la compostezza, la nobiltà, l’ispirazione del monumento Ganganelli, e dell’altro sepolcro papale, quello di Clemente XIII, Rezzonico, che il Canova eresse dieci anni dopo in S. Pietro. Anche il Canova aveva provato la maggior emozione della sua vita la prima volta che entrò nel Museo Vaticano; e collo studio assiduo e appassionato della scultura classica, aveva trovato la nuova, la vera via della sua arte, distaccandosi completamente dalla maniera settecentesca, delle sue opere giovanili eseguite a Venezia. Egli divenne presto il caposcuola dell’imitazione dell’antico nella scultura, e il Thorvaldsen, che arrivò a Roma venti anni dopo di lui, trovando la via tracciata, vi si mise risolutamente.

Così i due grandi scultori, che fra il 1800 e il 1822 si trovarono a operare contemporaneamente a Roma, sceglievano di preferenza per le loro opere i medesimi soggetti classici e mitologici: Ninfe, Veneri e Grazie, che però interpretavano con spirito del tutto diverso. Emuli, ma non rivali, i due artisti superavano di gran lunga tutti gli altri scultori che operavano in quel periodo in Europa.

Il primo decennio dell’Ottocento, così denso di avvenimenti politici, fu per il Thorvaldsen un periodo di lavoro assiduo e fecondo. Dopo il Giasone eseguì numerose statue per commissione: il gruppo di Amore e Psiche, Apollo, Bacco, Ganimede, e un Adone che fu lodatissimo dal Canova. E per proprio studio si esercitava nel bassorilievo, genere che egli prediligeva, che trattò spesso, e nel quale raggiunse una grande perfezione.

Nel 1812 si attendeva a Roma la venuta di Napoleone, e l’Accademia ai Francia affidò al Thorvaldsen l’incarico di eseguire un fregio simbolico per decorare una sala dell’appartamento che si allestiva per l’imperatore al Quirinale. Il tempo era ristrettissimo, poco più di tre mesi; ma l’artista con opera indefessa riuscì a modellare in cento giorni una fascia a bassorilievo, felicemente concepita ed eseguita, in cui cento personaggi si muovono in diversi atteggiamenti e costumi, e vi si contano circa cinquanta animali. Il soggetto, come dicemmo, è simbolico. L’entrata trionfale di un grande conquistatore, Alessandro, in una famosa città storica. Babilonia, senza conflitto, senza spargimento di sangue, anzi tra plausi, gettito di fiori e bruciar d’incensi, doveva adombrare il preannunziato ingresso di Napoleone a Roma, che in realtà non avvenne mai. Il nobile fregio, in gesso, giustamente lodato dai contemporanei, si ammira in una sala del Quirinale, che non so come si chiamasse in antico, e che oggi vien detta comunemente «della Marchesa», in memoria della march, di Villamanna, dama della Regina Margherita.

Il Thorvaldsen aveva cominciato a tradurre in marmo il fregio di Alessandro per il governo di Napoleone, che gliel'aveva commesso, sembra per il tempio della Gloria (la Madeleine), disponendo 300.000 scudi; ma l’impero cadde, e i Borboni non vollero riconoscere l’impegno; allora l’artista, preoccupato, offrì alle varie corti d’Europa l’acquisto del bassorilievo, ma inutilmente. Fu un mecenate italiano, il conte Sommariva, che fece eseguire per il prezzo di 100.000 scudi il fregio in marmo, con alcune varianti, per la sua villa di Ca- denabbia sul lago di Como, ricca di opere d’arte del Canova e di pittori famosi del primo Ottocento.

Dopo questa parentesi di affannoso lavoro, il Thorvaldsen ritornò alla calma creazione delle sue divinità classiche, di monumenti funebri e commemorativi, di ritratti a figura intera e a busto.

Al 1816 risale una delle più belle opere: Ganimede coll’aquila. Già altre volte l’artista aveva scolpito il bellissimo efebo amato da Giove, in diversi atteggiamenti; qui lo raffigurò mollemente accosciato, mentre porge una coppa colma alla grande aquila, in cui si è trasformato Giove, che ritta e ben piantata sui suoi solidi artigli, sugge il nettare, guardando l’efebo con occhi avidi e fieri. Il Thorvaldsen ne scolpì le penne e le piume con tanta accuratezza e maestria, che il marmo sembra insolitamente morbido e leggero.

