Servolini Luigi

xilografo scrittore d'arte
Livorno, 1 marzo 1906 - Livorno, 21 settembre 1981

Nel 1927 con l'opera: Padule (xilografia), partecipa alla III Biennale d'Arte Decorativa di Monza.

Nel 1930 partecipa alla XVII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con la xilografia: Meriggio.

Dal 9 ottobre XX all'8 novembre XXI (1942), partecipa alla IX Mostra Interprovinciale del Sindacato Fascista delle Arti Emilia Romagna, di Bologna, nella Sede Dopolavoro Professionisti e Artisti, con le xilografie: Ritorno dalla pesca, Il redo, Il lupicante.

Nel 1953 partecipa all'Esposizione Nazionale d'Arte. Biennale di Brera e della Permanente, con la xilografia: Ruderi di ponticello.


Un maestro della xilografia moderna - Non sembri strano ai lettori di questa rivista se, dopo un lasso di appena due anni, ritorniamo a scrivere di Luigi Servolini. Il fattivo e geniale e non vuoto dinamismo che informa tutta l’attività di questo giovanissimo e fecondo artista, dinamismo che si traduce in opere grafiche d’ogni genere: incisioni in legno, articoli, volumi, traduzioni, recensioni, disegni, pitture, formerebbe materia per più di un articolo.

I lettori che già conoscono il Servolini come xilografo, scrittore d’arte, organizzatore (vedi ABC Marzo 1934), non avranno discaro che li informiamo della sua ultima attività, attività che per altri temperamenti potrebbe rappresentare la produzione di un lustro ed anche più, mentre per il Livornese non è che l’ordinaria produzione di un biennio. In questo frattempo, la sua posizione polemica di xilografo e di critico della stessa incisione in legno si è orientata sempre più verso un razionalismo incisorio che tende a ridare alla xilografia i suoi autentici e pieni valori di un’arte dalle caratteristiche espressioni determinate dalla materia impiegata e, quindi, tipicamente e solamente xilografiche. E, a conferma di tale asserto, ecco come il Servolini stesso, in un sua recente articolo che rispecchia con chiarezza il suo preciso atteggiamento polemico, parla di questa tendenza d’avanguardia:

«I veri xilografi sono i razionalisti del legno inciso, per i quali la materia è il principio informatore dell’opera. Lo xilografo non cerca più altrove i suoi mezzi, non chiede più ad altre arti espressioni i metodi, né prende a prestito maniere altrui, ma applica istintivamente al legno i sani principi di un razionalismo, vuole cioè realizzare nella materia prescelta quelle concezioni nate solo per essa e che a essa unicamente si adattano. E l’opera sboccia e si concreta, conservando tutto il fascino particolare di quest’arte e il suo schietto sapore. Lo xilografo chiede agli antichi maestri non i modelli da copiare, ma il segreto che anima le loro opere; la logica costruttiva dei primitivi rende la nuova xilografia chiara e sincera, tutta essenzialità e tutta semplicità, realizzata con giochi di linee nette e di masse bianche e nere, con valori puramente grafici. Il razionalismo xilografico, che supera la tradizione immediata e ci ricollega a quella grande quattrocentesca, riportandoci alla logica dei primitivi, è, in xilografia, il moto rivoluzionario che contrassegna la nuova epoca. Il Fascismo ha dato anche all’arte la piena consapevolezza degli splendori passati e delle necessità attuali, spogliando del falso e del caduco le nuove manifestazioni e ridando loro quell alto significato spirituale ed italiano che è il privilegio della nostra razza. Arte fascista, dunque, perché costruttiva, perché essenzialmente italiana, perché squisitamente sincera è la nuova xilografia razionale». E valgano queste incisive e fervide linee per la xilografia che è in piena rifioritura dopo la linfa michelangiolesca De-Karolisiana e de’ suoi alunni e dopo le isolate e ruvide e vitali affermazioni del Dogliani; ché per le altre arti, e specialmente per la pittura, dopo talune esibizioni contorsioniste, siamo più che mai convinti della fascistica e rude sincerità di un motto Mussoliniano, di quello e cioè che precisa che la tessera non conferisce l’intelligenza od il genio a chi ne è privo.

