Migliaro Vincenzo

pittore scultore incisore illustratore
Napoli, 8 ottobre 1858 (1859) - Napoli, 16 marzo 1938

Frequentò l'Istituto delle Belle Arti di Napoli, e fu Allievo di Stanislao Lista (plastica), Domenico Morelli (disegno e pittura), del Postiglione e del Maldarelli. A soli diciannove anni, nel 1877, vinse il concorso nazionale di pittura all'Esposizione di Napoli.

Partecipa all'Esposizione di Torino del 1880.

Nel 1907 partecipa alla VII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con i dipinti: Porta Capuana, Napoletana.

Nel 1909 partecipa alla VIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con il dipinto: Primavera.

Nel 1910 partecipa alla IX Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con tre dipinti: Da Anacapri, Concerto a luna piena, Presso il porto.

Nel maggio-ottobre 1921 partecipa alla 1^ Esposizione Biennale Nazionale d’Arte della Città di Napoli, con i dipinti: Lo scoglio delle sirene, Prima fantasia carnevalesca, Porta Capuana, Paesaggio, Mezza figura di donna, Sera di estate, Giovinetta del popolo, Seconda Fantasia carnevalesca, Dopo la pesca, Capri, Piazza del mercato.

Nel 1922 partecipa alla XIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con due pitture: Maggiolata, Davanti allo specchio.

Nel 1930 partecipa XVII Esposizione Biennale Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con due dipinti: Lucian, Civetteria.

Nel 1932 partecipa alla XVIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con due dipinti: Popolana, Sera d'inverno.

Dall’ottobre 1934 al gennaio 1935 nell’ambito della Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale, nel Castelnovo di Napoli, presenta la scultura: Tigre, e nella sezione del Bianco e nero: Cornice con tre disegni di felini, Algerina, Studio di leone, Testa di leone, Algerina.


VINCENZO MIGLIARO - Colui che si accingerà a fare, con serena fedeltà e con limpido acume critico, la storia delle arti belle in Italia da quando questa si è costituita in nazione, tenendo conto dei vani raggruppamenti regionali, i quali ancora oggidì si mantengono abbastanza tenaci, potrà scrivere un capitolo oltremodo interessante, raccontando gli splendori e le miserie della scuola napoletana di pittura della seconda metà del secolo decimonono e analizzandone e spiegandone le cause complesse.

A venti anni di successi trionfali, susseguitisi quasi ininterrottamente dall'esposizione di Firenze del 1861 all'esposizione di Torino del 1880, culminando in quella di Napoli del 1877, dovevano succedere venti anni di melanconica decadenza, posta in sempre maggiore rilievo dal crescente disdegnoso allontanamento da parte del pubblico, che pure aveva delirato di entusiasmo pei pittori maggiori e minori del Mezzogiorno d Italia, e di spietata severità da parte della critica, che ne aveva cantato le lodi su tutti i toni.

I successi, considerandoli nel loro complesso, erano stati meritati, se anche talvolta esagerati o glorificanti un artista di evidente mediocrità nella sua superficiale piacevolezza vignettistica, quale fu ad esempio Gaetano di Chirico, mentre un altro di profonda e nobile intensità drammatica, quale fu Gioacchino Toma, se non proprio trascurato non veniva di sicuro apprezzato al giusto suo valore. Infatti la scuola napoletana di pittura, sotto l'impulso prima del delicato sano ed elegante impressionismo di Giacinto Gigante e degli altri paesisti del gruppo di Posillipo, poi del verismo di Filippo Palizzi, sincero e robusto, se anche troppo oggettivo, alquanto superficiale e perfino un po’ gretto nella sua meticolosità analitica, e in ultimo del romanticismo concettoso e del virtuosismo sapiente di Domenico Morelli, aveva non soltanto saputo emanciparsi risolutamente dal greve dominio accademico, ma era riuscito, mercé una serie assai copiosa e varia di quadri a olio e a acquarello di efficace originalità di composizione e di non comune eccellenza di tecnica, a mettersi alla festa del movimento artistico, che, subito dopo la politica affermazione unitaria, erasi andato determinando nelle maggiori città del regno. E meritava così di essere a buon diritto proclamata l’iniziatrice vittoriosa di quella che veniva in seguito definita, sia anche con una certa enfasi nazionalistica, la seconda rinascenza delle arti belle in Italia.

