Minozzi Filiberto

pittore
Verona, 9 luglio 1877 - Milano, 5 febbraio 1936

FILIBERTO MINOZZI - UN PITTORE ITALIANO PER LE VIE DEL MONDO

Bambino, a chi gli chiedeva cosa avrebbe fatto da grande, Filiberto Minozzi rispondeva con convinzione: «farò lo zingaro». Quando poi vicino al focolare la nonna gli raccontava non so quali fiabe e narrava di qualcuno che «camminava, camminava, e andava, andava…» quell’ignoto viandante era il suo eroe prediletto; egli lo seguiva con ansia nelle fantastiche peregrinazioni e non si dava pace quando esso si dileguava con la memoria labile della vecchina. «E dopo? Racconta nonna: e dopo, dove è andato, e cosa ha veduto? Racconta nonna!».

Così, a poco a poco, questo desiderio di sapere e soprattutto di vedere diventò il programma della sua vita, non appena egli uscì dall’Accademia di Brera. Fu allora che, giovanissimo, sulla riviera ligure tentò di penetrare il mistero del mare e scrutarne le insidie: quell’elemento così irrequieto e così possente aveva per lui un fascino indescrivibile. Forse le creste spumose dei marosi che s’impennano e subito si dileguano erano un po’ il simbolo del carattere impetuoso e giovanile di Filiberto Minozzi. In quegli anni - e i pescatori di Bordighera lo ricordano bene - con qualunque tempo egli si spingeva al largo per disegnare scogli ed onde, tempeste e bonacce. Alla notte invece la grande lampada del suo studio vegliava come un faro dall’alto della torre saracena di Santo Stefano: l’artista rivedeva il lavoro della giornata, studiava ancora indugiando fino all’alba. E in quelle ore di vigilia la sua Adelina gli leggeva libri d’ogni argomento, ad alta voce. Non bisognava perdere tempo: spesso da quelle letture egli traeva nuove cognizioni e notizie scientifiche sui fenomeni di luminosità subacquea, sulle correnti e i riflessi dei fondi marini, sull’arte nautica in particolare.

Aveva anzi pensato di dedicarsi a questa ultima per poter effettuare con la sua famigliola un lungo viaggio sopra una piccola nave: ma il progetto fallì… ed egli cambiò rotta. Andò a Parigi. Nella grande città si ritrovò con parecchi amici italiani: rivide Boldini, Libero Andreotti ed altri, ma sentì tutta la forza di nuove amicizie come quelle di Rodin, Harpignies e di molti musicisti.

In Francia e in Germania

La vita delle metropoli non era per lui, «pittore vagabondo». Perciò si raccolse qualche tempo fra i pastori dell’Oise, e a contatto di una natura georgica creò delle opere: là sembra che tutte le risorse coloristiche della musica di Debussy siano state da lui tradotte in pittura con delicate gradazioni di toni, ad esprimere il senso dell’indefinito tra pianure sconfinate e cielo.

Più oltre visitò la Germania, dove trovò un’atmosfera spirituale del tutto consona al suo temperamento. L’ammirazione per Segantini, suo maestro, già vi era giunta e Max Liebermann segnalava l’arrivo di Minozzi come di un innovatore della tecnica divisionista. Ma il «pittore girovago» passò in Boemia e poi ritornò al mare di Liguria. Eccolo allora assillato dalle continue lettere di Grubicy: quel negoziante d’arte che aveva «lanciato» Segantini era impaziente di poter annoverare lo strano artista fra i suoi più quotati. Ma bisognava anche preparare quadri per le esposizioni internazionali; e Filiberto Minozzi partecipò a cinquantasette mostre europee ed extra-europee, tra il consenso universale della critica.

La fama crebbe. Una cugina dello Zar Nicola fu sua allieva: egli fu ufficialmente invitato alla Corte di Russia e poi alle cacce reali in Inghilterra, presso i Duchi di Leeds. Ma non poté accettare: non volle; il suo spirito doveva essere libero da ogni vincolo e da ogni convenzione. Già a Berlino, precedentemente aveva ricusato di andare a Corte, sebbene invitato da Guglielmo II, pur di non rinunciare ad essere pellegrino.

