Oprandi Giorgio

pittore
Lovere (BG), 1º luglio 1883 - Lovere (BG), 10 gennaio 1962

Il pittore delle Colonie Italiane: Giorgio Oprandi.

Le tendenze peripatetiche non sono rare tra gli artisti nostri: il Pasini ha visitato ogni angolo d’Oriente, il Ferraguti-Visconti ha scritto le più nobili pagine della sua milizia pittorica nella lontana e selvaggia Terra del Fuoco, seguendo coraggiosamente le orme di Guido Boggiani che vi aveva lasciata la vita, trucidato ferocemente da un gruppo di Indù…

Ma l’ottimo Oprandi non sembrava davvero dotato - così roseo, biondo, paffutello e pacifico! - di passioni esploratrici.… Non era uscito dalla nativa provincia di Bergamo a quarant’anni vicini, se non per salire l’Adamello, soldato alpino, per tutta la durata della guerra. Disceso a guerra finita dalle cime nevose sulle quali aveva molto sognato e meditato, rientrò nel silenzio del proprio studio - alto e dominatore anch’esso sulla città del Colleoni - a preparare quella sua mostra personale di Milano onde gli venne rapida e meritatissima fama, per ritornare poi subito alla pace sonnolenta del suo romitaggio bergamasco a riprendervi l’innamorata fatica.

Un collega e concittadino, l’ottimo Luigi Brignoli, direttore dell’Istituto Artistico di Bergamo, alla vigilia di recarsi in Algeria per dipingervi delle impressioni di paesaggio africano, propose improvvisamente un bel giorno all’Oprandi di accompagnarlo nella spedizione artistica. E l’Oprandi confessa d’essere rimasto più sconvolto che sedotto da quell’invito, pure decidendosi ad accettarlo dopo di aver opposto «quella resistenza di cui si è capaci davanti ad un’impresa che ci si presenti subito superiore a quel complesso dì comode meschinità della vita borghese che si chiama quieto vivere».

E laggiù, sul limitare del deserto, non soltanto ebbe a scoprire in se stesso le qualità di un pittore orientalista eccezionale, quale lo addimostrarono le magnifiche tele ch’egli - non appena reduce di Algeri - espose a Milano ed a Bergamo, ma si vide sbocciare prepotente anche il bernoccolo del touriste a renderlo irrequieto, a dargli irresistibile la smania di riprendere il cammino.

L’Africa l’aveva incantato colla gloria del suo sole sfolgorante, colla suggestiva potenza delle ombre azzurrastre, colla ricchezza opulenta della vegetazione, colla stranezza della sua vita sui generis.

Si trovò quasi incapace di ritornare agli antichi soggetti della sua pittura.

Il pubblico, del resto, contendendosi le sue impressioni d’Algeria, vendute sino all’ultima, pareva incoraggiarlo al tema. E constatando argutamente d’aver trovato nell’Africa la propria America d’artista, riprese il cammino verso il sud. solo e soletto questa volta, sbarcando non più in Algeria bensì nell’Egitto luminoso e silente.

Dove l’attendeva un committente insperato: il Re Fuad che - dopo avere ammirato qualche bozzetto del pittore bergamasco - l’incaricò di decorargli un salone di ricevimento della reggia con dodici grandi pannelli decorativi.

Questo lavoro importantissimo I’Oprandi poté ultimare in due mesi con piena soddisfazione del Re il quale gli commise ancora il proprio ritratto ed altri parecchi lavori obbligando l’artista a rinunziare ad una vagheggiata corsa in Palestina dove, col paesaggio della leggenda cristiana, l’attraeva un «non insincero bisogno di mistiche commozioni» come ebbe a scrivere l’Oprandi dimostrando d’essere figlio genuino della buona e devota terra bergamasca…

La Palestina fu un’altra volta sacrificata l’anno seguente al desiderio, sorto imperioso nell’animo del pittore, di conoscere e ritrarre nelle sue tele le plaghe d’Oriente sulle quali sventola la bandiera italiana. Ed eccolo in Eritrea dove il soggiorno si prolunga eccezionalmente per il fascino paesistico dell’ambiente ed anche per un curiosissimo incidente che lo stesso Oprandi ha garbatamente evocato nell’autoprefazione al catalogo d’una sua mostra nelle sale della Consulta a Roma.

«Durante i miei primi mesi di vagabondaggio eritreo - scrive il bizzarro artista - io ero equipaggiato più da cacciatore che da pittore. Mi servivo più del fucile che del pennello. Ma è che bisognava che risolvessi io stesso, col semplice aiuto d’un giovane compagno di viaggio, che mi faceva eventualmente da interprete, il problema dei pasti quotidiani. Lontano da ogni grande e piccolo centro di vita, sperduto nelle deserte immensità della steppa o dell’altipiano, se volevo mangiare bisognava che mi procurassi colazione e pranzo a colpi di fucile. Selvaggina, laggiù ce n’è più del bisogno; ma non ci sono altrettanti ristoranti a portata di mano.

