Nato il 19 ottobre 1881 a Casteldario (MN); con i genitori emigra a Milano fin dall'infanzia nel 1886.
Fortemente inclinato verso l'arte pittorica entra, nel 1893, all'Accademia di Brera e vi rimane fino al 1900 conseguendo il completamento degli studi sotto la guida dell'insigne prof. Tallone.
Il giovane artista affronta subito, da solo e con coraggio le prime difficoltà della vita, ottenendo i primi successi.
Nel 1903, fortuitamente si incontra con lo Scenografo della “Scala” Antonio Rovescalli all'apotesi della sua arte. Al Maestro che è in cerca di un aiuto per il suo studio situato nella soffitta di Corso Porta Vittoria, 32 (costruzione demolita) viene presentato il giovane Santoni al quale, dopo un sommario esame sulle capacità artistiche, affida l'esecuzione di figurine per presepe. A lavoro ultimato il Rovescalli rimane così bene impressionato della preparazione e dell'acuto senso artistico del casteldariese che, alla fine della commissione, lo vuole al suo fianco come collaboratore nell'esecuzione di scene per compagnie di operette e drammatiche.
Il binomio Rovescalli-Santoni lavora per il “Lirico” e per il “Dal Verme”, esegue scene per le Compagnie di Amleto Novelli, Tina di Lorenzo l'indimenticabile partner e consorte di Armando Falconi, Emma Gramatica, Maria Melato, i grandi interpreti di immortali capolavori.
Stando sempre in Corso di Porta Vittoria esegue le scene delle dannunziane “Figlia di Jorio”, “Città Morta”, “Fiaccola sotto il moggio”, “Francesca da Rimini”, “La Parisina”. D’Annunzio si reca spesso nella soffitta divenuta celebre, assiste ai lavori, dà consigli e impartisce istruzioni con quella meticolosità tutta sua particolare che lo conferma anche in quel campo, maestro insuperabile di estetica.
Dalla “soffitta” escono scene per le compagnie francesi di Sahra Bernhardt, Coquelin-ainé, Juditte ed altre, per il “Metropolitan” di New York, per il “Colon” di Buenos Aires, per l'“Opera” di Odessa, per vari teatri della Grecia senza dimenticare quelle eseguite per importanti teatri della nostra penisola quali il “Regio” di Torino, il “Costanzi” di Roma e il “San Carlo” di Napoli.
Il Rovescalli, considerato il suo allievo e collaboratore ormai maturo, lo introduce, nel 1912, nel “Teatro alla Scala”. Lì il Nostro conosce altri grandi Maestri fra i quali il pomponescano Vittorio Rota e il milanese Angelo Parravicini.
Finalmente anche per Gian Battista Santoni viene la “prova del fuoco”.
La scalata alla celebrità in arte è assai dura: gli abissi e i tranelli si incontrano ad ogni pie' sospinto e solamente con una decisa e ferrea volontà si superano e la meta tanto agognata si raggiunge. Gian Battista Santoni l'ha raggiunta e come!! Avviene nel 1921.
Con l'erezione del “Teatro alla Scala” in Ente Autonomo, sotto la direzione generale dell'ingegnere Angelo Scandiani, il Nostro viene assunto come “Scenografo Titolare” ciò significa fare da sé, essere abbandonato alla sua arte, alla sua perizia ed è il coronamento di tanti anni di lavoro, di studio, di sacrifici. Pur tuttavia non cessa completamente la collaborazione Rovescalli-Santoni; essi seguono le tradizioni collaborazionistiche dei pittori scaligeri.
Il debutto del nuovo Scenografo della “Scala” si ha nella stagione 1921-22. Il Santoni, mantovano, non può scegliere che il “Rigoletto” tipica opera ambientata nella sua Mantova. L’entusiasmo con il quale si mette al lavoro è pari alla bravura. Si reca in luogo, esegue bozzetti dal vero ed esegue scene che destano l'ammirazione e larghi consensi nei dirigenti e nei colleghi primo fra tutti il Rovescalli che andò fiero dell'artista da lui scoperto, plasmato e lanciato nell'arte alla quale accrebbe tanto lustro.