Bisogna però riconoscere che se, dopo circa un ventennio d incontrastate vittorie, la scuola napoletana perdette a poco per volta le simpatie della critica e i favori del pubblico, la colpa non deve e non può imputarla ad altri che a sè medesima. Il dominio ammaliatore che su di essa esercitò il Morelli finché visse, se da principio ne adivo le forze d iniziativa e ne allargò l’orizzonte spirituale, finì, a lungo andare, col determinarne la decadenza, sia col reprimere ogni accentuato sviluppo d'individuale originalità, sia col costringere ogni attività giovanile, desiosa di rinnovazione, in un ristretto ambito di visioni estetiche e di ricerche tecniche e sia col non sapere ricorrere ai ripari contro la deleteria influenza dello spagnolismo alla Fortuny.

Fu così che la maggior parte della brillante pleiade dei giovani pittori, usciti a successive riprese dall’Istituto di belle arti di Napoli, dopo avere seguito i corsi di Morelli e di Palizzi, si lasciarono inebriare dagli applausi con cui furono accolte le loro prime opere e si compiacquero ad un manierismo spagnoleggiante, il quale traviava le loro native attitudini artistiche e li sospingeva ad abusare di un raro senso del colore, vivace e spontaneo in essi quasi quanto nei Veneziani, per ripetere sempre, con lievi modificazioni, il medesimo quadro, a cui aveva sorriso una prima volta il favore del pubblico, senza più affannarsi dietro la ricerca di un originalità spiccatamente individuale, senza punto curarsi se in altri paesi del mondo vi fossero pittori che tentavano curiose e importanti innovazioni di tecnica e inseguivano, non senza fortuna, nuovi ed elevati ideali d’arte.

Immobilizzati nell'idolatria della virtuosità di pennello di un Fortuny e di un Morelli e nella radicata convinzione del primato della scuola napoletana e della scuola spagnola su tutte le altre scuole di pittura dell’universo, non si lasciarono scuotere, così come avvenne per loro ventura ai Veneziani, minacciati da! pericolo del giocondo e superficiale manierismo favrettiano, neppure dalle opere magnifiche e audaci di pennelli francesi e inglesi, olandesi e scandinavi, tedeschi e ungheresi, belgi e russi, che le mostre internazionali di Firenze, di Venezia e di Roma indussero a scendere in Italia, raffinando e rendendo più eclettico ed in pari tempo più esigente il gusto dei nostri critici e dei nostri amatori d arte. Anzi eglino fecero orecchie di mercante alle parole di qualche scrittore, che, avendo molto a cuore la minacciata loro buona fama, li esortò più volte concitatamente a tentare uno sforzo coraggioso e decisivo su se stessi per discacciare la peccaminosa indolenza cerebrale in cui già da troppo tempo si assopivano e per rinnovare una buona volta l’arte propria, cercando ispirazioni più moderne e meno viete, pure non rinunciando ai caratteri essenziali del genio meridionale.

Allorquando si sentirono adatto isolati, mentre le simpatie e le ammirazioni che li avevano incoraggiati sostenuti e magnificati durante gli anni giovanili, li abbandonavano per rivolgersi ad artisti più coscienti e più ardimentosi di altre regioni d'Italia, i quali avevano saputo tener conto delle lezioni venute loro d’oltralpi e d'oltremare, compresero alfine I’errore in cui caparbiamente avevano perseverato. Alcuni allora tentarono di cambiare strada, ma dovettero quasi sempre accorgersi che era troppo tardi; altri si limitarono a lamentarsi, senz’alcun risultato pratico o morale, di essere incompresi o male giudicati ed altri si rassegnarono, sia anche a malincuore, alla loro sorte mediocre e, rinunciando a poco per volta ad ogni elevata ambizione estetica, si dettero da fare per accaparrarsi un posto d’insegnante in qualche governativa o municipale scuola d’arte, che permettesse loro di sbarcare alquanto meglio il lunario.