Poi scoppiò la guerra: dalla Francia ritornò in Italia e a Milano, presso il Liceum, organizzò una mostra personale a beneficio della Croce Rossa, dove figuravano le sue migliori opere. Contemporaneamente fu incaricato di reggere la segreteria della «Famiglia Artistica» e la presidenza della «Lega franco-italiana»: tenne interessanti lezioni e conferenze presso l’Università Popolare promuovendo ogni iniziativa culturale.

Dal Capo Nord al Tropico

Solo verso il 1920 riprese i suoi viaggi, per un lungo periodo, in montagna: la catena delle Alpi costituì l’oggetto delle sue ricerche perché già altra volta aveva dimorato nelle baite del Cadore e sulle Alpi Marittime. Questo abituarsi a fatiche non indifferenti, questo affrontare clima rigido e ghiaccio, doveva essere un allenamento per la realizzazione di una grande idea. Fu infatti nel 1927 che intraprese il primo viaggio in Norvegia e a Capo Nord: in mezzo alle perenni distese bianche, provò l’incubo della solitudine. Gravava su di lui una fissità continua e paurosa. Non lo nascose in alcuni suoi appunti di viaggio: «Solo nelle immense distese dei ghiacci di Norvegia solo a Capo Nord regna per me il silenzio misterioso, e il battito del nostro cuore sembra che turbi la pace; lo scricchiolio della neve gelata sotto le scarpe ferrate, lo slittare degli sci sono piccoli rumori ingigantiti poderosamente nelle luci abbaglianti quasi rossastre e a volte nelle ombre violacee. Là il freddo intenso fa bramare il sonno, e l’accovacciarsi in quel torpore voluttuoso altro non è che la morte bianca».

In un secondo viaggio nel 1929 le sue sensazioni vennero affinandosi, e poté meglio esprimere nei suoi lavori il carattere del Nord: tornato nelle città, vivendo nell’ambiente dei pescatori e dei pratici navigatori di Bergen, insieme ai solerti lavoratori di Hammerfest e di altri centri, non gli fu difficile comprendere la mentalità del popolo norvegese. A Oslo trascorse lunghi mesi, e invitato dal Governo Italiano partecipò con Adolfo Wildt alla prima Mostra d’arte Italiana, presentando centoventisei opere importanti. L’esposizione riuscì interessantissima perché accanto alle visioni di Norvegia vibravano sotto la luce calda del nostro cielo, bozzetti dei nostri ghiacciai: i nostri boschi, le nostre campagne, i poggi del Senese, ricchi di vigneti, dove nell’ora della siesta i contadini stornellano lieti, affilando la falce sulla cote.

Lassù vi era il mistero della luce uniformemente diffusa e della penombra. Altre terre avrebbero rivelato il mistero della luminosità vibrante e dei contrasti fra luce e ombra. Allora, dopo una breve sosta in Patria, nel 1930 Filiberto Minozzi cercò nuove regioni dove l’occhio potesse bearsi e la mente riposare, lontano dalla vita febbrile dell’Europa. Non rimaneva, dunque, che l’Oriente: perciò risolse di intraprendere un lunghissimo viaggio. Dall’Egitto passò in Eritrea: qui conobbe una nuova creatura: il deserto. «Il deserto - scrisse egli - è incantevole: un chiaro di luna sulle dune d’Eritrea non potrò mai dimenticarlo; la sabbia sembra un mare in cui i cavalloni per incanto si siano immobilizzati: le luci argentee, le ombre calde. Dal cielo immenso color pervinca le stelle a miriadi sembrano piovere quasi sul nostro capo, e in una pozza d’acqua bruna vidi un astro riflettersi con bagliori d’oro e di smeraldo. Non incombe il silenzio, ma si direbbe che il deserto ansima, respira come un vivente: ha un tepore e una fragranza umana, nella notte». Oltre questa creatura palpitante viene la luce. E per un pittore la luce è il tormento forse maggiore: la luce accecante, continua, nella quale ogni cosa assume una fisionomia strana, alterata. La nitidezza dei contorni va perduta, ogni corpo che cammina lascia dietro a sé come una scia. E allora, nuovo campo d’indagine.