Il 14 gennaio 1922 ebbe luogo la rappresentazione. Il pubblico applaude l'artista in apertura di sipario e il giorno seguente non mancano i primi lusinghieri giudizi della stampa. “La Sera” così si espresse: “Le scene apparvero meravigliose piene di fasto quelle del primo e terzo atto, piene di fascino quelle del secondo (nella chiarità misteriosa di una notte lunare la casa fiorita di Gilda era piena di grazia) e del quarto, sulla quale - nello sfondo malinconico della piana di Mantova fra i pioppi ondeggianti - si sferrò una tempesta che non avrebbe potuto essere più violenta nella realtà. Effetti magnifici di nubi e di vento, luci sapientemente ottenebrate e via via riscintillanti, evidenza di pioggia torrenziale, un quadro mutevole e sempre bellissimo, alla perfezione del quale l'arte dello scenografo Santoni concorse con l'ingegno dei macchinisti Ansaldo e con l'accortezza dei distributori delle luci”.
E il critico G. Orefice ne “Il Secolo” fece un efficace accostamento al Rota con queste parole: “S'apre il velario sul primo quadro. Un mormorio di approvazioni. La scena del Santoni è bella e concepita diversamente da quella bellissima che il Rota ha dipinto per un'altra famosa edizione del “Rigoletto” alla Scala. Allora le coppie danzavano su una specie di palco rialzato, nel fondo dell'unica sala. Qui danzano, invece, sotto un loggiato dalle cui arcate s'intravede l'azzurro del cielo notturno. Molto sfarzo di luce anche questa volta. Forse nella figurazione del Rota l'ambiente, pur essendo grandioso era più intimo e raccolto. Ora appare un po’ vuoto! e la gente che vi si muove, in gruppi abilmente disposti e con atteggiamenti disinvolti, un po’ dispersa”. Sul “Corriere della Sera” Giulio Caprin dette questo giudizio: “La freschezza ed il gusto delle scene raggiunti nel "Rigoletto” dallo scenografo Santoni furono ieri oggetto di ammirazione. Ricca senza pesantezze barocche la prima del palazzo ducale; suggestiva nella sua semplicità dai raggi lunari la seconda scena, entrambe hanno finalmente appagato le legittime esigenze di coloro che, oltre sentire, vogliono anche con piacere del senso vedere gli spettacoli.
Come particolari esecutivi, riproduzione scenografica di affreschi e di arazzi, il salotto del palazzo ducale è apparso veramente riuscito ed anche le luci del terz'atto si sono ieri comportate bene. Sulla sponda del Mincio, fra la caratteristica vegetazione della bella plaga che incorona Mantova e la città protetta nello sfondo, fra il fiume dai riflessi argentei ed il cielo turbinoso percosso dal temporale, gli effetti luminosi ottenuti dai nuovi impianti e dalla cupola Fortuny hanno dato la sensazione del vero e del fantastico insieme”.
Per le varie stagioni susseguitesi esegue le scene di “Cristoforo Colombo”, “Lucia di Lammermoor”, “Parisina”, della “Gioconda”, “Elisir d'Amore”, “Tristano e Isotta”, “Crepuscolo degli dei”, “Sly”, dell'“Orfeo”, de “La via della finestra”, “Turandot”, “La Straniera” e di tante e tante altre opere riscuotendo un crescendo di entusiasmi e di consensi.
Il critico del “Corriere della Sera” scrisse: “Commenti in senso ammirativo sono stati fatti riguardo le scene dipinte dal Santoni. Ed invero i primi due quadri dell'opera, insieme all'ultimo, costituiscono una prova della sua valentìa di scenografo dall'occhio sicuro, ricco d'idee, ricercatore di buoni effetti”. E “La Sera” del 28 gennaio 1924 così elogiava le scene dell'“Orfeo” di Glück: “Scene bellissime, quelle specialmente nelle quali la fantasia dello scenografo Santoni potè spaziare con qualche libertà, cioè del primo quadro - il bosco ove si celebra il funerale di Euridice - e meglio ancora quella dei Campi Elisi, che pareva un luminosissimo dipinto del Previati”.
Esegue le scene della “Cavalleria” e “Pagliacci” per il grande spettacolo che si svolge in Piazza San Marco a Venezia nel luglio del 1928 al quale accorrono turisti da tutte le parti del mondo.
La celebrità, in forma clamorosa, è ormai assicurata e il Nostro continua la produzione di tutto il repertorio della “Scala” fino al 1950.
Sono trent'anni di lavoro tutti spesi negli immensi saloni del massimo Tempio Lirico dove l'artista sa armoniosamente rivestire della sua impareggiabile arte le note degli immortali operisti.