Due anni dopo, nel 1818, l'artista creò un altro capolavoro: il ritratto della principessa Bariatinski. In piedi, avvolta in un classico manto dal panneggio squisito, col dito al mento come una musa pensosa, è certo la più bella tra le numerose figure femminili scolpite dal maestro; non un’astratta divinità dell’Olimpo, ma per nobiltà di linee e serena calma del volto, sa di più di donna mortale: mirabile ritratto idealizzato secondo i canoni del risorto classicismo.

Quando nel 1822 morì Antonio Canova, il Thorvaldsen rimase solo a tenere il campo della scultura a Roma: a lui toccarono i più importanti incarichi e i sommi onori, per quanto gli invidiosi non tralasciassero occasione per far sorgere ostacoli sul suo cammino, profittando del fatto che egli era di religione protestante. Nel 1823 morì il pontefice Pio VII, e il Cardinal Consalvi affidò al Thorvaldsen l’incarico di erigergli il monumento funebre in S. Pietro. Lo scultore accettò con grande compiacenza, perché la commissione di un così solenne lavoro nel maggior tempio della cristianità, era il massimo riconoscimento del suo valore, a cui egli potesse aspirare. Ma pochi mesi dopo la morte del papa morì anche l’intelligente cardinale, e allora i nemici cominciarono a muovere guerra così tenacemente al Thorvaldsen, che a un certo momento sembrò impossibile che gli riuscisse di mantenere la commissione del mausoleo papale.

Eppure l’artista protestante nutriva per la religione cattolica una rispettosa simpatia, che in ogni occasione seppe dimostrare. Quando nel 1823 i Cappuccini di S. Maria della Concezione in piazza Barberini vollero innalzare una grande croce davanti al loro convento, si rivolsero per consiglio allo scultore danese. Era un lavoro modesto per il maestro famoso, ma egli se ne occupò con sollecitudine, disegnando e facendo eseguire una croce di legno sopra una nobile base di cipollino, e rifiutando ogni compenso per l’opera sua.

Nello stesso anno 1825 si scatenò una nuova tempesta quando il Thorvaldsen fu eletto Vice-Presidente dell’Accademia di S. Luca, perché secondo lo statuto di quel sodalizio, due anni dopo sarebbe passato Presidente, e in tale carica egli, protestante, avrebbe dovuto assistere a delle cerimonie religiose. Il pontefice Leone XII, che doveva ratificare la nomina, chiese: «È certo che il Thorvaldsen è il miglior scultore che abbiamo oggi a Roma?» «Il fatto è incontestabile», gli fu risposto. «Allora non può esservi dubbio nella scelta. Soltanto vi saranno delle circostanze in cui egli troverà opportuno di sentirsi indisposto».

Questa decisione liberale del papa era di buon augurio per il sepolcro di Pio VII, ma Leone XII volle dimostrare il suo favore verso il grande artista in modo ancor più palese e significativo, recandosi in persona al suo studio nel 1827, per vedere il monumento del suo predecessore; e vi si trattenne a lungo, ammirando i vari lavori del Thorvaldsen, il quale considerò la visita del pontefice come uno degli avvenimenti più importanti della sua vita, tanto che la fece rappresentare in un grande quadro che ho potuto vedere nei sotterranei del museo di Copenaghen. L’intervento personale del pontefice fece cessare le opposizioni, sì che il Thorvaldsen potè completare in pace il mausoleo; ma quando questo fu collocato a S. Pietro, prima ancora dell’inaugurazione, fu oggetto delle più aspre critiche. Nella parte inedita del Diario del principe Agostino Chigi (1), troviamo alcune interessanti notizie al riguardo.

«20 luglio 1830. - Questa sera a S. Pietro è seguito privatamente il trasporto del corpo di Pio VII dai sotterranei al nuovo deposito, che si va erigendo vicino all’altare di S. Gregorio, opera dello scultore Thorvaldsen. Vi intervennero il Card. Arciprete, dodici canonici, il principe Barberini, come uno degli esecutori testamentari, i parenti del defunto pontefice ed il conte Parisani come esecutore testamentario del Card. Consalvi, che ha lasciato la somma di scudi 20 mila per l’esecuzione di questo monumento.

29 settembre 1830. - Questa mattina essendo andato in S. Pietro, ho veduto il deposito di Pio VII, opera dello scultore Thorvaldsen, che è già collocato al suo posto presso l’altare di S. Gregorio, ma coperto. Tutti convengono che le dimensioni sono troppo piccole.

