Overbeck Giovanni Federico

pittore
Lubecca, 3 luglio 1789 - Roma, 12 novembre 1869

(1932) OPERE INEDITE DI G. F. OVERBECK IN ROMA LA VITA, LE OPERE ED IL PENSIERO DELL' ARTISTA.

Avviene non di rado che l'erudizione tratti e riprenda aspetti minori di una personalità artistica o studi opere di secondario valore, tralasciando problemi che, per la loro importanza capitale, dovrebbero, invece, avere la precedenza sopra ogni altro. Di questo genere è la lacuna che s'apre in uno dei più bei capitoli della storia d'arte tedesca: quello sull'Overbeck. Fondatore di una numerosa scuola e rinnovatore della pittura, specialmente religiosa, in Germania, altissimo come artista e come uomo, egli visse quasi sempre a Roma, dove lo legava doppiamente l'intensità della Fede ed il genere dell'arte sua. Malgrado ciò, quasi tutte le sue opere furono fatte per la Germania, dove si trovano tutt'ora. Quelle pochissime rimaste a Roma - sebbene siano i suoi capolavori e quelle che maggiore influenza hanno esercitato, anche oltr'Alpe - sono tutte ancora praticamente inedite.

Il presente saggio si propone, appunto, di colmare tale deficienza, dovuta meno a manchevolezze d'indagini che a sfavore di circostanze. Queste opere - o piuttosto, cicli d'opere - sono: gli affreschi di Villa Massimo (ora Lancellotti), il «Cristo perseguitato dai giu-dei», la «Via Crucis» ed i grandi cartoni detti dei «Sacramenti»; un insieme grandioso, celebre di nome quanto sconosciuto di fatto, in cui si compendiano tutti aspetti della sua lunga e gloriosa carriera. Esse verranno ora presentate, per la prima volta, in una serie di quattro articoli indipendenti, ai quali il presente servirà come introduzione, compendiando la vita, le principali opere ed il pensiero dell'artista, perché è impossibile apprezzarne appieno l'opera fuori dell'atmosfera spirituale di cui essa è, ad un tempo, creatura ed espressione compiuta.

Giovanni-Federico Overbeck nacque a Lübeck, il 3 luglio dell'anno fatidico 1789, da Cristiano Adolfo Overbeck ed Elisabetta Lang, penultimo di quattro fi-gli. In seno alla sua famiglia - una delle prime della Città Libera - il futuro glorificatore della Chiesa ricevette un'educazione accurata ma rigidamente protestante. Fin d'allora, però, ebbe come un avvertimento della sua futura conversione ed insieme della sua vita consacrata interamente all'arte religiosa. Egli raccontava, nella vecchiaia, come, da bambino un'irresistibile attrazione lo spingesse ad entrare nella quasi segreta cappelletta cattolica della luterana Lübeck ed a rimanervi, per ore, incantato dinnanzi ad un quadro della Madonna, nel sogno di poter un giorno imitare l'ignoto pittore. Con l’andar degli anni si venne sempre più rafforzando in lui la coscienza della sua serena missione in quell'epoca insanguinata dalle guerre napoleoniche che provarono duramente anche la sua città. Il padre - spirito pratico benché amico dell'arte ed, anzi, poeta egli stesso più che buono - finì per trasformare la sua prima opposizione in un consenso condizionale, diventato definitivo quando le prove, fatte sotto il magistero di Nicola Peroux, ebbero dimostrato che anche Overbeck sarebbe diventato pittore. Un momento decisivo per la sua arte fu quando il critico e pittore Augusto Kestner - figlio della Carlotta del «Werther»- gli mostrò alcune copie di disegni riportate dall'Italia e riproducenti opere del primo Rinascimento. Per lui fu una doppia rivelazione: quella di se stesso e quella di un mondo nuovo. Non poteva sapere, egli, nella provinciale Lübeck, che il Romanticismo lavorava faticosamente a riabilitare il Medio-Evo dispregiato per tre secoli; tanto più spontanea appare l'adesione di questo alunno del classico Peroux allo spirito e alle forme di un Giotto o d'un Masaccio. È il segno di una vera predestinazione artistica e, al tempo stesso, la riprova della sincerità e della necessità storica di quello stil nuovo della pittura tedesca di cui egli sarà, tra poco, il Maestro.