È importante ricordare che il Santoni partecipa, nel maggio 1929, ai trionfi della “Scala” riportati durante il giro artistico in Austria e in Germania sotto la direzione di Toscanini, con le scene della “Lucia” e con quelle del secondo e del terzo atto del “Rigoletto” al “Teatro dell'Opera di Stato” di Vienna e dell'“Opera Città di Charlottenburg” di Berlino.
Tra i giudizi della stampa ci piace qui ripetere quello del critico americano Olin Downes del “New York Times” il quale, dopo l'edizione della “Lucia” alla “Scala”, nel maggio 1929, parlando delle scene così scrive nella sua corrispondenza: “Il più superbo quadro che abbia visto per "Lucia” nella mia vita. Al "Metropolitan” si lavora bene in questo campo, ma il gusto, il colore, la nobiltà degli scenografi scaligeri sono assolutamente ineguagliabili”.
La collaborazione Rovescalli-Santoni continua alla “Scala” dopo l'abbandono della comune famosa “soffitta” con “I Quattro Rusteghi”, “Madame Sans-Géne”, “Il Flauto Magico”, con “Mefistofele”, “L'Oro del Reno”, “Il Convento Veneziano” e con “Le Donne Curiose”. Le scene di “Pelléas et Mélisande” sono eseguite dalla celebre coppia Rovescalli-Santoni in unione agli altri scenografi scaligeri Alessandro Magnoni, Edoardo Marchioro e Alberto Scajoli. In collaborazione con il conterraneo Vittorio Rota il Nostro dipinge le scene de “I Maestri Cantori di Norimberga” e con Grandi, Marchioro, Rota e Rovescalli prepara quelle per “Il Flauto Magico”.
Il Maestro e Allievo, divenuto pari al maestro, riprendono insieme il fecondo lavoro per le scene dei balli “Sieba”, “Vecchia Milano”, “Il Carillon Magico” e di tante altre opere fino a quando la morte del Rovescalli, sopravvenuta il 12 dicembre del 1936, non tronca bruscamente quella magnifica unione d'arte.
Tutto il repertorio della “Scala”, fino, come già detto al 1950 porta l'impronta del pennello di Gian Battista Santoni, fino cioè a quando non subentrano nuovi stili o per meglio dire nuovi concetti per i quali l'arte dello scenografo viene ridotta alla prestazione di un semplice artigiano esecutore di bozzetti altrui e non creatore di scene.
Il Nostro, inoltre, illustra più volte il “Maggio Musicale Fiorentino” ed esegue scene per la “Fenice” di Venezia e il “Massimo” di Palermo.
Dopo oltre cinquant’anni d'arte, a 75 anni, decano incontrastato degli Scenografi Italiani, dipinge ancora per diletto e per offrire ricordi agli amici.
Possiamo ben dire che Gian Battista Santoni sia stato un caposcuola della Scenografia Italiana vecchia maniera (che è la migliore).
Nella sua abitazione-studio in via Parmigianino a Milano, le pareti domestiche erano letteralmente ricoperte di bozzetti, di quadri, di disegni, di studi e paesaggi, nature morte, ritratti, e composizioni varie fatte di un realismo degno in tutto di stare alla pari dei “Pittori della Realtà in Lombardia” esaltati in una mostra a Milano. La sua era una raccolta di inestimabile valore.
Nella sua vita l’artista ha affermato in una intervista di aver dipinto circa 350.000 metri quadrati di scene. Cifra da restare sbalorditi al solo pensare che tanta arte e lavoro sia scaturito da una volontà e da due sole mani, piccole mani e volontà smisurata di un uomo minuto basso di statura dal viso fortemente espressivo ornato di un pizzetto dannunziano ispiratogli dal Poeta quando andava a trovarlo nella famosa soffitta.
La maggior parte del suo lavoro è andata distrutta, solo qualche bozzetto è conservato nel Museo del Teatro della Scala di Milano.
Fra le varie mostre di pittura teatrale cui Santoni partecipa, ricordiamo quella del giugno 1944, tenutasi al Palazzo Clerici di Milano e quella dell'autunno dello stesso anno, organizzata a Bergamo: le opere esposte suscitano particolare interesse nei visitatori ed entusiastici consensi da parte della critica.
