Rosai Ottone

pittore
Firenze, 28 aprile 1895 - Firenze, 13 maggio 1957
cipressi
Cipressi - 1940 c.

Artisti Italiani: Ottone Rosai. - 1937 . Il Frontespizio, Firenze, Vallecchi Editore, n. 4 aprile, pp. I/VIII (8 quadri - 17 disegni): Sono nato a Firenze il 28 aprile 1895 in un quartiere delle case popolari di Via Cimabue. L’infanzia ha nella mia vita un’importanza fondamentale e i primi ricordi sensitivi li ho da quando con la mia famiglia andammo ad abitare in Via Scialoia prima e nel Viale Mazzini dopo. Era allora quella zona aperta campagna e tutto ciò che ne formava l’insieme costituiva per me una specie di modello sul quale andavo formandomi. Mai i miei parenti mi conducevano in città, per me la città non c’era, non sapevo della sua esistenza. La mamma ci portava a fare lunghe girate verso Maiano e per il Viale dei Colli, ed erano feste per me ed inferno per la mamma. Ogni animale diventava una scoperta; ogni viottolo, ogni borro un mondo di cui prendere possesso.

Finite le scuole elementari, mio padre avrebbe desiderato entrassi nel suo laboratorio di artigiano, succedendogli nel tempo. Inventai allora la possibilità di una scuola superiore di disegno. Fui messo all’Istituto d’arti decorative. Fu quello il tuffo nella città, nella vita della città. Contemporaneamente prendendo contatto col laboratorio paterno, invece di vedervi arnesi e intagli scoprii gli uomini e il loro lavoro. Cominciai a prendere il lapis ed a ritrarre quegli uomini nei loro vari atteggiamenti: mentre lavoravano, in riposo e durante le refezioni, ed unito ad essi sentii dipoi il bisogno di annettervi l’ambiente da cui eran circondati, interessandomi l’insieme architettonico che ne veniva a risultare. La vita della scuola mi si rendeva impossibile. Guardavo all’Accademia di Belle Arti come ad una scuola divina dove s’insegnava il segreto di diventare immortali. Tanto feci e brigai che, espulso dall’Istituto dove ero a studiare, posi mio padre di fronte al fatto compiuto dell’Accademia. Entratovi non vi trovai invece nulla di supremo, ma il tran tran borghese e muffito dei maestri esosi e degli scolari invidiosi e maligni. Uniche consolazioni: la sezione libera di nudo e la scuola, anche essa libera, d’incisione, delle quali divenni frequentatore assiduo ed attivo. Ma la vita tra quei muri diventava ogni giorno più impossibile, si giunse all’inevitabile e venni espulso anche di lì. Racimolati dei soldi, presi allora in affitto una stanzetta proprio di faccia all’Accademia, in Via Ricasoli. Cominciai a leggere Baudelaire, Mallarmé e forse i lavori di quel tempo hanno origine dall’influenza letteraria di questi scrittori. Frutto della stanzetta furono ima serie di acqueforti che esposi con grande successo, od almeno così parve, in una mostra che in quel 1911 si teneva a Pistoia. Passai quindi in uno studio vero e proprio nel Viale Principe Umberto, dove, in compagnia dei primi amici letterati, Klum, Mazzucconi, Bellini, Pucci, Cartoni, ecc. detti vita - fra una discussione e l’altra del caffè, fra una cazzottatura e l’altra originate dall’arte e dalla vita - a quei primi quadri che esposi nel 1913 in un locale terreno di Via Cavour.

Avevo conosciuto poco prima Giovanni Papini e fu lui che, venendo una sera a visitare la mostra, portò con sé la compagnia degli artisti futuristi che tenevano la grande esposizione futurista nella stessa Via Cavour. Mi vollero tutti conoscere, mi fecero elogi che ricevetti come enormi ricompense e mi invitarono ad unirmi a loro. Erano essi Marinetti, Palazzeschi, Boccioni, Carrà, Soffici e altri: ma più che altro, come pittore e come fiorentino divenni amico di Ardengo Soffici che mi dimostrava molta stima ed affetto.

Collaborai a Lacerba, ma intanto il fatto guerra si fiutava per l’aria e, messi da parte i pennelli, il mio studio ospitò un pianoforte e 18 giovani entusiasti interventisti. Fu lì che Agnoletti e Bastianelli c’insegnarono canzoni ed inni guerreschi, era da lì che ogni sera partivamo in corteo al canto di questi inni per finire in Piazza Vittorio Emanuele dopò soste e pugilati dedicati ai dileggiatori e agli inetti. La notte riprendevo contatto con gli amici di Lacerba e con Tavolato, Tomei, Campana e gli altri si trovava mattina a discutere d’arte e di guerra, di letteratura e di Patria.

L’interventismo finì con una prima vittoria e già il 24 maggio del 1915 ero soldato al confine italo-autriaco. Dalla guerra tornai tre anni e mezzo dopo col grado di Aiutante di Battaglia guadagnato sul campo e due medaglie al valore.

Destinato a Roma, ancora militare, con Bottai, Marinetti, Chiti, Bolzon, Carli, Settimelli, Rocca ecc. fondammo il Fascio futurista romano, che aderiva ai Fasci milanesi e a S. Sepolcro. A Firenze nei mesi successivi, con Nannetti, Agnoletti e pochi altri costituimmo il primo Fascio fiorentino di Combattimento e scortammo da camerati e da amici Mussolini nel Congresso fascista dell’ottobre '19 al Teatro Olimpia.