Terminate le modeste lezioni al Feroux, Uverbec partì per Vienna il 14 marzo 1806, dove s'iscrisse alla rinomata Accademia di Belle-Arti. L’insegnamento impartito in quell'Istituto era ancora tutto pervaso dall'influenza manieristica del pseudo-classicismo settecentesco di A. R. Mengs, di cui il Direttore, Enrico Füger, era seguace convinto. Overbeck si avvide presto e sempre più chiaramente quanto le aride teorie del suo maestro - che egli da principio tentava docilmente di seguire - contrastavano con l'intima aspirazione del suo genio, aspirazione rivelatasi nel suo subitaneo entusiasmo dinnanzi alle opere, sin'allora insospettate, del Tre e Quattrocento italiano e rafforzata poi con lo studio del Cinquecento tedesco. Decisivo per la sua ulteriore evoluzione e per la sua sempre più marcata rivolta accademico, fu la forte amicizia stretta fin dal 1806 con Franz Pforr, suo condiscepolo e quasi coetaneo, anima dalle stesse avversioni ed idealità. Egli trovò un animo veramente fratello del suo in quell'artista dall'indole mite, profondo ed appassionato, un po’ malinconico e come segnato già per l'immatura morte che gli vietò di Overbeck ed a Cornelius nella storia della moderna pittura due giovani amici si vennero poco a poco aggiungendo altri compagni, attratti dal loro entusiasmo. Il 10 luglio 1808, essi decisero di riunirsi una volta alla settimana per esaminare vicendevolmente i loro lavori e studiare insieme, formando così una specie di società, stretta da un ideale comune e da una comune attitudine di ribellione, non sempre passiva, all'insegnamento ufficiale. «Lo studiare servilmente nelle Accademie non conduce a nulla, scrive Overbeck al padre il 27 aprile 1808, si impara a fare un ottimo panneggiamento, una figura giusta; eppure un vero pittore non ne viene mai fuori! Una cosa manca alle pitture moderne... cuore, anima, sentimento. Raffaello, forse, disegnava appena tanto correttamente quanto molti dopo di lui, e dipingeva molto meno bene di tanti altri, eppure nessuno gli arriva alla caviglia. Dove cercarla dunque questa cosa che sembra irraggiungibile? Dove egli l'ha cercata e trovata: nella natura ed in un cuore puro». Queste parole contengono in germe tutto il programma della famosa « Confraternita di S. Luca» che gli amici fondarono il 10 luglio 1809, rinforzando così il legame che esisteva tra loro già da un anno. I primi membri furono: Overbeck, Pforr, Vogel, Hottinger, Wintergerst e Sutter. Il loro motto era «Verità», e, rinnovando un uso delle Corporazioni medievali, essi apponevano il loro emblema, un'immagine di S. Luca, alle opere dei confratelli giudicate conformi ai principii della Comunità.

Questi principii sono uno dei più interessanti ed originali aspetti che presenta il mondo spirituale della Germania all'inizio del secolo scorso. Difatti, pur andando debitore al classicismo di Carstens e soprattutto al movimento romantico in cui si erano venute incanalando le tempestose onde dello «Sturm-und-Drang », il Nazzarenismo - conserviamogli questo nome dato per dispetto e reso glorioso - si distingue, tuttavia, nettamente da queste due tendenze. Al classicismo di Carstens lo lega la dottrina della superiorità del contenuto morale sulla forma estetica, la esigenza di perfezione spirituale nell'artista stesso e la comune lotta contro il formalismo accademico; ma il suo carattere decisamente religioso lo allontana dal grande poeta della mitologia ellenica. Al Romanticismo - con cui spesso la si confonde - la scuola nazzarena deve la rivelazione del Medio-Evo e della sua arte religiosa che esso vorrà far rinascere. Dal campo romantico venne, anzi, il suo maggiore sostenitore: F. Schlegel, e, con Overbeck, il suo più grande pittore: Cornelius. Romantici e Nazzareni, difatti, non erano divisi da frontiere nettamente tracciate, ma solo - per dirla con un'immagine - dalla diversa intensità della luce che illuminava i vari aspetti del loro comune dominio artistico e spirituale. L'indeterminato era atmosfera vitale del Romanticismo; l'oggettività massima, fin dove lo consentisse la natura delle cose, era imprescindibile esigenza dello spirito nazzareno, e lo avvicinava a quello classico. Dalla sbrigliata fantasia dei romantici, lo allontanava la volontà di tenere l'immaginazione nei margini precisi della natura. Dalla loro preferenza per l'elemento sensuale delcolore, lo separava la priorità attribuita al disegno come maggiormente espressivo del contenuto morale nell'opera d'arte.