La reazione, a cui io ho or ora accennato, era - riconosciamolo pure ad onore del vero - da parte della critica e del pubblico non soltanto giustificata, ma utile necessaria e quasi doverosa, perché lo spagnolismo, col suo distacco dallo studio sano e diretto della realtà e con le sue piacevolezze astutamente mercantili di tavolozza, dopo avere corrotto proprio quella parte della risorta arte italiana che aveva dato migliori risultati e aveva fatto sorgere maggiori speranze per l'avvenire, ne minacciava l'intero organismo. Questa reazione, però, come accade più che di sovente per ogni forma di essa, eccedette, manifestandosi troppo recisa e severa e involgendo in una comune e non graduata riprovazione tanto i colpevoli coscienti e volontari e quindi senza alcuna scusa, quanto i colpevoli per debolezza e per suggestione e quindi ancora redimibili e perfino più di un pittore sotto ogni aspetto irreprensibile.

La condanna, infatti colpì, con cieca inesorabilità, tutto il gruppo meridionale, salvo i pochi che, per una ragione o un altra, si erano già da tempo allontanati da esso. Per uno di quei subitanei voltafaccia, che si avverano nel mondo dell’arte non meno che nel mondo della politica e sostituiscono di colpo i crucefige agli osanna, bastò appartenere alla scuola spagnola o alla scuola napoletana, così strettamente apparentate, per essere subito preso in uggia dai visitatori delle esposizioni italiane e per essere fatto bersaglio delle censure e degli epigrammi dei disinvolti e mordaci resocontisti di esse sui giornali e sulle riviste.

Fu dal seno medesimo della scuola spagnola, proprio quando essa pareva ridotta all’estrema sua decadenza, che sorsero, quasi d'improvviso, alcuni pittori di rara e sicura valentia e di spiccata originalità, quali un Sorolla, uno Zuloaga e un Anglada, riuscendo, dopo avere debellati definitivamente gli ultimi campioni del fortunismo, a riabilitarla e a ricondurla in auge, con fisionomia assai diversa. Simile fortuna mancò purtroppo alla scuola napoletana.

Ciò non pertanto a me sembra che, dopo che più di un venticinquennio è trascorso e dopo che il pericolo epidemico d importazione iberica che minacciò per un momento l’arte italiana è da considerarsi completamente scomparso, un imparziale giudizio di revisione s’imponga a favore della scuola napoletana.

Lasciando in disparte i pittori d insita mediocrità, d'insanabile manierismo e di spiccata tendenza bottegaia, esso dovrà innanzi tutto rilevare, come ancora non è stato fatto abbastanza degnamente, il singolare valore d’ingenua e pur sottile visione e interpretazione delle scene della natura che dei paesisti di Posillipo fece veri iniziatori e nobili precursori. Dovrà, subito dopo, ristabilire l’esatta proporzione dei pregi e dei difetti nell’opera di quegli onnipotenti grandi sacerdoti dell’arte napoletana che furono Domenico Morelli e Filippo Palizzi, nonché in quella dei loro due emuli. Bernardo Celentano e Saverio Altamura, ai quali va riconosciuto il merito di essere riusciti più di una volta a riumanizzare, sia anche teatralizzandola alquanto, la pittura storica, stecchita congelata e resa uggiosa dal classicismo accademico.

