Servolini Carlo

pittore incisore
Livorno, 5 aprile 1876 - Collesalvetti (LI), 12 settembre 1948

Nel 1930 con il dipinto, Nevicata, (olio), partecipa alla III Mostra di Cimento, a Napoli.

Dal 9 ottobre XX all'8 novembre XXI (1942), partecipa alla IX Mostra Interprovinciale del Sindacato Fascista delle Arti Emilia Romagna, di Bologna, nella Sede Dopolavoro Professionisti e Artisti, con le opere: Il cieco (acquaforte), L'assalto (acquaforte), L'incontro con le Marie, Paesaggio.




Carlo Servolini. - Otto o dieci anni addietro conobbi Carlo Servolini nella sua Livorno. Con quanta trepidanza e quanto orgoglio mi parlò del suo Luigi che cominciava allora ad adergere le ali e a gettare le basi di quell’apostolato per la rinascita e la valorizzazione della xilografia, ora pienamente in atto, e con quanto amore mi fece vedere le prime ardimentose tavole che il giovinetto aveva incise. Solamente dopo la mia viva insistenza accondiscese, con non ostentata timidezza, a darmi in visione le sue scene di guerra, oli e litografie, quasi temesse che l’attardarmi ad osservarle distogliesse il mio pensiero da suo figlio. Uscimmo verso il crepuscolo e ci aggirammo qualche tempo per la periferia livornese. Il suo dire era sereno, senza animosità polemica, vivamente toscano e quindi sagace senza essere corrosivo, spiritoso senza cadere nel plateale. Mi si rivelò un temperamento che all’arte chiede anzitutto il conforto spirituale e che ad essa si dedica in umiltà senza cercare compiacenti turibolato o facili consensi. E mi rimase impressa, come quella di un vecchio amico, quella sua fisonomia schietta e aperta che l’anno scorso, in una delle sue migliori tavole, il suo Luigi interpretò con amore figliale e nobiltà d’artista.

Il Servolini appartiene a quella categoria di artisti che, depositari di un sacro fuoco, operano con criteri moderni e con onesta sincerità e pura fede per esprimere un linguaggio schiettamente nostro, esigua schiera cui sta accanto tutta una pletora di arruffoni e di arrivisti i quali, anziché portare un anche minimo contributo serio, ingombrano le vie dell’arte; riempitivi inutili che non conoscono le dure e lunghe vigilie dello studio, seguaci di tutti gli «ismi» dilaganti che co’ loro intrugli e colle loro elucubrazioni s’illudono ancora di imporsi, seguendo inconsciamente i postulati di qualche falso pastore. Fortunatamente la confusione che da tempo regna nelle questioni d’arte pare tenda a schiarirsi. L’ultima Biennale Veneziana ha dato non indubbi segni di ravvedimento; i nudi, i ritratti e le composizioni, ospitati in numero maggiore, attestano una più sana obbiettività, più consona al nostro temperamento di italiani, poeti e sognatori si, ma anche costruttori. Lasciate le mode esotiche a uno sparuto manipolo di testardi, i più tornano - per fortuna nostra - a nutrirsi a quella perenne linfa di cui la natura volle generosamente beneficiare la terra italica. E già si delinea, sia pure in germe, quel rinnovamento delle arti plastiche, auspicato da pochi generosi durante il caos degli ultimi anni, rinnovamento che sarà la sintesi del nostro migliore passato e del più sano modernismo; ardimentoso movimento da cui nascerà l’arte che potrà nominarsi dal secolo attuale (fatica quest’ultima da lasciarsi beninteso ai futuri Vasari).

Questa disgressione era necessaria per stabilire quali siano gli elementi fattivi e precisare che, anche al di fuori delle consorterie intese a mettere in evidenza le nullità, esistono artisti che operando in silenzio ed umiltà, creano opere che senza essere tutte di primo piano, sono significative e durature. Esiguo numero di fedeli all’arte che anziché accodarsi a scolette e cenacoletti issandosi a turno fra i giochetti di corridoio e il pettegolume da fantesche, lavorano tenacemente e quotidianamente con serietà d’intendimenti, consci di quanto sia arduo lasciare un segno durevole nei tormentosi e fascinanti campi dell’arte.