17 novembre 1830. - Nei giorni passati si è fatto un accesso a S. Pietro coll’intervento del Card. Galeffi, Arciprete, del Conte Parisani, esecutore testamentario del Card. Consalvi, dell’architetto Valadier e di Thorvaldsen, per invenire un mezzo onde riparare in qualche modo allo sbaglio commesso nelle dimensioni del deposito di Pio VII. Si è proposto di fare una nicchia di stucco (giacché non può lavorarsi in muro per non danneggiare l’organo della Cappella del Coro, che sta dalla parte opposta) che rinchiuda la statua del Papa e porre dietro una tela dipinta a marmi: dei quali miserabili compensi si farà un altro giorno la prova.

11 aprile 1831. - Questa mattina sono andato a S. Pietro a vedere il deposito di Pio VII, opera di Thorvaldsen, che è stato scoperto da pochi anni. Per supplire alla piccolezza della dimensione originaria, si è aggiunto una nicchia di stucco dietro la sedia del papa e due piccoli angeli o geni lateralmente. Il tutto insieme resta sempre una brutta cosa, è sentimento generale».

Anche a noi, dopo cent’anni, il monumento non sembra un capolavoro, per quanto sia degna di ammirazione la figura del vecchio pontefice, un po’ curvo, in atto di benedire, nel cui volto emaciato si leggono le tracce delle pene sofferte durante l’esilio, ne burrascoso periodo napoleonico, al pensiero del suo stato invaso, dei suoi figli prediletti, i sacerdoti, perseguitati e imprigionati. Manca particolarmente al mausoleo di Pio VII il legame tra le varie parti, che vediamo in tutti gli altri sepolcri papali, dal Bernini al Canova, in cui le Virtù si muovono, si volgono al papa o si abbandonano mestamente sul suo sarcofago. Qui la Fortezza e la Saggezza stanno fredde e isolate sui loro piedistalli; privi di significato sono anche i due geni alati (il Tempo e la Storia) che, come dice il principe Chigi, il Thorvaldsen aggiunse in tutta fretta, quando il monumento era già collocato in S. Pietro, in seguito alle generali censure. Così la nicchia di stucco con dorature, in stile del Quattrocento toscano, dietro il trono papale, e i marmi policromi, che si dovettero aggiungere affinché il monumento sembrasse più alto e più ampio, costituiscono una stonatura colla parte bassa, di marmo candido, in forma di stele greca.

Prima di giungere al modello definitivo del sepolcro di Pio VII, il Thorvaldsen ne aveva fatti molti disegni, che si conservano nel museo di Copenaghen. Nel primo abbozzo in terracotta egli aveva rappresentato il pontefice seduto con in mano una palma, e due angeli sopra il suo capo, reggenti una corona di stelle; ma tale composizione non si poté accettare, perché dava al pontefice gli attributi di un santo. Altri due piccoli abbozzi in terracotta, che si vedono al museo di Copenaghen, sono, come tutti i bozzetti, più freschi e più vivi del marmo, particolarmente quello in cui lo scultore raffigurò il pontefice senza il triregno.

Nel 1824 il Thorvaldsen eresse un ricordo marmoreo per il Cardinal Consalvi al Pantheon. Il corpo del Segretario di Stato di Pio VI e Pio VII riposa in S. Martello, ma subito dopo la sua morte alcuni amici e ammiratori pensarono di dedicargli un cenotafio al Pantheon, di cui era stato titolare, e ove si conserva il suo cuore. Il Thorvaldsen, benché sempre carico di commissioni, non solo eseguì il monumentino del suo antico protettore in pochi mesi, con eccezionale sollecitudine, ma volle aggiungervi nella fronte un bassorilievo, in cui raffigurò il cardinale in piedi, che presenta a Pio VII, seduto dinanzi a un tavolo, un gruppo di donne inginocchiate col capo turrito; è l’avvenimento più importante, il maggior successo diplomatico del Consalvi: la restituzione delle Legazioni (Bologna, Ancona, ecc.) al Pontefice, in seguito all’energica a- zione svolta al Congresso di Vienna per ritorglierle all’Austria, che se n’era impadronita dopo la caduta di Napoleone. Il ricordo è in forma di un sarcofago, coronato da timpano, e sormontato da un ottimo busto ritratto del cardinale.