Nel suo campo il Servolini è venuto alle conclusioni riportate attraverso una lenta ma tenace ricerca, esteriore ed interiore, densa di opere e di pensiero. E vi è pervenuto da solo, lontano da ogni scoria e da ogni scuola. Il suo punto di partenza quale xilografo è ormai notorio. Si consacrò alla incisione in legno, autodidatta, nel 1926 quando, avendo inciso un legnetto simbolico per un gruppo di artisti, ne intravide le bellezze e le possibilità. Chiese allora a un artista, scaltrito nella tecnica, che lo prendesse con sé nello studio, e il categorico rifiuto di quello, che voleva gelosamente conservare tutti per sé i favolosi «segreti», accrebbe il desiderio ed i propositi dell’appena ventenne artista che, assieme alla produzione pittorica - in quel tempo intensa - si diede a lavorar di sgorbia e di bulino e, attraverso a ogni difficoltà (fabbricandosi gli utensili, levigandosi i legni, provando ogni sorta di legno), trovò la sua via. È sintomatica e istintiva la passione del Servolini per il legno inciso, passione che signoreggiò risolutamente su altre. Infatti siamo a conoscenza come una altra esperienza di poco precedente, fosse naufragata senza conseguenze: tre mesi di lavoro nella bottega di uno scultore che furono per il giovinetto una dura parentesi di facchinaggio a preparare creta, a portare bidoni d’acqua, metter su armature, se lasciarono in lui una preziosa esperienza di vita e di conoscenza, non lasciarono nessun particolare attaccamento alla plastica.

È attraverso questa strada che imparò ad affrontare e vincere qualsiasi difficoltà e a non cedere alle lusinghe dei vicoli ciechi, a non impegolarsi in nessun cenacoletto e in nessuna scuola. Venuto a conoscenza di tutte le tecniche, allora solamente egli poté manifestamente disprezzare la «tecnica» intesa come pura virtuosità e non come elemento indispensabile per la creazione delle opere d’arte, e disprezzare quei meticolosissimi e virtuosi suoi colleghi, che ancor oggi in gran numero insistono sulla via tradizionale ottocentesca del legno graffiato, delle mezze tinte, dei grigi desunti dalla lastra fotografica. E la sua ultima produzione fa cadere nel ridicolo, davanti a chiunque serio ed obbiettivo osservatore, la facile calunnia di qualche anche più facile avversario che s’è illuso di comprometterlo lodandolo come « tecnico » inteso in quel senso di luogo comune più sopra ricordato. Tecnico indubbiamente il Servolini lo è, in quanto padrone - specie nelle personali tavole a più colori - de’ suoi mezzi come pochi incisori sono; tecnico in quanto capace di esprimere appieno, del linguaggio xilografico, ogni modulazione ed ogni sottinteso; tecnico nel senso che ogni artista che possegga l’arte sua in ispirito e in potenzialità fu, è, e sarà. Precisata questa distinzione fra tecnica intesa come possibilità e dominio dell’arte e de’ suoi strumenti e fra tecnica come minuziosità e virtuosismo intesi a mascherare il più delle volte la povertà creativa e l’insufficienza congenita; dobbiamo riconoscere che la posizione del Servolini è nettamente antitecnica e antitradizionale, che traspare chiaramente nella irruenza de’ suoi tagli, nella loro stessa spregiudicatezza, nella forza di sintesi che assorbe e stronca ogni particolarismo, nel pressoché continuo rinnovarsi di ogni sua espressione; nonché nell’inesauribilità dei mezzi e nel potente richiamo alla logica costruttiva dei quattrocenteschi della xilografia. Non è facile infatti, nella pletora di incisori in legno che affiorano oggi, forse in troppo vasta schiera, nell’Italia, trovare un altro artista che, formatosi come il Nostro uno stile saldo e originale, potente ed espressivo, sappia come lui, dare ad ogni singolo legno un accento di nuda semplicità, quasi sempre un sapore di schietta e sana originalità, e sovente un aspetto nuovo ed a volte inatteso della sua arte. Il Livornese è da questo punto di vista, continuamente diverso e pur sempre personale; la sua produzione in divenire continuo ci sfila sotto gli occhi come una continua metamorfosi tanto ogni singola stampa è a volte interessante o nuova o attraente, e nello stesso tempo compiuta espressione d’arte in sé.

La visione delle sue ultime incisioni, parte delle quali figurano alla XX Biennale veneziana dove da parecchi anni è invitato, conferma le linee che precedono. Nell’Autoritratto, di recentissima esecuzione, esposto a Venezia, la vigorosa resa plastica ottenuta mediante una modellatura a larghe sgorbiate simili a colpi di scalpello, pur richiamandoci per la felice ispirazione all’indimenticabile Autoritratto di Ercole Dogliani, è squisitamente personale; un senso di grandiosità di dominio dei mezzi si accompagna alla signorilità ed alla sicurezza esecutiva; l’espressione di volontà della giovinezza pensosa ed attiva è manifesta nelle sobrie e rudi linee che ne tratteggiano il volto campeggiarne su un fondale estremamente semplice e integralmente xilografico. Ancora a Venezia, due altre incisioni di larga fattura: Giancarlo e Urbino, diversissime fra loro e audacemente realizzate, richiamano la nostra attenzione. La prima dimostra come, anche con la rigidità della sgorbia e del bulino si possa ottenere la tenerezza delle carni infantili; la seconda ci dice come il Servolini sappia compenetrare la «psicologia» d’una città, tanto la città dei Montefeltro, dove da parecchi anni insegna, è intimamente resa nel suo tipico ambiente rinascimentale e suggestivo attraverso le mura secolari del palazzo Ducale che paiono quasi parlare paternamente alle umili casette che le sottostanno.