Infine, dalla vaga e poetica religiosità romantica i Confratelli si distinguevano per la loro religione positiva - cattolica o protestante - e per il loro desiderio di certezza ferma che ricondurrà Overbeck e molti altri in grembo alla Chiesa.

Il loro ideale era Raffaello, l'artista in cui essi vedevano realizzate compiutamente queste aspirazioni; ed in lui prediligevano quello del primo periodo e della maturità - il pittore della «Deposizione» e delle Stanze - a quello degli ultimi anni, dove già comincia a disfarsi il breve sogno del Rinascimento. Originale e giusta è la loro attitudine verso l'Urbinate. Per essi egli era un ideale da raggiungere, non già un modello da copiare. Molto più che la sua pittura, essi cercavano di imitarne l'anima; cioè quel modo divino onde erano fusi nel suo genio, natura ed arte, pensiero e fantasia, armoniosamente. Raffaello, dicevano essi, è una perfezione; copiarlo è dunque vano, sorpassarlo impossibile; la vera via è di partire da dove egli stesso partì per realizzare, a traverso la nostra personalità, quello che egli attuò a traverso la sua. Ammirare, sì, il Discepolo del Perugino, ma imparare dal suo maestro. Ed anche qui, imparare non già la sua tecnica, ma il modo suo di guardare le cose ingenuamente, con occhio vergine, comprendendo e completando la realtà colla poesia. Quel modo stesso che. fece fiorire Raffaello, doveva anche rivelare tutte le possibilità originali dei loro diversi talenti. Che, riprendendo l'atteggiamento di quei grandi, si giungesse spontaneamente ad una certa ripetizione delle forme, ancor’oggi vive, nelle quali essi trovarono la loro migliore espressione, è ovvio; e che, in talune opere dei Nazzareni, quest'imitazione non sia sempre riuscita a penetrare oltre la superficie formale, è umano. Ma la teoria in sé è bella, ardita e nuova, e più tardi vedremo monito salutare per l'arte d'oggigiorno - come essa permise ad un Overbeck di mostrarsi, nelle sue opere migliori, inconfondibilmente originale, pur senza staccarsi dalla grande tradizione che egli riprendeva così a distanza di secoli.

Con tutto ciò, ed era naturale la Direzione dell'Accademia non aspettava che la prima occasione per disfarsi di loro. Dovendo ridurre il numero degli allievi per la difficoltà dei tempi bellicosi, Overbeck, Pforr e Vogel non furono compresi nella lista dei riammessi. Gli altri due, allora, si dimisero e così tutta la Confraternita si trovò staccata dall’Istituto viennese.