Nel museo di Copenaghen si conserva il gesso di un altro lavoro che il Thorvaldsen aveva ideato per il Pantheon, ma che non fu mai tradotto in realtà. Si tratta di un bassorilievo destinato al sepolcro di Raffaello, eseguito nel 1833, anno in cui ebbe luogo la solenne apertura della tomba dell’Urbinate, alla quale il Thorvaldsen assisté nella sua veste di Virtuoso al Pantheon. Non sappiamo se l’artista danese fece il gesso di sua iniziativa, per commissione o per concorso; certo non possiamo rimpiangere che l’opera sua sia rimasta allo stato di progetto, perché il bassorilievo ci appare cosa tutt’altro che felice. Nel centro Raffaello, goffamente vestito, e dal volto privo di espressione, il piede poggiato su un capitello corinzio, è seduto su un’ara in cui sono scolpite le Grazie e una Musa. Un amorino alato regge la tavola sulla quale egli dipinge, e gli porge una rosa e un papavero, simbolo dei piaceri e del sonno eterno. Una figura femminile, simboleggiante la Gloria, sta alla sua destra, e gli offre una corona e una palma; a sinistra il Genio lo illumina colla sua fiaccola.

Sulla tomba del figlio di Goethe, Augusto, premorto al padre nel 1830 e sepolto nel Cimitero Protestante al Testaccio, c’è un medaglione in marmo col profilo del defunto in bassorilievo, eseguito dal Thorvaldsen con aristocratica finezza.

All’infuori di questi monumenti funebri - che non sono certo il genere in cui lo scultore raggiunse la sua maggiore eccellenza - e del fregio in gesso del Quirinale, Roma, dove il Thorvaldsen soggiornò per più di quarant’anni, dove creò quasi tutte le sue statue famose, non possiede di lui altre opere. Perciò dobbiamo apprezzare ancor più il bronzo del Giasone, che ha portato tra noi una di quelle figure mitologiche, che sono le più felici creazioni del maestro, che gli furono ispirate dalla scultura classica dei musei romani, e dall’atmosfera stessa dell’urbe.

E possiamo aggiungere che Roma, dopo aver offerto all’artista giovane e voglioso di studio i modelli perfetti della bellezza antica, presentò alla meditazione dell’artista maturo i tesori della sua arte sacra, varia attraverso i secoli, dai musaici basilicali, dai sarcofagi del Laterano, a Raffaello, a Michelangelo. Il Thorvaldsen eseguì numerose e importanti sculture sacre, e non soltanto per commissione, ma anche per proprio studio: i gessi di una diecina di bassorilievi con scene della vita di Cristo, non destinati a essere tradotti in realtà, si conservano nel museo di Copenaghen.

Fu a Roma cattolica che il Thorvaldsen eseguì la decorazione con statue e bassorilievi della chiesa di Nostra Donna (Frue Kirche), che, costruita tra il 1811 e il 1829 in puro stile neoclassico, non è soltanto il maggior tempio di Copenaghen, ma è ritenuta da alcuni la più bella chiesa protestante del mondo. Il gruppo della Predicazione del Battista nel frontone, le grandi fasce di bassorilievi all’esterno e all’interno, le statue dei dodici apostoli lungo le navate, l’angelo inginocchiato che regge una conchiglia per l’acqua battesimale, il Cristo in fondo all’abside, col volto soffuso di divina dolcezza e le braccia aperte in atto di misericordiosa indulgenza, e alcuni bassorilievi minori, costituiscono un ciclo grandioso, la cui esecuzione tenne occupato il maestro dal 1820 fino al termine della sua vita.

A Roma il Thorvaldsen viveva circondato di ammirazione e di simpatia, e ricopriva, come abbiamo accennato, le più importanti cariche nel campo delI’arte. Già nel 1808 fu nominato Accademico di merito di S. Luca. Poi, quando, nel 1812 quell’antica insigne Accademia istituì una scuola di scultura, creò il Thorvaldsen primo professore, posto che egli occupò per molti anni, rinunziando al compenso che gli spettava. Già abbiamo visto che nel 1825 era eletto Vice-Presidente, e fu Presidente per il biennio 1827-28; dopo gli rimase la carica di consigliere. Nel 1820 era divenuto membro della Commissione generale di Antichità e Belle Arti.