Fra la recente attività Servoliniana, non possiamo passare sotto silenzio il gruppo di xilografie coloniali esposte alla Mostra del Libro Coloniale del Tempo Fascista a Roma (1936). Qui l’ambiente è tutt’altro: «tirate» in mattone o in terra di Siena, sono tipicamente africane; e dimostrano come- il Servolini abbia vissuto l’impresa etiopica e la passione coloniale che ha portato la nuova giovinezza d’Italia alla solare vittoria del 5 Maggio. Mercato all'aperto-. Le comari-. Il Marabutto-, ecc.: filari di palme, moschee, donne ciancianti fra anfore e mercanzie, uomini pensosi e furbeschi avvolti nei barracani, archiporti moreschi, tutto è reso con un segno agile e scarno che pur ti dà il senso dell’arsura e dell’esotico, che ti fa sentire come la visione non sia solamente «eseguita» con perizia, ma anche «sentita» e come paesaggio e come passione.

Anche fra le recenti opere del Servolini si può annoverare l’efficacissimo ritratto Mio padre (1934) che ha figurato alla Seconda Quadriennale romana (1935). È questa una fra le sue migliori opere, oseremmo definirla il suo miglior ritratto tanto la sicurezza dell’artista e l’amore filiale pare si siano associate a dare espressività alla franca e maschia figura paterna campeggiante sullo sfondo del Tirreno sotto un cielo tagliato da un digradante volo di albatri. Ancora dell’ultima Quadriennale romana vogliamo ricordare il Desco familiare, altra indovinata e saporosa xilografia di soggetto animalesco e domestico, una copia della quale venne acquistata da Vittorio Emanuele III.

Alla Mostra indetta quest’anno a Londra dalla Society of Graphic Art, presieduta dal celebre Brangwin, Vita beata e Vicolo a Urbino, due xilografie del Servolini, la prima monocroma, la seconda a due tinte, furono ammiratissime. Nella prima si nota quel senso bucolico, quel sapore campestre che tante volte ha attratto l’attenzione del Nostro; nella seconda rivediamo un angolo urbinate umile cui la delicatezza delle due tinte conferisce un tono di nostalgica poesia che si effonde dalla sapiente armonia delle luci e delle ombre e dal senso di musicalità che pervade la composizione. Vita beata, assieme ad altre xilografie del Servolini, è entrata ultimamente nella collezione di stampe del Museo di Debrecen in Ungheria.

Notiamo incidentalmente a questo proposito come una Mostra personale del Livornese in Debrecen abbia avuto notevole risonanza nel mondo artistico e nella stampa magiara che hanno apertamente lodato il giovane artista italiano, annoverandolo fra i maggiori artisti grafici di Europa. Il critico d’arte, professore Tòth Ervin, illustrando l’opera dei più quotati incisori europei, dell’Italia ha parlato del solo Servolini proiettando le sue opere più significative.

Un recente soggiorno a Portoferraio ha suggerito allo xilografo una caratteristica tavola. Fichi d'india a Portoferraio, che rappresenta un forte progresso in confronto delle Sughere di molti anni addietro, e che attraverso il sapore esotico e lo spunto delicato ed arcaicizzante ci offre una compiuta visione elbana.