Pochi mesi dopo, il 15maggio 1810, gli amici meno Sutter, partirono alla volta di Roma. Dopo aver venerato ad Urbino la casa di Raffaello, essi vi giunsero il 20 giugno, entrando da Porta del Popolo, e presero alloggio a Villa Malta. È impossibile descrivere l’entusiasmo dei giovani pittori; essi stentavano a credere alla loro fortuna. «Tutto va secondo i nostri desideri, - scrive Overbeck, - e sembra che il destino ci abbia assegnato qui un paio di anni veramente felici. Io non voglio dunque pensare quanto tempo ha da durare, voglio lavorare assiduamente come se già dovessi ripartire tra un anno, ma godere di tutto con serenità, come se ne avessi dieci da vivere qui» (da una lettera alla Signora Schwab, del 3 luglio 1810). Il grande lavoro suo era, allora, una composizione portata da Vienna già iniziata e rappresentante l'«Ingresso di Cristo a Gerusalemme». La costanza rara della sua evoluzione gli permetterà di terminarlo dopo quindici anni di lavoro, senza che l'insieme manchi di unità! La storia della sua vita a Roma, sarà quella di una lenta e feconda attuazione dei suoi principii di gioventù ai quali egli, più dei compagni, rimase fedele come ad un indirizzo perfettamente corrispondente alla sua natura. Sarà una vita tanto povera di fuori, quanto ricca internamente, quella di cui seguiremo ora le grandi linee.

Il 28 settembre 1810 i confratelli si trasferirono da Villa Malta al convento abbandonato di S. Isidoro. Qui essi vivevano una vita veramente idilliaca in un ambiente che si addiceva come nessun altro al carattere e dalle finalità della loro associazione. Ognuno aveva due cellette: una per dormire, l'altra per lavorare. I pasti frugali erano preparati da loro stessi, e l'antico refettorio serviva da sala da disegno per lo studio dal vero, dove ognuno posava a turno. Settimanalmente v'era pure una «lectura Dantis», fatta da Schlosser. Discussioni al «Café Greco», pellegrinaggi ai Santuari dell'arte, passeggiate in città e fuori porta, completavano la loro vita felice. A S. Isidoro si aggiunse un altro membro alla Confraternita; Giovanni Colombo, da Brescia. Una lettera di Overbeck a Sutter descrive in modo suggestivo l'affettuosa iniziazione del nuovo confratello:

«Ancora una volta ci recammo tutti da lui e considerammo coscienziosamente i suoi lavori; e siccome questo ci confortò nella nostra opinione, si decise di fargli la nostra proposta l'indomani. Gli concedemmo ancora una settimana di riflessione e sabbato ci portò la sua adesione. Il giorno dopo si fece una piccola cena... ed egli fu iniziato ai segreti del nostro ordine. In una celletta speciale... era posto un desco con frutta, vino e pane; due posti erano lasciati vuoti per voi, cari amici, ed i vostri ritratti erano appesi nella cella ».

A compensare la perdita di Hottinger, il quale partì da Roma e lasciò la Confraternita, vennero da Vienna Wintergerst e Giovanni Veit, seguiti da Pietro Cornelius, il grande pittore di affreschi ricevuto nell'Ordine.

La morte del giovanissimo Pforr, avvenuta ad Albano, per tubercolosi il 16 giugno 1812, contribuì certo non poco ad affrettare in lui il fatto determinante della sua vita: la sua conversione. Tornando dall'Ariccia, dov'era andato a passare la fine di quella funesta estate, Overbeck andò a stare a Palazzo Guarnieri in Via Sistina con Wintergerst e Veit. Questi, assieme ad alcuni altri artisti, si riunivano ogni settimana in casa dell'Abbate, poi Cardinale, Pietro Ostini, uomo erudito e di grande carità, che operò numerose conversioni, specialmente tra i tedeschi di Roma. Overbeck, un po' per compiacere ai compagni, un po' per curiosità e molto per quel suo oscuro bisogno spirituale che lo sospingeva verso il Cattolicismo, accompagnò gli amici. «Fino allora, scrive a Sutter, pochissimo conoscevo della dottrina cattolica, e questo poco molto superficialmente, perciò volevo istruirmi un poco... ma non immaginavo davvero quello che sarebbe seguito. In poche sere egli mi dimostrò la necessità di una Chiesa visibile con tanta chiarezza e persuasione, che mi cadde come-un velo dagli occhi ed io non potevo capire come ognuno non dovesse riconoscere questo» (lettera del 21 maggio 1813). Dopo mesi e mesi di tormentose lotte e ricerche, ecco la pace. « La Domenica delle Palme, (13 aprile 1813) fu il giorno indimenticabile per me nel quale io entrai nel Santuario del Signore, ed Egli, il Santo, si degnò di venire nella mia indegna capanna. Tutto fu fatto senza rumore..., ma nel mio cuore era una gran festa». L'abiura ebbe luogo nella chiesa di S. Ignazio.