Molte difficoltà derivavano anche dal clima: al Nord i tubi di colore si congelavano e s’era dovuto ricorrere a miscele speciali con glicerina per elevare il punto di congelamento; nella piana dancala i colori si essiccavano per trasudamento dell’olio o si alteravano per il caldo, come spesso avveniva che le lastre fotografiche colassero la gelatina.

Ma nulla poteva opporsi ad una ferrea volontà: bisognava provare anche questo; bisognava quasi formarsi la mentalità di un paziente cammelliere per capire l’anima di quel paesaggio. Un paesaggio invero brullo, spesso squallido, con colline arse e rosse di fuoco, mentre sopra incombe un cielo cupo di cobalto intenso. Ma non si poteva non proseguire, e il «pittore vagabondo» riprese la via, scese ad Aden e si internò fra quelle montagne rocciose e brune, che potrebbero servire da scenario in un dramma wagneriano.

Al tramonto, una volta, si trovò fra dirupi; e mentre il rosso sanguigno del cielo, striato di giallo, dava un aspetto tragico al panorama, vide due pellegrini che presso un pozzo si cuocevano la cena dopo aver liberato il cammello dalla «ghirba». E non poté dimenticare quel tramonto.

Dall'India al Giappone

Ecco poi la Birmania: ecco Rangoon con la pagoda dalla cupola tutta sfavillante di oro. Ecco l’India, il regno di chi ama il colore. La giungla se l’immaginava diversa, più selvaggia, più terribile, non cosi: confessò poi che gli sembrò un giardino trascurato, anche quando volle addentrarsi tra i meandri dei fiumi limacciosi e torbidi. A Karachi vele e barche numerose: le prime giunche con la velatura di stuoia, e per contrasto transatlantici colossali. Un mondo sconosciuto, turbato dal traffico degli Europei. I rimorchiatori lanciavano neri pennacchi di fumo all’orizzonte. Più oltre la Cina, paese singolare: i suoi porti sono rigurgitanti d’ogni sorta d’imbarcazioni, i suoi uomini sempre enigmatici, ma sempre cordiali. Grandi città finalmente: Shanghai, anche nei suoi quartieri più oscuri e pericolosi durante la celebrazione del primo anno cinese, fra spari di mortaretti, confusione di popolo, profumo d’aromi e di croccanti. Quasi un regno di fiabe! Egli prendeva appunti e disegnava sul suo album: questo gli era indispensabile.

Dopo la Cina, il Giappone; ogni cosa laggiù, come l’arte, acquista un’impronta decorativa: chiunque scriva dipinge, perché la calligrafia stessa non è che un paziente disegno; chiunque vive, è come se reciti una parte tra lo sfarzo dei chimoni.

Forse a queste conclusioni arrivò il nostro pittore quando non solo visitò musei e osservò stampe antiche, ma partecipò alla vita attiva e ispezionò i quartieri più caratteristici interessandosi al paesaggio. Del resto, l’attività del popolo giapponese, la sua industriosità, il suo amore per certe fragili costruzioni rusticane o per certi ponti a dorso di mulo, travati con simmetria impeccabile, costituivano una novità: anche la vita dei campi, così diversa da quella dei nostri contadini, apriva scenari di poesia per Filiberto Minozzi.

Quante volte egli si trovò di notte assieme ai pescatori sopra una barcaccia, illuminata da grandi lanterne: guardò il serpeggiare irrequieto dei riflessi colorati nell’acqua e vide le squame argentee del pesce guizzante nelle reti: s’accorse allora che la fisionomia delle cose, sotto la luce artificiale delle tradizionali lampade che i Giapponesi usano sempre, ispirati da un profondo senso decorativo, diventa irreale.