«Non so, del resto, immaginare un pittore africano senz’armi. Senonchè una notte un colpo di fucile mi riuscì fatale… io sono un discreto tiratore, ma quella volta non ci si vedeva che quel tanto che illude di poter prendere la mira contro un reale o immaginario bersaglio.

Facevo allora parte, col mio giovane compagno di spedizione, d’una carovana guidata da due cacciatori italiani, nei quali ci eravamo imbattuti alla nostra discesa dall’altipiano dell’Asmara. Due arditi catturatori di bestie, i quali avevano, col migliore dei garbi, catturato anche noi due, sebbene non fossimo poi bestie a segno da non potere, se mai, continuare il nostro vagabondaggio eritreo per conto nostro. Ci avevano sedotti col fantastico quadro del basso piano del Setit, che intendevano esplorare, per vie poco praticabili, alla caccia di belve da portar in Italia vive, e noi due, dopo un po’ di naturale incertezza, li avevamo seguiti, dall’alto dei nostri cammelli, con entusiastico slancio.

Quella notte, la carovana era già sprofondata nel sonno. Un sonno più duro della pietra, perché i nostri indigeni di scorta, prima di coricarsi, si eran dati ad abbondanti libazioni. Quand’eccomi svegliato dal caratteristico scalpiccio dei muletti messi in allarme dalla vicinanza d’una belva.

Balzo in piedi col mio inseparabile fucile e scorgo l’ombra d’una iena. Le tiro una doppia fucilata… e mi risponde il grido d’un uomo. Cielo! M’accendo un lume a petrolio e mi precipito verso il gruppo indigeno, da cui è uscito qell’unico grido d’allarme. Dormono ancora tutti.

Ma uno perde sangue da una natica. L’ho preso proprio in una natica. Dio mio! Lo strano poi è che dorme anche lui, come se quel complimento non lo riguardasse già più. Gettato quell’unico grido, s’è immediatamente riaddormentato sotto l’azione dell’alcool bevuto un paio d’ore prima.

Sveglio uno dei due capi della carovana e lo metto al corrente della cosa. Ha però un gran sonno anche lui e si limita a indicarmi un boccetta di tintura di jodio, affinché possa procedere senz’altro, da solo, alla medicazione del ferito. E pazienza. M’improvviso infermiere e, per la prima volta da che dipingo, adopero il pennello per pitturare di tintura di jodio una natica.

Due giorni dopo leviamo le tende e riprendiamo la marcia.»

Ma c’è una giustizia anche in Eritrea e l’Oprandi non poteva sperare di farla franca! Mentre egli si avvia a Kassala per ritornare in Egitto, dimentico ormai dell’episodio comicamente cruento, interviene il commissario di P. S. di Agordat a chiedergli conto della poco micidiale fucilata, aprendo un’inchiesta severa sul fatto ed impedendo al pittore di proseguire la sua strada.

Ma quel commissario era un italiano anche lui… Non appena ebbe l’occasione di vedere qualche garbata e armoniosa tavoletta dipinta nel bagaglio dell’imputato, sentì sbollire la eccessiva severità e commutò la pena… nell’obbligo di presentarsi al Governatore Gasperini. Il quale, severamente a sua volta, decreta per l’Oprandi la condanna a rimanere in colonia per un anno intero a prepararvi un materiale d’illustrazione pittorica dell’Eritrea per ordinare poi una Mostra a Roma.

Questa imposizione del governatore incontra il segreto desiderio dell’artista ben lieto di rinunziare alle nuove ordinazioni di Re Fuad per restare in Eritrea. La sua raccolta di quadri e di impressioni si arricchisce rapidamente benché il pittore divida il proprio tempo fra il cavalletto e il fucile, costretto, nelle scorribande attraverso l’interessante paese, a procurarsi il companatico colla caccia. E s’improvvisa cacciatore di belve, cammelliere, cuoco e chauffeur per poter compiere dei rapidi dislocamenti automobilistici e vedere il maggior numero di bellezze eritree.

«Coglievo le impressioni sulla tela - confessa l’Oprandi nella già citata prefazione - con lo stesso metodo con cui m’ero abituato a cogliere a volo la selvaggina per la cena.»