Sono queste le condizioni di spirito in cui lavora Carlo Servolini. Autodidatta, formatosi silenziosamente nell’ombra, venne, poco a poco, sicuramente affermandosi, senza strombazzare il suo nome e piegarsi ai facili gusti del pubblico che va per la maggiore. In una città dove tutti i pittori «lavoravano» alla Fattori, seppe sottrarsi a questa invadente e piatta imitazione, rivelandosi e affermandosi come colorista originale e vigoroso. Giovinetto interruppe la scuola per dare aiuto alla famiglia, e cercò - inutilmente - fra i mestieri cui riusciva facilmente apprendere quello che lo allettasse. Si decise allora per il mestiere paterno, quello di muratore, e forse durante quella sua attività gli si rivelò appieno la sua anima di sognatore portato all’arte. L’avvenire era oscuro. L’umile artigiano sentiva in sé la stoffa dell’artista, la certezza di poter fare di più, e questo pensiero divenendo di giorno in giorno più assillante, lo determinò, quasi in uno slancio di disperazione, ad affidarsi al caso che gli fu benigno. Si era inaugurato in quel tomo di tempo il monumento a Garibaldi. L’ingegnere Giacomo Cecioni vide riprodotta l’effigie dell’eroe nizzardo sui vassoi da calce e su altri frammenti di tavola, improvvisata dal Servolini nelle ore di riposo e, ammirando l’estro e la volontà del ragazzo, lo tolse dal mestiere per portarlo nel suo studio. In quello il giovinetto conobbe l’architetto pittore Lorenzo Cecchi che lo educò al disegno facendone in breve il suo migliore allievo. Frequentò quindi la scuola d’arte locale e completò in seguito la sua cultura con studi tecnici sì da giungere ad essere abilitato in un primo tempo all’insegnamento del disegno e dopo a quello artistico alle Belle Arti di Firenze. Né qui si fermò: i titoli accademici e la missione dell’insegnante per quanto a quest’ultima si sentisse portato con fervore di apostolo, non bastavano alla sua attività e al suo sogno e volle, accanto alla fatica del maestro, affiancare quella dell’artista. Cacciatore instancabile peregrinò dovunque per valli e paludi e foreste. Nelle albe aurate e nei tramonti purpurei emulò la tavolozza del maestro dal quale solo più tardi si staccò per la scelta dei soggetti e per la gamma dei colori e l’espressione vivace, singolare, caratteristica de’ suoi dipinti.

Seguace appassionato di sant’Uberto interpretava il paesaggio e con la passione del cacciatore e con la sensibilità del pittore. Spirito indagatore osservò la natura ne’ suoi multiformi aspetti e con tecniche diverse e con una concezione marcatamente personale esegui dal vero un non indifferente numero di disegni e di dipinti. Il suo quartier generale era il Tombolo, la bella tenuta reale in quel di Pisa. Acquitrini, nevicate, bufere, notturni e quanto altro la singolare plaga offriva alla sua avida tavolozza, sono di un’evidenza toccante, a volte straziante, dove sovente il paesaggio sormontato da cieli di tragedia ci richiama alle epopee Shakespeariane e alle desolate isole Bòckliniane. E a chi gli sottolineava l’audacia della sua impetuosità coloristica rispondeva: «Toglietevi la cispa dagli occhi, venite sul vero e mi darete ragione». I suoi paesaggi ispirarono al poeta Luigi Magni i versi che riportiamo in parte:

I tuoi cieli dai tragici colori, / lividi cupi violacei rossi / sanguigni, in notti, in albe, in vespri, scossi / da raffiche, da raspai e da tremori; // I tuoi cieli fantastici che arrossi / e inrosi ed inargenti per albori, / per aurore e tramonti, e anche indori / nei crepuscoli statici oppiar mossi; // I tuoi cieli nostalgici o sognanti, ebri di luce o per l'ombra pensosi.

