Piatti Prospero

pittore
Ferrara, 1º giugno 1840 - Roma, 15 luglio 1902

(1932) Prospero Piatti Pittore Sacro: La pittura romana dell'ottocento può vantare un artista d'arte sacra che ha per carattere quell'ampiezza di forma, quella solidità di costruzione, quella profonda cognizione anatomica e quel delicato sentimento di fede che s i sprigiona vivo e sentito da ogni opera sua.

Prospero Piatti è l'artista romano, che alla grandiosità della composizione, dotata di equilibrio e vivacità, sa unire un vivo sentimento di bellezza che l'animazione della scena e il vivace accordo coloristico accrescono, sviluppando quell'idea spaziale, che è vita ed idea principale di ogni opera sua, sia di cavalletto che di decorazione. Se nei suoi quadri di cavalletto domina spesso un accento di grandiosità romana con un sentimento di puro classicismo, come anche di un verismo sano, forte, personale, nelle sue tempere e nei suoi affreschi religiosi affiora invece una profondità di vita che non ha l'eguale nell'arte dell'ottocento; in essi la forza del rilievo dà una solennità monumentale alle figure, che animate di una vita tutta interiore manifestano il carattere scultoreo che sente della robusta modellatura del grande suo contemporaneo Ercole Rosa.

Nato a Ferrara il 1 giugno 1840 dall'Avv. Giuseppe Piatti di professione Giudice processante e da Luigia Franceschini, era ancora bambino, 1847, quando tutta la famiglia si trasferì a Roma; e ancora fanciullo manifestò una passione sì viva per il disegno che il concittadino Alessandro Mantovani prese con sé il piccolo Prospero a cui volle impartire le prime nozioni di disegno. Rapidissimi furono i suoi progressi per le sue spiccate qualità e la passione che fin da allora manifestava sia per il disegno che per la decorazione, tanto che si poteva facilmente ravvisare in lui una sicura promessa dell'arte. A rendere più spediti i suoi primi passi, sia nel disegno che nella decorazione molto contribuì la visione di quei mirabili affreschi della Loggia di Raffaello e quelli di Giovanni da Udine dove il giovanetto artista coadiuvando il maestro, allora intento a decorare il braccio nuovo della Loggia Vaticana, ebbe modo di ammirare le bellezze suggestive di quei capolavori della Rinascenza.

Ma il Mantovani, superbo e sprezzante, intravedendo il genio pittorico del suo giovine garzone di bottega, indispettito per la rapidità con cui apprendeva, riuscendo ad imporre ai condiscepoli la propria personalità, cominciò, non solo a non più curarlo, ma a biasimarlo apertamente affermandogli « che egli non aveva nessuna qualità per riuscire un pittore più o meno passabile, e ciò si poteva inferire manifestamente della mancanza di quelle doti necessarie di cui la natura lo aveva privato, dotandolo invece di quella di mancino, quando tre mancini non erano riusciti a cavar una rapa » . Il giovane Prosperosi addolorava a questi pubblici biasimi, ma si consolava notando l'inferiorità di merito di quegli alunni per i quali il maestro intravedeva un fulgido avvenire.

Ma questi rimproveri troppo frequenti l'avevano talmente scorato, che meditava di abbandonare lo studio della pittura, quando ebbe occasione di entrare in famigliarità col Prof. Pietro Galli, scultore valentissimo, al quale era stato commesso l'incarico di decorare in stucco la volta della Loggia medesima. Il Galli intuì il genio pittorico di quel giovine smarrito e tanto fu l'affetto che gli pose, che a lui stesso si deve, se l'incipiente talento del giovanetto, non ancora ventenne, si orientasse con quella duttilità, che è propria del genio, verso un campo ben più vasto, nel quale seppe creare di poi, con robustezza di forma e genialità di composizione, la figura.

La sua fanciullezza si sviluppò nell'ultimo periodo di quell'accademismo che imponendo con nuovi sistemi e precetti di scuola l'imitazione del passato, finì col diseredare l'artista della sua ispirazione, che non più libero di rap-presentare quello che pensava, immaginava, sentiva, con quei precetti vedeva non più il mondo immenso della natura, ma quello limitato dai classici e trascriveva servilmente questo, come modello assoluto, e quasi sempre lo sciupava nel riprodurlo.

Ribelle a questi precetti, cogli insegnamenti avuti dal Mantovani si accostò alla scuola del Minardi, che dava alla pittura romana un nuovo indirizzo col suo insegnamento. Ma il risultato che il Fracassini aveva per mezzo della sua esperienza personale acquistato colla vivacità del suo pennello e con quell'organismo formale di riportarsi tutto sul disegno, non poteva andare perduto, ma attendeva un ingegno potente di un artista di sintesi che succhiasse tutto quel fervore di vita per elaborarlo, infondervi nuova vita e, dotandolo della sua impressione personale, dare alla pittura romana un tipo di bellezza artistica che potesse gareggiare con la fioritura napoletana e fiorentina.