Passando ai loro più o meno immediati successori, non si potrà non tributare una sentita lode, non soltanto a coloro che, come fu il caso prima per Giuseppe de Nittis. Achille Vertunni e Federico Rossano, poi per Francesco Paolo Michei, Antonio Mancini e Alceste Campriani e infine per Lionello Balestrieri, Enrico Lionne e Ulisse Caputo, seppero preservare la loro personalità artistica dall’influenza dominatrice ed assimilatrice di Morelli, allontanandosi da Napoli per recarsi a vivere e ad operare in altre città d’Italia ed all’estero, ma anche e soprattutto al drammatico e sentimentale Gioacchino Toma ed al Fantasioso Edoardo Dalbono, i quali ottennero miracolosamente un identico risultato, pure rimanendo di continuo accanto al maestro benamato e dandogli prova di un eccezionale attaccamento, in cui l’ammirazione assunse più di una volta il carattere di vero fanatismo.

Lo stesso non si può dire di sicuro né per Camillo Miola e Giuseppe Boschetto, né per Edoardo Tofano. Francesco Netti e Teofìlo Patini, ma se è da deplorare che l’ipnotizzante barbaglio dell’astro morelliano li abbia arrestati sul sentiero in cui così brillantemente avevano fatto i primi passi e non abbiano quindi potuto o saputo mantenere appieno le promesse date con le loro prime vigorose tele, si deve pure riconoscere che quadri come “Plauto mugnaio”, “Il fatto di Virginia”,La lista dei proscritti da Siila”, “Suor Maria”, “L'uscita daI ballo in maschera” e “L’ultimo erede”sono tutte opere tipiche e significative e degne come tali di occupare un posto d’onore in qualsiasi eletta collezione di opere italiane di pittura della seconda metà del secolo decimonono.

Senza fare altri nomi, io credo che di varii dei pittori napoletani morti da poco o ancora viventi si darebbe giudizio molto meno severo e quindi più imparziale, se, invece di prendere soltanto in considerazione le opere stanche artificiose e convenzionali dell’età matura, si riguardassero le opere fresche spontanee e genuine dell’ispirazione giovanile, non ancora traviata da qualche successo sproporzionato a! merito e dalle esigenze funeste di un pubblico di cattivo gusto.

Certo è, però, che, sgombra che si sia la mente da ogni ingiusto preconcetto contro tutto un gruppo regionale di artisti che dei suoi torti è stato punito oltre misura, si dovrà pure sentirsi lieti di potere almeno rimettere in giusta luce e rendere leale omaggio a quei pochi fra essi, onesti sinceri e sagaci, i quali, sdegnando i richiami allettatori di una moda pittorica che poteva assicurare loro, come già a altri confratelli, un successo pronto, oltremodo lusinghiero ed abbastanza rimunerativo, hanno continuato a dare ascolto soltanto ai suggerimenti della propria indole di osservatori o di fantasticatori del pennello.

Uno fra costoro il quale ha in ispecial modo il diritto di reclamare che l’opera sua, alquanto negletta o non abbastanza apprezzata, malgrado possegga un accento di spiccata e caratteristica originalità, venga presa in nuovo esame, più sereno e più attento, è Vincenzo Migliaro.

Se di lui non si può di sicuro affermare che sia rimasto, durante tutta la sua carriera, affatto immune da quel perniciosissimo contagio spagnuolo che tante vittime fece neI mondo artistico napoletano e romano, bisogna però convenire che esso si arrestò all’epidermide della sua produzione pittorica, limitandosi ad indurlo a un certo abuso di finte bituminose e di cincischiature cromatiche, nonché di levigature leziosette nel trattare le carni delle giovanili figure di popolane partenopee che egli ama di mettere in iscena nei suoi quadri.