I primissimi anni in cui stette a Roma, il Thorvaldsen ebbe un modesto studio in via del Babuino, ma già nel 1803 era riuscito a trovare certi ambienti vasti e comodi, prima adibiti a uso di scuderia, nelle adiacenze del palazzo Barberini, verso la piazza. Lì ebbe il suo studio per quarant’anni, e, come ho accennato al principio di queste righe, a ricordo di ciò nel giardino Barberini verso via Quattro Fontane, fu elevata per volere dei vecchi amici e dei discepoli del Thorvaldsen una statua in marmo, copia del suo autoritratto, eseguita dal suo allievo Emilio Wolff.

L’abitazione dello scultore era invece a via Sistina, in quel palazzo Tornati, oggi segnato col numero 48, che, come ricorda un’iscrizione sulla facciata, ospitò il Piranesi, il Canina, e il nostro maestro «dei greci migliori nella statuaria emulo non disuguale». L’appartamento del Thorvaldsen si trovava al primo piano, ed era arredato con mobili semplici, ma le pareti erano adorne di quadri del Rinascimento e moderni, e nei salotti e nella biblioteca si ammiravano i vasi, le monete, i marmi, le terrecotte, i bronzi classici, che lo scultore andava raccogliendo con amore. Egli si ritemprava delle sue fatiche passeggiando nel ridente giardino che si stendeva davanti al palazzo. Riceveva molte visite di ammiratori italiani e stranieri, e frequentava, ospite desideratissimo, le riunioni artistiche e mondane.

Per quanto romano di adozione, il Thorvaldsen non terminò qui la sua lunga, laboriosa giornata. Un’epidemia di colera, scoppiata nel 1837, impressionò il vecchio maestro, che in quell’anno fece testamento, lasciando alla città di Copenaghen i suoi lavori di scultura e le sue collezioni di antichità, per farne un museo. E nel 1838, cedendo alla nostalgia che l’aveva assalito da alcuni anni, e alle vive insistenze dei suoi concittadini, che lo volevano tra loro, abbandonò Roma dopo quarantadue anni di soggiorno. La Danimarca, giustamente fiera del suo grande figlio, ne salutò il ritorno in patria con gioia indicibile, e si preparò a riceverlo con onori sovrani. Una fregata della marina reale danese venne a Livorno per imbarcare il maestro e prendere a bordo le sessantadue grandi casse che contenevano le sue opere di scultura, le collezioni, i libri ed i quadri.

Dopo un mese di traversata il Thorvaldsen sbarcò a Copenaghen, accolto, con entusiasmo indescrivibile, che confinava col delirio, tanto che un suo biografo scrisse: «La storia non ha conservato il ricordo di tali trionfi che nei fasti dei conquistatori». E un anno dopo la sua patria gli decretava un altro onore, più grande e più duraturo di ogni applauso: l’erezione di un museo nel centro della città per conservare tutte le sue opere. Gran parte della spesa fu fatta per sottoscrizione pubblica; il Comune, col consenso del re, completò la somma necessaria. La costruzione cominciò nel 1839, e si poté inaugurare nel 1842, così che il Thorvaldsen ebbe la soddisfazione, non concessa forse a nessun altro artista, di vedere il posto dove sarebbero state collocate le sue opere, dove sarebbero venuti ad ammirarle i posteri lontani, e di partecipare, protagonista venerato e acclamato, all’inaugurazione del proprio Pantheon. Non senza una grave mestizia gl’invitati alla cerimonia vedevano nel mezzo del cortile, l’apertura della cella funeraria, dove il maestro avrebbe un giorno riposato in mezzo alle creature della sua arte.

I lavori di decorazione interna durarono ancora alcuni anni, e il 17 settembre 1848, decimo anniversario dell’arrivo del Thorvaldsen a Copenaghen, il museo fu aperto al pubblico. Ma già nel marzo del 1844 il maestro, vecchio di settantaquattr’anni, moriva e nel 1848 veniva sepolto solennemente nel centro del museo, dove nessun marmo, nessuna epigrafe laudatoria orna la sua tomba, coperta da una aiuola di fiori; questa semplicità vuol giustamente significare che tutto il museo è il monumento del Thorvaldsen, e che le sue opere valgono più delle parole ad esaltarne il valore.