Questo artista fu il Piatti, che, venuto su dalla decorazione, scuola del Mantovani, benché nella concezione della figura fosse un autodidatta, riuscì ad essere il più vivace coloritore e il più per-fetto e geniale disegnatore del suo secolo.

Egli ammirò il Fracassini, ma distaccandosi dagl'insegnamenti tradizionalistici del suo tempo, con audace ardimento ebbe aspirazione di creare qualche cosa di nuovo; di seguire quel movimento ancora indeciso, inafferrabile, che già alitava nell'aria, ma che più tardi seppe precisare inclinando il suo pennello verso quella scuola verista che tanta forza di concezione e di colore diede all'opera sua. I suoi primi studi in tal genere gli fruttarono l'interessamento dell'accademia dei Virtuosi del Pantheon, che ebbe più di una volta a gratificarlo di graziosi donativi. Sostò in seguito nello studio del pittore tedesco Overbeck, artista di grande fama, ma vi rimase ben poco, non potendo il suo temperamento artistico adattarsi alla « maniera» del tedesco, che egli stimava troppo fredda e compassata. Allora il Prof. Galli, che continuava ad interessarsi di lui, lo presentò all'architetto dei Sacri Palazzi Apostolici Domenico Fontana, il quale, nel 1865, lo propose ai monaci Benedettini per dipingere la Cappella del coro interno della Basilica di S. Paolo che era stata dimora di Gregorio VII.

Il Rev. Padre Abate Tosti e i Padri Pisciatelli e Liberati lo accolsero con vero entusiasmo, tanto che lo vollero ospitare in convento durante l'esecuzione del lavoro.

E in questo pensoso cenobio di asceti l'animo dell'artista spiegò libero il volo alla sua arte per inebriarsi della sua concezione; e gagliardo fu il suo volo; il volo dell'aquilotto che provata la resistenza delle sue ali, seguendo la inclinazione del proprio ingegno, spazia libero nel cielo dell'arte, tagliando ogni contatto di imitazione per gettare nella nidiata verista la prima pennellata dell'arte moderna. L'intera cappella affrescata di sua mano. La tonalità del colore, la forza della concezione e la purezza del disegno ardito ed immaginoso, lo rivelano artista in piena efficienza della sua maturità. Dalla figura centrale, severa e maiestatica di Gregorio VII, si sprigiona il carattere sovrumano di colui che, spezzando ogni tradizionalismo storico, seppe ripor-tare la Chiesa alla genuinità dei tempi apostolici pur conscio di scatenare l'ira imperiale, e che da Pontefice eroico sostenne l'immane lotta che ebbe per epilogo Canossa, l'esilio, e la sua tragica fine a Salerno. L'artista ha dotato questa figura di una potente luminosità ricavando dalla sua forte pennellata audace una tonalità viva di colorito.

Vi dipingeva anche con arditezza negli spigoli della volta quattro bellissimi medaglioni a chiaroscuro adombranti le gesta del Pontefice.

Nel primo i simoniaci: Divina sunt, cave vendas.

Nel secondo la tragedia di Canossa: - Me quod facere vides tu si innocens es facito.

Nel terzo contro la schiavitù: Homines sunt noli ven-dere.

Nel quarto la libertà dell'ordinazione: Haetenus liberi estis ad saecularia licet transire.

In alto, sull'altare, ha poi dipinto ad olio una lunetta con la Vergine nel mezzo e S. Ildefonso e S. Anselmo ai lati, con una grazia di tocco e vivezza di colorito da manifestare quale altezza potesse raggiungere la sua arte quando quel sentimento vivo di fede, che lo animava, lo ispirasse. Ai lati dello stesso altare ha inoltre dipinto S. Geltrude e S. Matilde e sotto S. Gregorio II e s. Leone IV.

Nel coretto interno della Basilica l'artista vi ha raffigurato, a magnificare la diffusione dell'ordine benedettino: S. Agostino inglese; S. Gerardo ungherese; S. Bonifacio tedesco.

L'ornato di una di queste figure si chiude con una bellissima nidiata di uccelli, che a bocca aperta aspettano l'imbeccata. Questo piccolo gioiello ha una vivacità singolarissima di colorito e audacia di disegno, era direi quasi, la prima pennellata verista che doveva condurlo poi allo sviluppo completo di un'arte, robusta e moderna.

Ma fra tante solennità di arte e severità di ricordi storici, stridono in questa cappella, quei veristici festoni di putti e frutta, che se bellissimi per la gamma del colorito e punto si conciliano colla severità del luogo, che richiama alla memoria una storia di tragedia e di umiliazione dei due poteri: spirituale e temporale.