Mentre la maggior parte di coloro che gli erano stati compagni nell'Istituto di belle arti di Napoli o l’avevano in esso preceduto o seguito di qualche anno componevano, seguendo il deleterio esempio dei pittori spagnoli e senza esserne purtroppo sconsigliati dai propri maestri, i loro quadri con agile abilità di pennello, ma con evidente artificio e crescente manierismo, nell’ambiente fittizio del loro studio, servendosi sempre dei medesimi modelli di mestiere, vestiti ora da guerrieri antichi ed ora da preti o da contadini moderni, il Migliaro ebbe il chiaroveggente buonsenso di chiedere quasi sempre e con viva passione l’ispirazione per le sue tele alla vita reale, così come variamente si manifesta lungo le strade e sulle piazze della sua città natale. È per questo suo convinto e pertinace amore per il vero, che gli procurò durante parecchi anni censure e sarcasmi senza però riuscire a distoglierlo dai suoi propositi e dalle sue consuetudini di arte, che egli oggigiorno ci attrae c’interessa e ci persuade molto più di tutti o quasi tutti i suoi confratelli della moderna scuola napoletana di pittura.

Le esigenze imperiose delle industrie perfezionate e dei traffici accresciuti, i dettami sempre più rigidi dell'igiene e gli straordinari progressi del cosmopolitismo hanno, durante I’ultimo trentennio, esercitato su Napoli, luminosamente bella e maliarda fra i sorrisi del cielo e del mare, come su di ogni altra metropoli europea, la loro influenza eguagliatrice, facendo a poco per volta e in gran parte se non proprio in tutto, scomparire quanto alle sue strade, alle sue piazze e alle sue case attribuiva un carattere specialissimo, molto vivace e pittoresco. Opporsi a siffatta fatale rinnovazione di cose e di uomini sarebbe insano e riprovevole, come sciocco sarebbe il rifiutarsi di riconoscerne i vantaggi dal punto di vista della pubblica salute e dell’utilità pratica.

Si comprende, però, di leggeri il rimpianto nostalgico per quanto ieri ancora esisteva di una città benamata e ora non esiste più da parte delle anime tenere e sognatrici che sentono in particolar modo il fascino degli spettacoli della natura e degli aspetti degli edifici creati dagli uomini e in mezzo e dentro a cui si è svolta, durante lunga serie di anni, la loro esistenza quieta o procellosa e intessuta, con varia vicenda, di gioie e dolori, di vittorie e sconfitte, di esaltazioni e abbattimenti. E si comprende altresì che esso imponga all’arte, geniale imbalsamatrice del passato, la missione di conservare, mercé il pennello o la penna, per i nostri occhi e le nostre menti e per gli occhi e le menti dei posteri, gli aspetti più tipici della vecchia Napoli, fatta scomparire dal piccone demolitore e trasformata dagli usi e dai bisogni della vita contemporanea e insieme le fogge di vestire e le costumanze del popolino che l’abitava, gaio impulsivo e chiassone, amante delle feste clamorose all’aria aperta, pronto agli scatti omicidi d'iracondia per gelosia prepotenza o vendetta, e compia centesi alle mandolinate e ai canti notturni.

Agli impulsi di questo dovere estetico, che, nel campo delle lettere, ha svegliato così di sovente e con tanta efficacia di risultati la vena, volta a volta poetica novellistica o drammatica, di Salvatore di Giacomo e di Ferdinando Russo, due pittori hanno in ispecie ceduto con fervore entusiastico d ispirazione e sicura maestria di pennellata e sono stati Edoardo Dalbono e Vincenzo Migliaro.

Il primo, spirito di poetica esuberanza di fantasia, detta vecchia Napoli a metà scomparsa e dei Napoletani di sette od otto lustri fa ci ha dato, con movimentata grazia figurativa e con savorosa giocondità di tavolozza, una rappresentazione affatto glorificatrice e alquanto immaginaria, mentre invece il secondo si è attenuto, con iscrupolo grande, alla realtà, pure trovando modo di presentarcela ognora sotto le apparenze più simpatiche e piacevoli.