Di contro all’azione fascista che nasceva spontanea a difesa della vittoria e della Patria, cercavo riordinare in me le facoltà artistiche che il ciclone della guerra aveva come sommerse coll’emergere crudo dei fatti e delle contingenze. Fu una ricerca dura e tenace. Chiuso il periodo avanguardista della giovinezza, chiusi i mondi del popolaresco e del teppismo nei quali mi portava coscienza ed esperienza d’artista, avvertivo chiaramente che l’artista aveva ormai da riordinare i frutti dell’esperienza e della partecipazione umana alla vita per maturarli nella trasfigurazione amorevole e razionale dell’arte. Ripresi contatto con ansia, con sforzo e con timore dei lapis e della tavolozza e soprattutto cercai ritrovare in me quell’amore che sempre avevo portato per certe creature destinate a vivere come di nascosto alla stessa vita.

Nel 1921 in una stanza cedutami dall’Unione Politica Nazionale, nel Palazzo Capponi a Firenze tenni una mostra inaugurata con un discorso, da Fernando Agnoletti ed una immediatamente seconda la tenni a Roma nella Galleria di Bragaglia. Ebbi innumerevoli e unanimi consensi, e questo molto mi incoraggiò. Soprattutto si venne a rinsaldare in cotesta epoca la mia amicizia per Soffici che ebbe allora, in un suo scritto critico, a definirmi «piccolo maestro». Da quel dono d’amore e di stima sentivo emergere in me una più cosciente spiritualità artistica.

Contemporaneamente andavo svolgendo la mia attività di scrittore. Feci parte in qualità di redattore o di collaboratore in molti piccoli fogli di fede e di battaglia fascista che in quegli anni di vigilia rivoluzionaria si stampavano a Firenze, e dopo il Teppista pubblicato da Vallecchi nel '20, un altro libro. Via Toscanella uscì sempre per le stampe del Vallecchi nel '28.

'Gli anni dal 1923 al 1926, traversati come sempre da sofferenze e privazioni furono definitivi nei confronti della mia arte. Potei chiarire a me stesso, in maniera assoluta la mia possibilità e il mio mondo. E come chiusa di cotesto primo periodo del mio lavoro intensissimo d’artista furono i «Giocatori di Toppa» e il «Suonatore di Chitarra» regolarmente non visti al momento della loro esposizione qua e là per le sale ufficiali.

Prendeva volta allora, qua a Firenze, il Selvaggio di Maccari e per tutto il periodo fiorentino vi collaborai con scritti e disegni e con molto entusiasmo.

Giovani d’ingegno che oltre ad essermi amici dimostravano - e questo è sempre stato per me l’essenziale - di comprendere ed amare la mia arte, puntarono su di essa la loro attività di poeti e di scrittori. Ne nacque così il momento dichiaratamente polemico della mia pittura; fu stampato, sempre in conseguenza, Il Rosai, opuscolo di chiarimento e di presa aperta di posizione contro la critica militante, e lo stesso titolo doveva in un primo tempo avere un periodico di idee e di aperta realtà che fu poi L’Universale, il quale venne fondato da Berto Ricci, Bruno Rosai e da me. Cotesto periodo pubblicisticamente polemico della mia arte sfociò nella mostra che nel novembre 1930 tenni alla Galleria del Milione a Milano e che Gherardo Casini inaugurò con un discorso potente e chiarificatore. Apparvero in tale occasione i primi giudizi coscienti e coscienziosi sulla mia opera artistica e i più salienti e d’impegno rimangono quelli scritti da Garrone, da Cochetti e da Persico.

Successivamente, nel 1932, alla Galleria di Palazzo Ferroni a Firenze un’altra mostra di 100 opere inedite fu inaugurata da Fernando Agnoletti ed anche questa venne seguita dal pubblico con molto interesse. Ancora lavoro e nel 1933 Alberto Savinio parla al pubblico milanese della mia opera che sta appesa alle pareti della Galleria delle Tre Arti. Questa mostra fu chiusa con un cenno riassuntivo riguardante me e la mia pittura da Edoardo Persico. In un ritaglio di tempo scrissi Dentro la Guerra, pubblicato nel 1934 pei tipi di Novissima, Roma.

Scritti di Tinti, Soffici, Cecchi, Bartolini, Carrà han sanzionato il valore della mia opera che lungi dall'esaurirsi, par quasi abbia a cominciare a nascere da ora.

Sono di mia creazione i due pannelli rappresentanti paesaggio toscano che decorano le pareti del buffet di stazione a Firenze. Inoltre ospitano miei dipinti le gallerie d’arte moderna di Firenze, Roma, Milano, Mosca.

Il bilancio morale m’incoraggia, quello materiale economico potrebbe scoraggiarmi se non avessi con me tanta fede e un paio di spalle capaci di sostenere il mondo.

Nel 1940 partecipa alla rassegna "Dodici artisti" nelle sale del giornale fiorentino "La Nazione", durante l'inaugurazione il Gr. UFF. Marino Lazzari, direttore generale delle Antichità e Belle Arti, era venuto da Roma A comunicare che il Ministro Bottai aveva nominato Ottone rosai (senza concorsi nè titoli) professore ordinario nel R. Liceo Artistico di Firenze.


Bibliografia:

1934 - Mario Tinti, Ottone Rosai - I preti, Arte Contemporanea, Firenze, anno II, n. 1 gen. - feb. XII, copertina, p. f.t. 70/71.

1937 - Artisti Italiani: Ottone Rosai. Il Frontespizio, Firenze, Vallecchi Editore, n. 4 aprile, pp. I/VIII (8 quadri - 17 disegni).

1940 - Giorgio Cartei, Dodici artisti una discussione e... un ombrello, Assisi, La Festa, n. 10, 10 marzo - XVIII, pp. 116/117.

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