L'ambiente romano educò questo fiore ferrarese, che venuto su dalla decorazione seppe creare con geniale originalità la figura a cui diede movimento e vita; seppe ispirarsi e creare il quadro romano e quello catacombale. L'affresco, la tempera ed il cavalletto lo innalzarono al di sopra dei suoi coetanei, che invidiosi di tanta gloria non lo curarono e con sorriso ironico lo chiamavano «il decoratore». Ma il romito della soffitta di Via di Panico non dava ascolto a questi sordi mormorii che si sollevavano intorno a lui; egli troppo doveva fare: doveva dare all'arte un nuovo indirizzo; incarnare nelle sue figure quella bellezza immortale che gli ardeva nell'anima; doveva fugare l'ultima favilla di accademismo e tra questo e l'arte moderna porre sovrana la sua personalità. Egli già si avanzava nel regno dell'arte camminando solo per la sua via, silenzioso, quasi inosservato, pensoso più del giudizio dei venturi che di quello dei contemporanei.

Chiamato a S. Apollinare a decorare la Cappella delle Reliquie, creò in quell'angusto sottoscala con la sua fervida fantasia di poeta e d'artista un vero gioiello di pittura.

Una delle primissime opere di cavalletto del nostro artista è un bozzetto pieno di vita, rappresentante «S. Paolo dinanzi ad Agrippa» . In questo bozzetto sono in germe tutte quelle doti che, via via, poi esplicherà nella sua meravigliosa produzione: concezione libera, morbidità di modellato, vivacità di colorito, luce ambientale.

Nel 1876 nelle sale degli Amatori e Cultori, comparve il «Sinite parvulos» del nostro artista, che destò viva ammirazione. Tutta la scena si accentra nella figura di Gesù, che con la destra sul capo di un bambino e colla sinistra in atteggiamento di dolce comando, parla ad un animato gruppo di persone, che pendono dalle sue labbra compresi dalla sapienza del suo eloquio.

Nel 1879 invia alla sua patria, Ferrara, il quadro «Il Battesimo di Gesù».

La tela del Battesimo è di una semplicità scenica mirabile. La figura del Battista e quella di Gesù dominando il quadro campeggiano nel centro sul vago, arioso paesaggio di sfondo palestinese, mentre i vari gruppi che costituiscono la parte scenica della tela danno a questo quadro uno spiccato effetto di carattere pittorico. La scena di questo quadro è colta nel momento in cui il Battista versa l'acqua sul capo di Gesù, e lo Spirito Santo sotto forma di colomba pronuncia le parole: Hic est filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui. Sulle persone e sulle cose si è diffusa quell’estatica ammirazione silenziosa che con straordinario rilievo risalta dalle figure dei vari gruppi, le drammatiche espressioni, con attitudini e movimenti diversi manifestano i vari sentimenti di cui sono agitate innanzi al prodigio. In alto raggia la sua luce bianca lo Spirito Santo. L'artista è riuscito a dar vita ai gruppi, espressione alle figure, movimento all’intera tela. Il sole, alto sull’orizzonte, versa la sua luce d'oro sul manto bianco del Signore, sulle pelli caprine del Battista e sulle altre figure, suscitando un'infinita dolcezza di mezze tinte nel cielo sol-cato da nuvole bianche e nelle acque lucenti di bagliori riflessi.

Nella Chiesa del Buon Consiglio in Genazzano il nostro artista fece opera veramente grandiosa cogli affreschi «Nascita della Vergine», forte e robusto nelle linee, quanto geniale nella sapiente distribuzione delle luci notturne.

Nella «Presentazione al Tempio» è riuscito felicemente a ritrarre la scena movimentata e ben costruita con grande semplicità e chiarezza. In quello dei «Pellegrini scutarini», misticismo.

Ma bello per drammaticità di movimenti dei vari gruppi, si presenta «Il ritorno dalla caccia dei Principi Colonna» .

Anche l'affresco dell'«Incoronazione della Sacra Immagine» è di una serietà e compostezza mirabile. Nel 1891S. Angelo, dipinse a tempera nella calotta dell'Abside della Chiesa dell'Addolorata gruppi di Angeli in adorazione della Croce.

L'atteggiamento dei vari gruppi e le tinte smorzate di roso, di verde e di nero, circonfuse da un fulgore di luce bianca irraggiata dalla Croce, suscitano nell'animo dell'osservatore un sentimento di mistico fervore.

Dipinse anche nei pennacchi della volta maestose per potenza di forma, le quattro eroine ebraiche: Debora, Sara, Ester, Giudita. La nobiltà delle forme, modellate con fare vigoroso e plastico e a volte in veste con poche e naturali pieghe, dà a queste figure una visione squisitamente aristocratica e severa con meraviglioso sentimentodel colore.

Giuseppe Parroni (1932 - Giuseppe Parroni, Prospero Piatti pittore sacro, L'Illustrazione Vaticana, anno III, n. 13 del 1 luglio, p. 668/671 ill. )


Bibliografia:

1932 - Giuseppe Parroni, Prospero Piatti pittore sacro, L'Illustrazione Vaticana, anno III, n. 13 del 1 luglio, p. 668/671 ill.

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