Ai due lati del cortile centrale si aprono su un corridoio venti piccole stanze, ognuna delle quali rinchiude una sola statua, sia originale, sia copia in marmo, eseguita sotto la direzione del maestro ; infissi al muro stanno due o quattro bassorilievi, e negli angoli dei busti. Le salette hanno le pareti e il soffitto decorati con affreschi pompeiani eseguiti da valenti artisti, il pavimento è a musaici, con variati disegni. Sotto il portico e in due vaste sale sono i gessi dei monumenti di maggiori dimensioni. Il secondo piano è consacrato in parte ai piccoli bozzetti in terracotta, ai disegni e agli schizzi del maestro, e in parte custodisce le sue raccolte private. Qui abbiamo, oltre la grande e ricca collezione di antichità greche e romane, acquistate dallo scultore a Roma, anche belle ricostruzioni degli ambienti dove visse, coi mobili i quadri e gli oggetti che gli erano famigliari. Tra i quadri, che formano una cospicua raccolta, sono di particolare importanza quelli eseguiti da buoni pittori che operavano a Roma contemporaneamente al Thorvaldsen; alcuni ci offrono delle interessanti, deliziose vedute della Roma del primo Ottocento, con costumi e tipi ormai scomparsi; alcuni riproducono avvenimenti della vita del maestro; altri sono ritratti di artisti e di personaggi celebri del tempo; e sono tanto numerosi che non bastando per essi le pareti del museo, molti, belli e importanti, stanno nei magazzini sotterranei e nelle comode soffitte.

Anche l’esterno del museo è nobile nella sua semplicità. La facciata bassa, che sembra quella di un tempio egiziano, è sormontata nel centro da una grande quadriga di bronzo, eseguita da un allievo del Thorvaldsen, secondo un suo schizzo. I fianchi dell’edificio sono stati ornati tra il 1844 e il ’46 da una fascia di affreschi, che rappresentano l’arrivo trionfale del Thorvaldsen nella capitale danese, lo sbarco delle sue statue dalla fregata, e la loro collocazione nel museo. Questo sorge in una posizione incantevole, nel centro antico e aristocratico di Copenaghen, e fa parte di un mirabile gruppo di edifici secolari che circondano il palazzo reale, e che un silenzioso canale divide dalla città moderna piena di movimento e di rumore.

La notizia della morte del Thorvaldsen destò dolorosa impressione a Roma, dove il maestro era tornato anche due anni prima. Infatti tra il 1841 e il '42 egli aveva voluto trascorrere parecchi mesi a Roma, per rivedere i cari amici e per completare alcune sculture sacre, che partendo aveva lasciate abbozzate.

Il 23 giugno 1844 l’Accademia di S. Luca si riunì in assemblea straordinaria per commemorare il grande scultore scomparso. Il segretario, il celebre archeologo Luigi Canina, pronunciò un nobile discorso, e nella Galleria Accademica fu collocato un busto in marmo del Thorvaldsen, opera del suo allievo Pietro Tenerani. Lina Munoz Gasparini (I) Devo alla cortesia del prof. Cesare Fraschetti queste notizie inedite, tratte dal manoscritto del Diario del Principe Agostino Chigi (1830-1855), da lui in parte pubblicato nel 1906. (1928 - Lina Munoz Gasparini, Le opere del Thorwaldsen a Roma, Capitolium, Rassegna Mensile del Governatorato, anno IV, n. 2 maggio, pp. 62/78 ill.)


Bibliografia:

1836-1837 - L’Ape Italiana delle Belle arti. Giornale dedicato ai loro cultori ed amatori, Anno III, Volume Terzo, Roma, Tip. Salviucci, pp. 58/61, tav. XXXIII.

1837 - La Nemesi, basso rilievo di Alberto Thorwaldsen, Cosmorama Pittorico, Milano, pp. 1641/165 ill,

1837 - Filippo Gerardi, Nemesi, bassorilievo del commendatore Alberto Thorwaldsen, Roma, L’Album, n. 36, 11 novembre, pp. 284, 285,

1847 - Il Mondo Illustrato, Anno Primo, Torino, Pomba, p. 521.

1868 - La Villa Carlotta sul lago di Como, L’Universo Illustrato, Milano, Emilio Treves, vol. II, p. 803.

1928 - Lina Munoz Gasparini, Le opere del Thorwaldsen a Roma, Capitolium, Rassegna Mensile del Governatorato, anno IV, n. 2 maggio, pp. 62/78 ill

1994 - Vincenzo Vicario, Gli scultori italiani, Dal neoclassico al liberty, seconda edizione, volume secondo, Lodi, Il Pomerio, pp. 1034/1037.

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