Matteucci Fratelli - Francesco e Giulio Matteucci

scultori fabbri
attivi a Faenza nel XX secolo

Francesco e Giulio Matteucci allievi e continuatori del lavoro del padre Luigi.

UN MAGO DEL FERRO BATTUTO

Anzi qua, in Romagna, lo chiamano proprio il mago del ferro battuto; e se il soprannome richiama alla nostra mente quei tempi beati - o per lo meno non rattristati dall'attuale materialismo - nei quali la superstizione o la fantasia o l'ignoranza del popolo attribuiva a certi uomini delle misteriose virtù soprannaturali, il nome e l'attività dei Matteucci non mancano di ridestare lontani ricordi e antiche consuetudini e di portarci la conferma d'una fama secolare. Vi sono nomi che tramandano una tradizione nobiliare, la quale rammenta passati domini, lontane lotte e aspre contese, perduti onori e meriti di titoli e di blasoni:

ve ne sono altri, che si tramandano una tradizione di lavoro, una affannosa e paziente ricerca dell'umile benessere quotidiano, attraverso una via di perfezionamento percorsa con sforzi e con passione da padre a figlio.

I fratelli Francesco e Giulio Matteucci, i quali si sono fatti all'insegnamento del padre Luigi, ora defunto - il quale, a sua volta aveva derivato l'arte propria da Giacomo, detto Zaplon - continuano la tradizione di quel nome e di quel lavoro, che risalgono circa alla prima metà del sec. XVIII, quando, in Faenza, apparvero i primi ferri «Matteucci».

Allora dovevano uscire dalla «bottega» del fabbro quei ferri fantasticamente traforati e arabescati di spirali, di volute, di cartocci, che fecero toccare alle materie plasmabili, nel Seicento, il limite massimo di ogni possibilità. Tuttavia, l'ambiente di provincia, sempre meno raffinato di gusti, meno ricercatore di novità esorbitanti, il genere stesso di certi lavori - come «caveie» per buoi, alari, lanterne, ecc. - imposti dal centro agricolo e dagli usi paesani, costituirono un freno, talvolta salutare, alle bizzarrie. Quest'ultima specie di lavori dovette ancor più caratterizzare il lungo periodo ottocentesco - definito molto giustamente dal Melani «il secondo medioevo dell'arte» -; ma i Matteucci mostrarono poi, e mostrano oggi, difatti, di non aver smarrito né l'intuito artistico e la bravura, che tennero il terreno delle antiche glorie, né la fresca vena primitiva, per la quale l'umile artiere sa dare spontaneamente veste e palpito di bellezza all'oggetto anche di uso volgare. Ed oggi, che l'industria ha imposto una netta separazione fra lavoro meccanico e lavoro d'arte manuale, occorrono, ad un tempo, l'uno e l'altro requisito, guardate le finezze di movimento, lo squisito senso di struttura e di distribuzione degli spazi, nel cancello eseguito per la Banca S. Liberale, a Treviso; e come quelle due specie di candelabri laterali reggano, «tengano su», per così dire, con una massa più distinta, più robusta, due battenti. Poi guardate, in confronto, nel cancello, che si trova nel Cimitero di Mestre, la sodezza delle forme decorative, la forte ossatura dell'insieme, e, nel dettaglio, la pastosità dei particolari, ai quali le sapienti martellate hanno saputo dare la simpatica freschezza, quasi d'impressione, dell'oggetto plasticato. Similmente, con quale uguale riscontro di perfezione tecnica, possiamo osservare le originalità stilistiche, i piccoli frastagli, i sottili tortiglioni, le leggere spirali, i preziosi dentelli del lampadario per sala da pranzo, ora in casa Grinda, a Bari; e l'asciutta complessione, la linea severa, i forti oggetti e le grandi masse ferrigne dei due portavasi (L'uno nella Biblioteca Malatestiana di Cesena, l'altro nella casa Ranagli di Milano), nei quali sono sorpassate con mirabile precisione non lievi difficoltà di traforo, e con straordinario sentimento plastico sono trattate e addomesticate alla battitura le contrarietà della dura materia.

Si dirà che la diversità dei generi, negli oggetti, impone la diversità di fattura; onde un lampadario non può seguire le stesse norme, necessarie per la costruzione di un portavaso. Ma ciò che interessa come vero problema artistico, avente per l'oggetto valore assoluto ed universale, è il connubio, in gran parte spontaneo, fra l'intendimento decorativo e l'intendimento tecnico, è la rispondenza fra il fine ed il mezzo, come armonia di parti ed organicità di insieme. Orbene, nei lavori dei Matteucci, non vi è quella mancanza di attenzione nei rapporti fra idea decorativa e mezzo materiale, non vi sono quelle scorrettezze formali, quelle indecisioni di legami e stonature di movimenti, che balzano cosi evidenti negli oggetti da artieri non adusati alle ragioni intime dell'arte applicata.

Ecco ancora la massa greve del bracciale a muro del Castello di Gradara, massa torta, miracolo di torsione, che ridesta alla nostra mente il ricordo di qualche angolo pauroso di castello medioevale, e che sembra fatto apposta per arricchire il senso tragico della luce arrossata della torcia: ed ecco invece la massa «areata» degli alari di casa Zaiotti in Mestre, che sembra deliziare gli sguardi dei famigliari, riuniti, in gaio conversare, attorno al focolare domestico.

I lavori eseguiti dai Matteucci - gente laboriosa e feconda - sono oramai innumerevoli; e non solo nella terra natale. A Torino, ad esempio, ne è un esemplare pregevolissimo il cancello del Palazzo delle Poste e Telegrafi; a Ravenna, il cancello del Museo di San Vitale; al Sasso, si trovano molti lavori in edifici pubblici e privati. Codesta attività, eletta attività, non poteva non conferire ai Matteucci il premio della notorietà e della stima. Parteciparono all'Esposizione di Torino, inviarono a Roma, a Cesena oggetti originali, ebbero una mostra personale alle Romagnole Riunite di Forlì; recentemente furono direttamente invitati alla Primaverile Fiorentina, ed hanno poi avuto in assegnazione una intera sala, nella prossima Internazionale Decorativa di Monza.

Ma gli onori «ufficiali», le premiazioni, gli attestati, che fanno bella mostra di sé nella bottega e nella casa dei Matteucci in via Mazzini, hanno certamente più valore per gli estranei, per i profani, che per gli artefici stessi. Non insuperbiscono per certe cose, siatene certi! E nulla è forse di più in contrasto con la nostra schietta, paesana natura di romagnoli, di certi riconoscimenti cattedratici; poiché nulla è di maggior sprone, per questi intelligenti artieri, che la voce intima, l'intima esortazione al lavoro, l'interiore sentimento ricercatore della bellezza. Per la quale ad essi non manca l'aiuto ed il consiglio di un artista distinto, il pittore Giovanni Malmerendi, di Faenza, aiuto e consiglio che saranno tanto più meritevoli e fecondi, se egli vorrà assorbire e riflettere maggiormente lo spirito decorativo italiano, rinnovandone con genialità le mirabili, originarie ed inesauribili fonti estetiche, e ricollegando così, idealmente, attraverso i secoli, le origini dell'arte dei Matteucci alle sue ultime espressioni. REZIO BUSCAROLI. (1922).


Bibliografia:

1920 - Primo Scardovi, Un mago dell'arte del ferro battuto (Francesco Matteucci), Forlì, La Piè, pp. 44/45 ill.

1922 - Rezio Buscaroli, Un mago del ferro battuto, Torino, L'artista moderno, volume XXI, n. 23-24 dicembre, pp. 370/377 ill.

Leggi tutto