Manzoni Giovanni

scultore
Bergamo, 1896 - Bergamo, 1970

Nel 1924 partecipa alla XIV Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con la scultura in gesso: Femmina e con la scultura in legno: Madonnina.

e nel 1928 partecipa alla XVI° (2 sculture) Biennale di Venezia.

Ha eseguito il busto del Risparmio, in bassorilievo, per il finestrone del prospetto principale del Palazzo della Banca Bergamasca di Bergamo, e le possenti statue in bronzo collocare nelle nicchie della facciata, della Casa dell’Agricoltore di Bergamo. ora Palazzo Generali.

Nel novembre dicembre del 1930, partecipa alla Prima Mostra Internazionale d’Arte Sacra di Roma, con la scultura in legno: Vergine col Bambino.


GIOVANNI MANZONI. Non sapevo affatto che Giovanni Manzoni esistesse; e a un tratto il suo nome si fermò nella mia mente, si fissò, s’ingrandì. Avevo già vagato per più ore attraverso le sale della Permanente di Milano e affrettavo il passo per compiere il giro del grande salone riservato alla scultura. Ero stanco. Ero giunto a quello stato di saturazione cerebrale che si prova assai frequentemente quando ci si ostina a visitare in una sola volta una mostra grande come la Biennale di Brera. Il grande salone destinato alla scultura mi appariva confuso, pieno di retorica e di luoghi comuni, e a un tratto, ecco un volto balzare da una tavola: mi guarda, mi fissa con due occhi severi, par che cerchi i miei occhi, che voglia penetrare nella mia anima. Mi dice: fermati! Ed io mi fermo, guardo, ammiro. Leggo nel catalogo: Giovanni Manzoni, autoritratto. Mi fermai lungamente a considerare quella breve scultura e dimenticai di essere stanco.

Tutto il mondo di statue, di corpi nudi di donne, di corpi contorti di fanciulli, di corpi spasmodici di eroi, svanì, restò solo nella vasta sala il piccolo autoritratto di Giovanni Manzoni, balzante fuor dal legno con tratti decisi e sicuri, con linee sobrie, efficaci, ed evidentissime. Dissi fra me: - certo Giovanni Manzoni è giovane, ma è uno scultore maturo.

Nacque cosi in me il desiderio di conoscerlo. E non so come qualche tempo dopo lo incontrai. Provai una impressione curiosa. SI, vedevo in lui, nel suo volto, nella vigoria della testa, il giovane dell’autoritratto, ma come mi appariva diverso nel carattere! Mi ero immaginato un giovane vivace, direi quasi fiero, di quella fierezza pronta, che se anche non è dell’animo, si manifesta dagli atteggiamenti, dal gesto, dallo sguardo, e invece mi trovavo di fronte a un giovane semplice, direi quasi timido, d’una modestia quasi umile. Gli parlai, gli narrai la mia impressione davanti al suo autoritratto, ed egli mi ascoltò, guardandomi a tratti negli occhi quasi per accertarsi della mia sincerità, ma con quell’atteggiamento di pudore che distingue le fanciulle semplici e oneste se si parla loro della loro bellezza.

Pure non tardai a comprendere la maturità artistica di Giovanni Manzoni e la profondità della sua coscienza maturatasi nel silenzio e nella meditazione. Ciò compresi nel suo studio, in quello studio di via Novelli, in Bergamo, ch’è tutto il mondo di Giovanni Manzoni. Forse vi è nato, certo deve esservi cresciuto, deve avervi sentito i primi palpiti e i primi impulsi. Non è uno studio come tutti gli altri; è diverso. Egli lo sa, o meglio lo sente, perché subito, chiunque vi entri, sente a sua volta ch’egli lo ama. Si trova in una casa a uno o due piani, modesta; nei piani di sopra è l’abitazione della famiglia Manzoni, una famiglia patriarcale, in cui i genitori vivono coi figli in intima comunione di idee, di sentimenti e ili interessi, com’è costume della gente nostra, ed è caratteristica di questa bella e prospera terra bergamasca, che in ogni tempo, per la nativa bontà ha dato all’arte ingegni cosi semplici e nobili; sta nel piano di sotto, un vasto laboratorio d’arte dirò cosi decorativa, e poi un cortiletto pieno di gessi con piccole gabbie d’uccelli appese alle pareti in doppio ordine; e, in fondo, il piccolo studio lucido, elegante di Giovanni; dappertutto luce, e un’aura casalinga che dispone subito all’espansione confidenziale. Si prova entrando in questa casa, l’impressione di essere capitati in una di quelle botteghe fiorentine del nostro bel rinascimento, in cui il maestro riceveva gli amici, dava lezione, lavorava, creava, illuminava il mondo col raggio del genio e con la luce d’un pensiero che spesso usciva dai confini dell’arte e dettava massime di governo e di vita.

I fratelli Manzoni non hanno di queste pretese; vivono dediti all’arte loro, col cuore e la mente volti a un’idealità che li stacca completamente da ogni fatto contingente. Ho detto i fratelli Manzoni, e qui occorre una delucidazione. Se voi entrate nella casa segnata col numero cinque in via E. Novelli a Bergamo, vi trovate subito in un vastissimo laboratorio di sculture in legno, ove vedete balzare da ogni angolo santi, madonne, cristi in legno, e angeli e putti e ornamentazioni. È il regno di Enrico Manzoni, la fucina da cui partono a popolare le chiese della Bergamasca i simboli più cari della fede cristiana, davanti a cui il popolo s’inginocchierà invocando.