Fino allora i confratelli non avevano ancora avuto l'occasione di sostenere l'arte loro con un'opera importante e dinnanzi al grande pubblico. Questa si presentò quando il Console Generale di Prussia a Roma, Barholdy, li incaricò generosamente di decorare una sala nel suo appartamento del Palazzo Zuccari, a Trinità de' Monti. Il tema prescelto era la storia di Giuseppe Ebreo. Cornelius, Schadow, Filippo Veit ed Overbeck vi lavorarono; quest'ultimo dal luglio 1816 al luglio 1817. La parte sua fu una lunetta con l'allegoria dei sette anni magri simbolizzati da una famiglia di contadini agonizzanti di fame - quadro drammatico come pochi di questo sereno pittore - e « Giuseppe venduto», affresco grande, già tipicamente overbeckiano pel modo personale di riprendere motivi ed attitudini dell'incipiente Rinascimento.

Prima ancora che gli affreschi fossero del tutto terminati, se ne sparse la fama per tutta Roma ed in Germania, dove si diede un'importanza nazionale al successo dei giovani pittori tedeschi. Durante il lavoro i curiosi affluivano e la maniera nuova, nella sua ingenuità, agiva primitivamente su chi veniva senza preconcetti, cioè come la natura stessa, ma una natura trasfigurata dall'arte e rivestita d'un corpo glorioso. In un primo impulso - e ciò prova la bontà dell'opera - anche coloro che avrebbero dovuto esserle avversi, come Canova o Camuccini, furono soggiogati da quella poesia nuova. Con la fama, però, vennero anche i suoi inconvenienti. Goethe, per esempio, che da principio aveva ammirata spontaneamente l'arte nazzarena, s'accorse, quando la gloria spargeva ovunque la nuova dottrina, che essa non era conforme alle sue teorie, e, rinnegando il suo primo sentimento, passò all'opposizione senza alcun ritegno. Nel 1887 i tedeschi, considerando quelle pitture come la culla dell'arte moderna germanica, le fecero staccare e le collocarono nella Galleria Nazionale di Berlino. Conseguenza diretta di questo loro primo successo fu l'incarico dato dal Marchese Don Camillo Massimo a Cornelius e ad Overbeck di decorare alcune sale della sua villa al Laterano con scene tratte da Dante, Ariosto, Petrarca e Tasso. Non ci soffermeremo oltre su questo lavoro perché la stanza dipinta dall’Overbeck è appunto uno dei suoi capolavori inediti che formeranno l’oggetto di un articolo speciale.

In questo periodo cade il matrimonio di Overbeck con la signorina Anna Schiffenhuber-Hartl, di Vienna, celebrato a Sant'Andrea delle Fratte il giorno di S. Luca del 1818. Per quella chiesa, loro parrocchia, i confratelli avevano dipinto i quadretti della «Via Crucis» quell’anno stesso.