Dall’olio e dall’acquarello passò poi all’incisione su rame e su pietra, ma dove più vibra la sua nota personale e vivace è nell’acquarello che sin dal 21 ottobre 1921, Alfredo Jeri cosi definiva nel Nuovo Giornale: « Né sappiamo dimenticare l’atto di meraviglia che ci produsse un acquarello di straordinaria suggestione: Il più forte! È ia prepotenza di un grande albero - in una foresta che riceve sprazzi violenti di luce meridiana - che strappa agli arbusti e ai «compagni» vicini la forza per crescere ancora. Qui il pittore avrebbe avuto occasione di intagliare nel tronco possente una più o meno feroce faccia da preda ed assomigliare a bramose braccia i rami nodosi, ricollegandosi in tal modo alle figurazioni dantesche del decimoterzo canto dell’Inferno!; ma non lo ha fatto sembrandogli artificio e volendo che lo sgomento risultasse uguale pur davanti al mero gioco della natura. Questo lo scopo che il pittore ha mirabilmente raggiunto e che è un alto segno della sua sincerità di artista…» -e concludeva- «Non sapremo a chi accostare il Servolini tanto in lui è dote precipua la originalità che gli fa dipingere i quadri senza che uno rassomigli all’altro. Sta solo; ma segue una maniera il cui valore è riconosciuto dall’invidia che gli ronza d’attorno.

Profondamente dissimile dagli armeggioni e dagli invadenti e stanco di vedere artatamente collocati a mo’ di riempitivo e in luce sfavorevole i suoi lavori, si appartò qualche tempo dalle mostre e dalle esposizioni, pago di perseguire la sua via, conscio - non infatuato - del suo valore, e solo recentemente vi tornò più per accondiscendere alle pressioni dei comprensivi che non per intimo bisogno. Ora egli segue e persegue i suoi fantasmi d’arte e vede e crea e incide con inesausta lena si che viene da porre in dubbio i dati dello stato civile che lo fanno nascere a Livorno il 5 aprile 1876. La parentesi della grande guerra, cui prese parte nell’arma del Genio, arricchì il suo taccuino di fotti motivi che venne in seguito traducendo sulla tela e sul rame e sulla pietra. Trincee, cavalli di frisia, reticolati, scoppi di bombe riprodusse con sorprendente efficacia ed emotività, con un senso di schietto e non scenografico realismo.

Temperamento eclettico, nelle calcografie, tratta con eguale disinvoltura il soggetto poetico e quello biblico, visioni apocalittiche e scene georgiche, episodi di caccia e paesaggi romantici. Se per questi ultimi vale il richiamo Bòekliniano accennato più sopra, per le evocazioni di soggetto biblico è spontaneo il richiamo alle composizioni quattrocentesche, che se da quelle si distaccano per il taglio e la tecnica del segno personale e moderno, a quelle ci riportano per il sentimento e l’espressione dei volti e per la concezione altamente spirituale. Dalle sue acqueforti esulano i lenocini di tampone e di velatura; in esse l’equilibrio delle masse si armonizza collo stile e l’effetto è ottenuto puramente col segno grafico. E altrettanto si dovrebbe ripetere per i monotipi, le acquetinte e le litografie.

Delle numerose esposizioni cui prese parte in Italia e all’estero ci piace ricordare la Nazionale di Livorno del 1921, quella degli Ex-Libris a Los Angeles, la Mostra personale a Napoli e quella più recente in Germania nel Musco di Braunschweiss e, tacendo di quelle di Torino, Milano, San Remo, Lecco, l’odierna Quadriennale Romana, dove figura l’acquaforte Deposizione. Oltre che nelle fugaci esposizioni il Servolini lo troviamo anche stabilmente presente nella Pinacoteca della sua città (già nel 1920), nella Galleria degli Uffizi, nel Museo delle Stampe londinese, nel Gabinetto delle Stampe a Parigi, nella Biblioteca Nazionale di Lisbona, nel Museo di Palermo, in quello di Santa Fè nell’Argentina e in diverse Gallerie private.