Il pittore che ignora la gioia del dipingere all’aperto in piena steppa africana, fra una grossia bistecca di cinghiale appena divorata e la paurosa scoperta di fresche orme d’elefante, ignora una commozione artistica ben, più fertile d’ispirazioni di quella chi' possa provare nell’ abituale ritmo della vita cittadina. L’artista che ignora le bellezza d’una sconfinata selvaggia solitudine immersa nel silenzio, non potrà forse mai scoprire nel proprio spirito quegli inaspettati sentimenti che non s’avvertono in se medesimi se non quando si è vaganti nella misteriosità d’una radura africana. D’una radura, come quella Eritrea che obbliga alle più dure fatiche di vagabondaggio ma concede, in compenso, le più dolci estasi di contemplazione, che costringe a dormire per terra ma non lascia mai mancare la selvaggina per i tanti banchetti né le sorprese pittoriche per la gioia degli occhi».

Quella gioia degli occhi l’Oprandi tradusse in un ciclo di opere ch’ebbero la ventura di essere ammirate sul posto da Elena di Francia Duchessa d’Aosta, la quale diventò anch’essa entusiastica promotrice di quella Mostra personale del- l’Oprandi nel Museo delle Colonie di Roma ch’ebbe così clamoroso e completo successo di pubblico, di critica ed anche di vendite, poiché molte delle opere esposte uscendo della Consulta entrarono nei maggiori musei della capitale, nelle raccolte regali e principesche e in quelle dei più appassionati e intelligenti collezionisti.

Ma questa memorabile mostra dell’Oprandi alla «Consulta» ebbe un altro felicissimo effetto: quello idi persuadere le alte sfere diplomatiche intorno ai reali ed incalcolabili benefici che l’arte può recare alla buona politica, specialmente a quella che si svolge all’estero. Infatti il pittore bergamasco ricevette l’incarico ufficioso se non ufficiale, di preparare un’altra raccolta d’impressioni non soltanto delle nostre Colonie, ma dei luoghi più ameni e delle maggiori bellezze monumentali delle varie città d’Italia. Sotto gli auspici del Ministero degli Esteri e di quello delle Colonie, questa nuova fioritura geniale del pennello di Giorgio Oprandi verrà esposta in una serie di mostre nei grandi centri delle due Americhe.

L’artista, lusingato legittimamente di questo incarico che assurge la sua arte ad un compito cosi importante di fronte agli interessi nazionali ed allo sviluppo dei nostri rapporti col mondo americano, non ha perduto tempo.

Con le poche opere rimaste nel suo studio dopo la «Mostra Eritrea» riuscì ad ordinare una piccola esposizione nella città natale. Così anche i suoi concittadini poterono costatare come il sole africano non abbia più segreti per le piccole tavolette dell’Oprandi tutte fervide di chiarità luminose e trasparenti e come il giovane allievo di Tallone e di Lovarini sia ormai a sua volta un maestro nell’armonizzare con finezza aristocratica, in composizioni perfette d’equilibrio e di linee, le più sottili e nervose sensibilità del proprio pennello mediante una squisita sapienza del tono e del tocco, unita al più signorile gusto dell’«insieme».

Ed ora, chiusa anche la piccola e trionfale esposizione bergamasca, Giorgio Oprandi si è avviato al suo giro di scoperta e di conquista della bellezza italiana e coloniale. Ma il viaggiatore provato da tutte le insidie del deserto non si è voluto rassegnare alla costrizione del «compartimento» ferroviario, alla tirannia degli orari, alla stereotipia melensa e monotona dei «menù» d’albergo. E all’uopo ha ideato una curiosa casa ambulante con tutto l’occorrente per vivere a proprio comodo ed agio e lavorare con tranquillità senza doversi allontanare per qualsiasi ragione dal paesaggio scelto a soggetto del proprio quadro.

Questa specie di «Carro di Tespi» pittorico è costruito sullo chassis poderoso di un camion ed è trasformabile mediante alcune ingegnose tende, in un intero appartamento composto di cucina, stanza da letto in stile moderno sufficiente per alcune persone, altre due camere da letto al secondo piano per gli ospiti eventuali e per lo chauffeur, con relative finestre e terrazza. Il soffitto del secondo piano si trasforma poi in una capace imbarcazione munita di motore fuori bordo.

E nell’interno dell’arca velocissima, tutte le comodità moderne per ingannare le ore d’ozio e di cattivo tempo: radio, grammofono, giuochi di società, gabinetto da bagno e piccola biblioteca ben fornita di volumi.

Anche in questo strano, geniale e nuovissimo

mezzo di trasporto c’è tutta la semplice, sdegnosa e arguta personalità dell’artista modesto e valoroso. Egli tornerà un’altra volta carico di gloria e di tele ed il pubblico americano gli decreterà il crisma dell’affermazione definitiva che la patria gli ha già anticipato.

Guido Marangoni.


Bibliografia:

1929 - Guido Marangoni, Il pittore delle Colonie Italiane, La Cultura Moderna - Natura ed Arte, Milano, Vallardi, n. 1 gennaio, pp. 1/9.

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