Altri avvenimenti tristi e lieti marcano il corso della sua vita durante questo spazio di tempo. Nel 1819, l'esposizione, rimasta famosa, degli artisti tedeschi a palazzo Caffarelli, e la nascita di suo figlio Alfonso. Nel 1820 il suo primo viaggio a Firenze, funestato dalla notizia della morte di sua madre, cui seguì quella del padre l'anno appresso. Troppo lungo sarebbe dare l'elenco delle sue opere durante quel periodo, ma non si può non ricordare il meraviglioso e scultoreo ritratto di Vittoria Caldoni (1820). Secondo Kestner esso è il migliore dei 44 in cui pittori e scultori di grido tentarono invano di fermare la bellezza di questa quattordicenne contadina d'Albano. Né si può dimenticare la graziosa composizione chiamata da lui: « Maria e Sulamita», oppure:«Amicizia», e detta poi: «Italia e Germania», dove due figure muliebri - una dall'aspetto meridionale e l'altra di tipo nordico - simboleggiano rispettivamente le aspirazioni e le tendenze dell'arte sua e di quella dell'amico Pforr. Un'altra occasione di cimentarsi in un lavoro d'importanza monumentale si presentò a lui nel 1829, o meglio, egli la fece nascere, rinnovando, all'occasione di una grave malattia di Colombo, un suo antico voto, di offrire, cioè, al Signore la sua opera migliore quale dono per una chiesa. Il santuario prescelto fu Santa Maria degli Angeli, presso Assisi, dov'egli eseguì sul frontone della Porziuncola, la composizione raffigurante il «Miracolo delle rose» (maggio-dicembre 1829); fra le poche opere sue esistenti in Italia la sola universalmente conosciuta. Si è detto che lo stile di lui stona con quello della Basilica; ma, veramente, quell'architettura barocca non va nemmeno tanto d'accordo con la cappelletta dugentesca di S. Francesco! Il tempo farà da paciere. Ormai la sua fama era all'apogeo. Egli se n'accorse durante un viaggio in Germania - il primo dopo la sua venuta in Italia - fatto in compagnia di Cornelius, da luglio a novembre 1831, e che fu, per i due artisti, un vero giro trionfale.

Tornato a Roma egli prende alloggio nel palazzo Cenci, vicino al Ghetto, una dimora dal nome e dall'aspetto egualmente tristi, ma che vedrà maturare e fiorire la creazione delle sue opere maggiori. Tutte le domeniche, da mezzogiorno alle due, egli vi riceveva la folla degli ammiratori d'ogni paese e d'ogni religione, a cui la sua venerabile figura lasciava sempre un ricordo indimenticabile. Il pittore amburghese E.Speckter così lo descrive: «la personalità di Overbeck ha fatto su di me un'impressione triste e commovente: un uomo alto e magro, con pochi capelli biondi divisi in mezzo, i cui occhi cerchiati profondamente di nero, hanno uno sguardo turbato d'infinito dolore. Le sue labbra, ad ogni parola, si sforzano per sorridere con dolcezza. In fondo egli ha l'aspetto di un prigioniero che tema una spia in ogni angolo. Con tutto ciò, si manifesta nelle sue parole e nel suo aspetto un'immensa umiltà e modestia e un'amicizia devota, la quale, però, non vi fa star bene neppur essa, ma tiene a distanza stranamente». («Briefe eines deutschen Künstlers aus Italien»). Nello studio di palazzo Cenci fu eseguita - dal 1832 la grandissima composizione allegorica detta il « Magnificat», o il «Trionfo della Religione nelle Arti Belle»; con non meno di 140 figure! Intorno alla Madonna che intona il «Magnificat» - primo esempio di poesia cristiana - sono raggruppati tutti gli artisti, di cui la religione è stata; direttamente o no, la principale sorgente d'ispirazione. Tale concetto è spiegato in un opuscolo dove si trova questa importante affermazione: «L'arte cristiana non esclude nessun aspetto dell'arte, nessuna evoluzione di essa; anzi, li comprende tutti, ma per nobilitarli e santificarli, e per offrirli in olocausto a Colui che ha posto nell'uomo tutte quelle varie facoltà». La disposizione delle figure in questo quadro ricorda fortemente Raffaello, per il quale la venerazione di Overbeck cresceva ogni giorno. Prova ne sia questa lettera mandata all'amico F. Veit, dopo aver assistito, come Accademico di S. Luca, all'apertura del sepolcro dell'Urbinate nel Pantheon, il 14 settembre 1833: «... Sappi dunque, carissimo, che io ho guardato nella tomba aperta di Raffaello, ed ho visto lui stesso, il prezioso, incomparabile Maestro, onde l'anima mia è tanto piena che m'è bisogno alleggerirla col farti questa comunicazione... Che brivido ci percorse quando i resti del caro Maestro giacquero lì scoperti, questo lo capirai, meglio ch'io non sappia dirlo, da ciò infallibilmente avviene in te stesso, nel leggerlo!... Voglia il Cielo che nel ricordo di questo Veneratissimo, molti possano essere degni di diventare eredi del suo spirito, il quale, purtroppo, sta sepolto ben più profondamente delle sue ossa!».