Nel luglio del 1947, allestisce una Mostra Personale alla “Galleria dei Fiori” di Alassio. Il pubblico, che accorrendo numeroso decreta un vivo successo alla manifestazione, può ammirare un complesso di 52 opere tra trentanove dipinti, nove bozzetti scenografici e quattro disegni in bianco e nero. Mimì Palazzo, nella recensione della Mostra così giudica l'arte del Maestro: “Fra le virtù di questo artista è encomiabile quel suo costante ossequio alla verità anche se questa è da ricercarsi attraverso una tecnica linda e saporosa che è moderna, ma affatto influenzata da quelle fragorose correnti ove il cerebralismo confina spesso con talune evidenti deviazioni dello spirito”. “La Voce di Alassio” del 13 luglio riporta queste espressioni di “ge” che fecero eco alla mostra: “Ma tra una scena e l'altra, per opere di Verdi e Donizzetti e Mascagni, il Santoni si concede riposi dello spirito e si pasce di atmosfere quiete, cittadine o alpestri, abbozza figure, lavora sulla tela, dipinge. Ed è detto tutto: dipinge. Parrà strano, eppure dipingere significa una cosa molto semplice: significa sapere ciò che si vuole. Notare bene che non tutti coloro che dipingono sanno, in fondo, ciò che vogliono. E questo è male, come, ad un di presso, è male, per un critico d'arte, scrivere d'arte senza sapere che pesci pigliare. Il Santoni sa ciò che vuole e l'opera sua risulta chiara di una chiarezza spesso anche troppo pronunciata, ma non mai eccessivamente pettegola, nemmeno quando inforca gli occhiali o la lente, per non dimenticare nulla: né il filo d'erba né il riflesso della pietra nello specchio d'acqua. Santoni, mi avete inteso, imita la natura al vecchio modo. Ma talvolta la natura è stupita di fronte alla sua arte”.
Il Nostro è Socio Onorario della Accademia di Brera dal 1917, appartiene alla “Società Patriottica e degli Artisti” e alla “Famiglia Artistica” di Milano.
Nel 1953, in occasione del cinquantennio d'arte Cesare Meneghini ha pubblicato, per un Comitato di Amici, un opuscolo a copie numerate avente per titolo: “Gian Battista Santoni - pittore-scegnografo - nel cinquantennio della sua attività - 1903-1953”.
Nel 1954 dopo la celebrazione del cinquantennio d'arte si ebbe due altissimi riconoscimenti ufficiali: il Presidente della Repubblica lo nominò Cav. Uff. dell'Ordine della Repubblica, e il Comune di Milano gli conferì una medaglia d'argento con la seguente significativa motivazione:
“Pittore scenografo di alto ingegno, chiara fama e profonda onestà artistica, da oltre un cinquantennio dedica le sue migliori energie - con passione giovanile - alla scenografia della quale deve essere giustamente considerato un caposcuola, soprattutto per i trent'anni di sua attività nel Teatro alla Scala nel cui ambiente egli affinò la sua arte ottenendo una migliore fusione della pittura con la scenografia”.
Nel settembre 1956 in occasione della celebrazione dell’anniversario della testata della “Gazzetta di Mantova” il Santoni fu compreso nell'eletta schiera degli “Ambasciatori di Mantova”. La manifestazione artistico-culturale si svolse in quegli splendidi saloni del Palazzo Ducale che Egli mirabilmente illustrò nelle scene del “Rigoletto” per la ‘Scala’, quando, nella stagione 1921-22 debuttò come Scenografo Titolare. Il nuovo alto riconoscimento tributatogli dai conterranei lo pone in primo piano fra i mantovani che hanno onorato la loro città.
Bibliografia:
1953 - Cesare Meneghini, Cinquant’anni d’arte di Gian Battista Santoni, (con 2 ill.), Gazzetta di Mantova, 22 settembre, p. 2;
1953 - Cesare Meneghini, Gian Battista Santoni - pittore-scegnografo . nel cinquantennio della sua attività - 1903-1953, Milano, Edizioni Padania;
1955 - Cesare Menghini, La gnoccata, Milano, Edizioni Padania, pp. 55, 59;
1956 - Cesare Menghini, Scenografi mantovani alla Scala, Milano, Edizioni Padania, pp. 61/92;
1982 - Graziella de Florentiis, Sergio Martinotti, Giampiero Tintori, a cura di, Vita teatrale in Lombardia, Milano, Cariplo, p. 236.
2004 - Adalberto Sartori - Arianna Sartori, Artisti a Mantova nei secoli XIX e XX. Dizionario biografico, volume VI, Sa - Zir, Mantova, Archivio Sartori Editore, pp. 2792/2796.