Riprese finalmente la via del ritorno fermandosi a lungo nei luoghi non visitati: l’India gli fece risentire maggiormente la gioia del colore dopo un brumoso inverno passato in Cina: nuovi studi d’ambiente, disegni di santoni, pagode e fedeli.

Tuttavia l’architettura indiana gli piacque forse meno delle altre: e non era artista tale da entusiasmarsi per essa.

Lo disse egli stesso: «Ero nato zingaro, e se per le monumentali architetture antiche e moderne sentivo un senso di profondo rispetto, pure confesso che un cielo terso o carico di nubi mi attraeva maggiormente. Seguivo lo svolgersi, il dissolversi, l’ammassarsi di quelle ciclopiche forme con parvenze umane e di mostri; quando si accavallano, sovrappongono tinte e fondono toni in armonie e dissonanze.

«Quanto è bella l’architettura celeste!».

Ma da questo senso di dinamismo cosmico, prendendo annotazioni con tratti stenografici, quando la stanchezza gli impediva di insistere, aveva imparato ad imprimere nella mente forme e colori in modo da non dimenticarsene più: l’esercizio di questa memoria visi- va si era acuito studiando il mare e guardando il cielo.

Il camminatore si arresta

Mentre stava per attuare grandi progetti, per intraprendere nuovi viaggi, dovette fermarsi, e questo fu l’ultimo suo più grande dolore. Il lavoro di restauro, al quale si era dedicato durante la permanenza in Patria, e la fabbricazione di certe vernici gli avvelenarono il sangue: tutte le sofferenze sopportate per cinque mesi in una clinica di Milano non poterono tuttavia modificare il suo carattere.

Era uomo sensibilissimo, incline alla melanconia, sebbene in società arguto e forse ostentatamente ilare. Il suo tormento lo visse senza lasciarlo trasparire a nessuno: a volte sfiduciato, a volte audace, di tutto si entusiasmava: con uno slancio quasi infantile si meravigliava di se stesso, quando scopriva in sé nuove possibilità e nuove risorse artistiche. Aveva una vasta cultura, un poco disordinata ma profonda perché quasi sempre fatta di esperienze personali: le sue cognizioni erano le più svariate, cosicché in lui rivisse l’uomo del Rinascimento, incontentabile nella ricerca di ogni scienza e di ogni arte. Insomma si potrebbe dire che la sua cultura fu un po’ vagabonda come lui.

Ma quali i suoi intendimenti artistici? In arte assunse una personalità inconfondibile: esordì come divisionista, ma ben presto si accorse che il troppo virtuosismo tecnico rendeva meno naturali i suoi mezzi d’espressione. Elaborò quindi i principi divisionisti, semplificando il tratto o quasi cesellando, secondo i momenti, perché dimostrò in pratica che non bisogna mai essere legati ad una tecnica come ad un idolo, ma bisogna conoscere ogni tecnica e saperla sfruttare per ottenere i migliori risultati. Tuttavia ebbe sempre fissi innanzi a sé degli obbiettivi che fanno capo a due fondamentali ricerche: la ricerca della luce e quella del movimento.

Quando, or è un anno, la morte lo colpì, egli conobbe finalmente il riposo: come fanno gli albatri, quelli che egli amò e ritrasse nelle sue marine. Forse era troppo stanco e non poté più reggere.

«Camminare, camminare sempre: la tregua è segno di stanchezza, la stanchezza è avvilente: camminare e non mai rivedere le proprie orme».

Sono le parole dei suoi ultimi giorni, sono la sintesi della sua vita.

LUCIANO MINOZZI


Bibliografia:

1937 - Luciano Minozzi, Un pittore italiano per le vie del mondo: Filiberto Minozzi, Milano, Le vie del mondo - Rivista mensile del Touring Club Italiano, anno V, n. 2 febbraio, pp. 171/189..

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