Vorremmo ancora continuare a sfogliare la cartella delle incisioni servoliniane in visione alla Biennale veneziana, ma allora esorbiteremo dai limiti di un articolo per invadere quelli di una monografia, e ci limiteremo quindi, a mo’ di conclusione, a ricordarne due delle sue ultime più significative a colori, che sono la sua precipua specialità. In lui non troviamo i colori nettamente campiti come nelle Stagioni del Dogliani od il fine lavoro di musaico o d’intarsio nel quale eccelle Haas Triverio. Le xilografie a colori del Servolini hanno una loro propria caratteristica, risultante da una felice fusione di primitivo e di moderno, da colori caldi qua e là sovrapposti sopra un telaio disegnato a tratti larghi e sicuri. Le due cui accenniamo: I pesci e II guardiano, sono due forti realizzazioni che giustificano perfettamente quanto scrisse un autorevole critico belga delle xilografie policrome servoliniane: «che, tipicamente xilografiche, esse restano uniche nella produzione europea del genere». I pesci, composizione di sapore e di taglio modernissimi, di colorazione intensa, esposta alla recente Mostra Internazionale della Xilografia di Chicago (la giuria della quale la prescelse fra le stampe migliori destinate ad essere successivamente esposte nei massimi Musei degli Stati Uniti) e alla odierna Mostra degli Incisori Italiani contemporanei di Abbazia (ora trasferitasi a Trieste): è indubbiamente uno dei più felici «pezzi» servoliniani. Il piatto di pesci marini variamente tinteggiati, con il limone e le anfore su di un fondale bluastro e verdastro saggiamente «intonato», composizione risultante di ben dieci legni di faggio di filo sovrapposti, testimonia tutta la sicura dimestichezza che l’autore ha dell’arte prediletta della quale ha penetrato i più riposti segreti e per la quale ha trovato, e come artista e come scrittore, nuove forme di vita; è tangibile documento d’una battaglia lungamente e tenacemente combattuta e pienamente vinta. L’altra tavola Il guardiano, compiuta nello scorso Aprile e che figura pure alla Biennale veneziana, nudo femineo con un cucciolo a piè del divano, rappresenta una concessione al gusto novecentesco, concessione contenuta in limiti dignitosi, il che significa che chi sente veramente il fuoco sacro dell’arte può tentare e fare del nuovo senza fare delle puerilità e senza prendere in giro il pubblico. Eseguita su sei tavole d’olmo di filo del quale ha saputo valorizzare anche le venature, è tutta pervasa d’una calda atmosfera di intenso marrone che si attenua nell’incarnato, che si stacca quasi con violenza di rilievo sui capelli scuri e sui cuscini chiari.

Queste due tavole, scelte fra le numerose incise negli ultimi due anni, dimostrano appieno come il Servolini sia pervenuto, attraverso la xilografia a colori, originale nel suo genere e di gusto schiettamente italiano; genere che prima conoscevamo appena attraverso a qualche scialba imitazione giapponese dovuta per la più parte a incisori inglesi, a dare un altro primato all’arte italiana. E che si possa parlare di primato senza cadere nella compiacente adulazione è confermato dalle parole della critica europea che lodando le xilografie servoliniane non esita a definirle le più significative fra le occidentali. I pregi dell’arte servoliniana: originalità; spirito poetico; potenza espressiva; chiarezza compositiva e carattere assolutamente italianissimo derivato dall’inestinguibile linfa degli antichi maestri e dalla sana comprensione dello spirito moderno, ci richiamano alla memoria un nostro antico invito: si cimenti il Servolini nella figurazione del Dante Mediterraneo. Continuerà idealmente il grifagno Dantes Adriacus dell’incisore Piceno e tradurrà graficamente l’anelito millenare che dal canto dantesco d’Ulisse a quello delle Legioni che hanno portato lo spirito di Roma in terra d’Etiopia, ha sempre vivificato gli animi italici. Teresio Rovere (1936 - Teresio Rovere, Un maestro della xilografia moderna, (con ill.), Torino, a b c rivista d’arte, Anno V, n. 8, agosto, pp. 6/9).


Sue incisioni sono inserite nella Raccolta delle Stampe Adalberto Sartori di Mantova,

Sito internet: www.raccoltastampesartori.it


Bibliografia:

1926 - Luigi Servolini, "Bosco" (xilografia), Napoli, Cimento, p. 262 ill.

1927 - Luigi Servolini, Barche (olio), Napoli, Cimento, p. 105 ill.

1927 - Luigi Servolini, Padule (xilografia) III Biennale d'Arte Decorativa di Monza, Napoli, Cimento, p. 131 ill.

1927 - Luigi Servolini, Chiaro di Luna (Xilografia), Napoli, Cimento, p. 143 ill.

1928 - Luigi Servolini, Sprazzi di luce (olio), Napoli, Cimento, p. 6 ill.

1928 - Luigi Servolini, Angolo rustico (xilografia), Napoli, Cimento, p. 11 ill.

1928 - Luigi Servolini, Pini, (xilografia), Napoli, Cimento, p. 94.

1929 - Copertina di Rivista (xilografia a due tinte), Napoli, Cimento, p. 8 ill.

1930 - Luigi Servolini, Marina, (xilografia), II Mostra sindacale livornese, Napoli, Cimento, p. 162 ill.

1930 - XVII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 55.

1936 - Teresio Rovere, Un maestro della xilografia moderna, (con ill.), Torino, a b c rivista d’arte, Anno V, n. 8, agosto, pp. 6/9.

1942 - IX Mostra Interprovinciale del Sindacato Fascista delle Arti Emilia Romagna, catalogo mostra, Bologna, pp. 21, 68..

1953 - Esposizione Nazionale d'Arte. Biennale di Brera e della Permanente, catalogo mostra, tav. 73.

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