In quegli anni la gloria di Overbeck, passò le frontiere di Germania e dell'Italia, e diventò europea. I discepoli affluivano da ogni nazione e spargevano poi in quelle il seme dell'arte sua. La vecchia Confraternita di San Luca era imitata in Francia, dove Lacordaire costituisce la « Société de Saint Jean», e lo sarà in Inghilterra dai Preraffaeliti di G. Rossetti.La sua attività è, come sempre, grandissima; le opere principali di quegli anni sono: un « Cristo morto compianto dai suoi, i disegni per gli Apostoli- eseguiti poi da M. Seitz — nella cappella Torlonia a Castelgandolfo, «Quaranta disegni per il Vangelo», una serie ammirevole, fortunatamente bene incisa sotto la sua direzione prima che un incendio la distruggesse tutta, e la tempera «Cristo perseguitato dai giudei», uno degli inediti di cui parleremo separatamente.

Mortagli la moglie nel 1853, il vecchio artista, rimasto solo poiché aveva, tredici anni prima, perduto anche il figlio, è assistito dallo scultore Hoffmann e dalla moglie- più tardi sua figlia adottiva - con i quali va ad abitare. Grazie alle carte di Overbeck ed ai ricordi della Signora Hoffmann, è stata compilata la biografia di Howitt, da cui abbiamo tolto gran parte delle notizie di questo articolo concernenti il suo «curriculum vitae».

Tornando da un altro viaggio in Germania (giugno-ottobre 1855) egli si accinge a quello che, secondo noi è il suo capolavoro: i quattordici acquarelli della « Via Crucis » (1850-1857), il terzo dei nostri inediti; un'opera di cui è difficile esprimere la commovente grandezza.

Da quest'epoca in poi la sua vita scorre tranquillamente verso la fine e, salvo un ultimo viaggio in Germania nel 1865, non è più segnata da nessuno considerevole avvenimento esteriore. La sue ultime forze sono soprattutto assorbite da due grandi imprese: i cartoni detti dei « Sacramenti» (1847-1859), ed i progetti di decorazione a fresco per il Duomo di Diakovar, commessigli da Mons. Strossmayer nel 1866. Il primo di questi lavori, benché celebratissimo, è tutt'ora inedito e pubblicato ed illustrato prossimamente, quanto al secondo, esso fu intralciato dalla vecchiaia e poi troncato dalla fine del grande artista cristiano.

La sua morte fu come la sua vita e la sua arte: cristiana, serena, nobilissima. «Anche quando, negli ultimi giorni, la sua mente si turbava», scrive l'infermiera, «e che egli cominciava a farneticare, sempre lo occupava l'idea che egli stesse ritrattando la Madonna in tutta la sua bellezza o l'Evangelista Giovanni. Era il Discepolo Prediletto che la sua fantasia vedeva costantemente al suo lato, e, se ben ricordo, fu una o due ore prima della sua morte che egli credette di vederlo a pie’ del letto, e mi pregò gli dessi l'occorrente per dipingere quel bel S. Giovanni che era venuto a trovarlo».

Egli si spense nel rispondere «Amen» alle preghiere dei presenti, la sera del venerdì 12 novembre 1869, e fu sepolto nella chiesa di S. Bernardo alle Terme, sua ultima parrocchia, dove una lapide di marmo adorna del suo solo nome, segnò il luogo del suo riposo.

Deoclecio Redig de Campos (1932 - Deoclecio Redig de Campos, Opere inedite di G. F. Pverbeck in Roma. La vita, le opere ed il pensiero dell'artista, L'Illustrazione Vaticana, anno III, n. 20 del 15 ottobre, pp. 1011/1015 ill. )..


Bibliografia:

1932 - Deoclecio Redig de Campos, Opere inedite di G. F. Pverbeck in Roma. La vita, le opere ed il pensiero dell'artista, L'Illustrazione Vaticana, anno III, n. 20 del 15 ottobre, pp. 1011/1015 ill.

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