Pur essendosi da tempo dedicato all’insegnamento artistico, educando giovani energie alla comprensività dei più puri postulati dell’arte, continua a tradurre in atto il suo sogno d’artista schietto e originale. Attualmente non dipinge dal vero. Su quello si è formato e da quello ha tratto gli elementi della sua pittura. Ora realizza le sue visioni attraverso una sorprendente facoltà di evocazione senza valersi di modelli, che la ricca e vivace fantasia gli permette di vedere le figure e il paesaggio e le cose che vivono nella sua memoria. Le larghe sintesi che troviamo nei suoi quadri dell’immediato dopoguerra dimostrano come abbia precorso la nuova pittura senza per questo cadere nelle puerilità che sovente a quella s’accompagnano. Nell’acquerello, alla tecnica slavata e a gocciola contrappone una pennellata rapida e pastosa ottenendo un’intensità cromatica per cui si stenta a distinguerlo dall’olio. La sensibilità coloristica e la visione artistica personale gli hanno impedito di cadere nel post-macchiaiolismo labronico ed hanno fatto di lui il più indipendente fra i pittori livornesi. Una visione cupa e sovente tragica della natura, i cicli che sceglie di preferenza scuri e tempestosi - pur sapendo realizzare visioni limpide ed assolate - ricordano, specialmente nei paesaggi eseguiti colla matita litografica, taluni disegni di città nordiche del Camerana e la forza di certi sconcertanti lavis del Lorenese.

Oltre le opere riprodotte che, sia pure pallidamente, rendono le caratteristiche precipue dell’arte servoliniana, vogliamo ricordarne alcune che la tirannia dello spazio ci ha impedito di riprodurre: Reticolati, acquerello del tempo della guerra, potentemente emotivo, che venne esposto alla IV Sindacale fiorentina e che ora appartiene alla quadreria del collezionista Giulio Marchi di Firenze; Carniera vuota, raffigurante un cacciatore seduto sulla spalletta d’un fossato con il cane che accucciato ai piedi dello sconsolato padrone par quasi lo interroghi, stagliato su d’un ciclo crepuscolare vivificato da nubi rossastre; una Scena di caccia, con cinghiali e cani in movimento nella cornice di un ampio paesaggio notturno che con la litografia riproducente la testa di uno spinone rivela la perizia dell’animalista artista e comprensivo; in quest’ultima non si avverte la rigidità dei mezzi usati, tanto la pietra rende la tumidezza delle narici, la fluidità del pelo e l’occhio buono quasi sommerso tra la peluria. Le acqueforti Verso il Calvario, e Deposizione, accurati studi di figure e di composizione, documentano quella originale evocazione di visione quattrocentesca realizzata senza stridere con la tecnica moderna. E si vorrebbe spigolare ancora fra le centinaia di oli, di acquerelli e di incisioni, dove il Servolini non si ripete mai, recanti ciascuno il segno del tormento creatore, non sempre placato, a dimostrare e documentare la geniale attività di questo artista che partendo da un umile e sublime mestiere - che sta alla base di tutte le arti - seppe assurgere ai difficili campi della pittura. Ma questo esorbiterebbe dallo scopo di queste note che hanno voluto semplicemente segnalare la figura di Carlo Servolini che con pura passione e nobiltà d’intenti e di conseguimenti persegue e traduce, con serena alacrità, il suo sogno d’arte e di bellezza.

Teresio Rovere (1935 - Teresio Rovere. Artisti contemporanei: Carlo Servolini. Torino, a b c Rivista d'Arte, anno IV, n. 6, giugno, pp. 10/12).


Bibliografia:

1930 - Carlo Servolini, Nevicata, (olio), III Mostra di Cimento, Napoli, Cimento, p. 158 ill.

1935 - Teresio Rovere. Artisti contemporanei: Carlo Servolini. Torino, a b c Rivista d'Arte, anno IV, n. 6, giugno, pp. 10/12.

1942 - IX Mostra Interprovinciale del Sindacato Fascista delle Arti Emilia Romagna, catalogo mostra, Bologna, p. 21.

Leggi tutto