Nato a Napoli, 18 di ottobre del 1859, da una famiglia di piccola borghesia, il Migliaro, costretto dall'insuperabile sua avversione per la matematica ad interrompere l’iniziato corso della scuola tecnica, studiò prima plastica col Lista e poi disegno e pittura col Morelli.

Fino dalle prime prove, che, per una loro nota nuova e tutta propria, richiamarono su lui l'attenzione dei competenti e lo fecero, diciottenne appena, vincitore di un concorso nazionale, egli si applicò a raffigurare sulla tela con segno minuzioso e leggiadro e con colorazione calda e smagliante, se anche talora un po’ troppo bituminosa, i tipi, specie femminili, della plebe napoletana, accortamente precisati nelle attitudini caratteristiche delle persone e nelle espressioni rivelatrici dei volti e gli episodi movimentati della vita per le strade, sotto i più vari effetti di luce diurna o serotina.

Pure mutando di continuo dimensioni di tele e di figure, pure variando soggetto ed ispirazione, pure passando con disinvoltura dalla scena di genere a! ritratto ed al paesaggio, il Migliaro, salvo per qualche pannello di carattere decorativo, per qualche tipo di quella Spagna meridionale, la quale tanfi punti di contatto e di somiglianza possiede con Napoli, per qualche formoso nudo di donna visto di scorcio, o per qualche gaio gruppo di maschere carnevalesche, si è mantenuto fedele alla città che gli ha dato i natali.

È cosi che ora egli può a ragione andare orgoglioso di essere riuscito, con tutta una collezione di voluttuose teste muliebri dagli occhi di velluto, dalle labbra coralline e dalla folta chioma nera e crespa, di vivaci scene di folla e di efficacissime rievocazioni di pittoreschi cantucci distrutti dalle imperiose esigenze edilizie del così dettosventramento’, ad interessarci ancora una volta alla Napoli che fu, facendocela intensamente amare e dilettosamente sognare.

VITTORIO PICA - Marzo 1916. (1923 - Vittorio Pica, Vincenzo Migliaro, in: Nel Mondo delle Arti Belle, Serie Prima, ..., con 174 illustrazioni, Milano, Bestetti e Tumminelli, pp. 22/41).


Bibliografia:

1907 - VII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 93.

1908 - Eugenio Vitelli, L'Arte alla VII Biennale di Venezia, Torino, Soc. Tip. Editrice Nazionale, p. 51.

1909 - VIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 142.

1909 - Guido Marangoni. VIII esposizione Internazionale di Venezia. Pittori Italiani, Milano, Natura ed Arte, anno XVIII, n. 23, 1° novembre, p. 732.

1910 - IX Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 152.

1910 - La Bella Napoli - Natale e Capo d'Anno dell'Illustrazione Italiana 1910-1911, Milano, Treves, pp. 1, 23.

1921 - 1^ Esposizione Biennale Nazionale d’Arte della Città di Napoli, catalogo mostra, Napoli, maggio-ottobre, p. 53.

1922 - XIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 56.

1923 - Vittorio Pica, Vincenzo Migliaro, in: Nel Mondo delle Arti Belle, Serie Prima, ..., con 174 illustrazioni, Milano, Bestetti e Tumminelli, pp. 22/41.

1930 - XVII Esposizione Biennale Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 43.

1932 - XVIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 92.

1934 - Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale, catalogo mostra, Napoli, Castelnovo, ottobre - dicembre, gennaio 1935, Roma, Palombi editori, p. 121.

1949 - Armando Pelliccioni, Dizionario degli Artisti Incisori Italianiii (dalle origini al XIX secolo), Carpi (MO), Gualdi, e F., p. 115.

1955 - Luigi Servolini, Dizionario Illustrato degli incisori italiani moderni e contemporanei, Milano, Gorlich, p. 535.

2003 - Alfonso Panzetta, Nuovo Dizionario degli Scultori Italiani dell’ottocento e del primo novecento, volume II, M-Z, Adarte, p. 581.

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