Enrico Manzoni è un giovanotto alto, slanciato, dalla parola e dal gesto pronti, ma corretti; ha in ogni atto una distinzione caratteristica e nella prontezza e nella facilità della parola si stacca da suo fratello Giovanni. Pur vibrando in ogni sua frase un senso di modestia, la cui sincerità penetra immediatamente in voi,questa sua modestia contrasta con quella di Giovanni che si vela invece di timidità. Per questo contrasto appunto i due fratelli sembrano più uniti; l’affetto che fa di questi due artisti quasi una sola anima balza aperto, vivo, fattivo dalle parole di Enrico, (raspare pieno di dedizione dallo sguardo dolce di Giovanni, dal suo silenzio quasi rispettoso, dal suo atteggiamento devoto.

Non si possono ammirare i santi e le madonne e i cristi di Enrico, egli scrolla le spalle, vi distoglie col gesto e con la parola; vi dice: «Qui si fa il mestiere; la vita ha di queste esigenze». E vi spinge graziosamente fuori dal laboratorio verso lo studio, ove il fratello, Giovanni, pensa, fantastica, lavora. Non lo dice Enrico Manzoni, ma ve lo fa intendere. «Qui si, in questo studio, si fa l’arte; e non la faccio io, la fa lui, Giovanni, mio fratello!… A me basta la gioia di lavorare perché lui possa studiare, possa non avere l’assillo tormentoso del bisogno quotidiano».

Ma Giovanni è ormai fuori da queste preoccupazioni. Giovanissimo la fortuna gli ha arriso, perché i suoi lavori ammessi all’ultima Biennale, di Venezia riscossero non soltanto l’approvazione della critica, ma anche quella degli acquirenti, che ormai bussano alle porte dello studio di via Ermete Novelli.

Già infatti nel cimitero di Milano, come ovunque, qua e là, nelle chiese e nelle piazze, l’arte del giovane scultore bergamasco va spandendo la sua nota personale.

Nello studio, non appena vi si entra, si comprende la nativa passione di Giovanni Manzoni per il legno. Io non so se in casa Manzoni l’arte di lavorare il legno abbia una sua propria tradizione; devo però crederlo; ciò appare evidente del resto nel laboratorio di Enrico ove si comprende come Giovanni nel legno e col legno abbia dato forma al suo genio.

Il legno non è materia preferita dagli scultori moderni, specie dai maggiori. Da quando gli antichi crearono la balorda distinzione in arte maggiore e arte minore e perdettero di vista le finalità della pittura e della scultura, escludendo dalla cosiddetta arte pura ogni concezione decorativa, il legno parve materia meno nobile del marmo e del bronzo. Certamente il legno non consente manipolazioni affrettate e d’improvvisazione; le mollezze e durezze sue inaspettate sconvolgono chiunque non abbia preso con esso famigliarità da ragazzo. Ma quando questa famigliarità esiste, allora il legno dà tutta la sua snella leggiadria e il fervore della [sua compattezza corsa da fibre e da nodi e vibrante di colore.

La passione di Giovanni Manzoni per il legno è d’una spontaneità che trapela da ogni suo lavoro, specie dai primi, ove è manifesta la gioia plastica istintiva con cui traduce in realtà le sue ardue immaginazioni. Profonda fu la impressione che suscitò alla Prima Biennale d’Arte Decorativa a Monza il suo Elemento Decorativo per Grande Lampada. La fantasia del giovane scultore pareva si fosse sbizzarrita in una concezione strana, costringendosi a uno sforzo decorativo nel preconcetto di meglio aderire allo scopo della Esposizione. Ma davanti all’elemento per Grande Lampada di Giovanni Manzoni la folla sostava sempre folta, e, se vari erano i commenti, unica era l’ammirazione per l’espressiva sinteticità dell’artista e per la sottile penetrazione con cui si era saputo valere delle qualità intrinseche ed estrinseche della materia.

Ma chi aveva seguito lo scultore nella sua carriera rapidamente ascendente, davanti a quel lavoro non poteva non ricordare altre opere che, appunto perché meno complesse, davano con minore sforzo la misura del suo ingegno e del suo sentimento. La grande testa di legno di noce, intitolata Il Nonno, che aveva riscosso il premio dell’Accademia Carrara nel 1922, era già stata un saggio magnifico dell’arte sua sobria e pura, sicura di sé e del suo avvenire. In quella testa era apparsa matura l’arte di Giovanni Manzoni, ed erano apparse felicemente superate le ansie di meditate tristezze ch’erario evidenti nella Mater Christi, comparsa nella Biennale di Brera del 1920, e confermata la limpidità dello stile che già era parsa ammirevole nel 1921 in una magnifica Testa di fanciullo, che resta tuttora uno dei lavori più espressivi e significativi. È viva in questa testa la gioia del buon lavoro che emerge chiara da ogni opera successiva del Manzoni, anche quando la più assoluta conoscenza dei mezzi e la più squisita sensibilità gli concedono più ampi voli di fantasia. In tutti i lavori successivi, coi quali egli in ogni esposizione italiana, dalle Biennali di Brera a quelle di Venezia, e da quelle di Roma a quelle di Monza va raccogliendo largo consenso di plausi e giusta soddisfazione di premi è possibile notare l’altezza dello sforzo compiuto dallo scultore in una solitudine, di cui si ha la sensazione precisa solo entrando nel suo tranquillo e remoto studio di Bergamo, tagliato fuori da ogni cenacolo e da ogni centro di quei movimenti artifiziosi che la moda distrugge con la stessa spensierata volubilità con cui li crea. Vi è maggiore sviluppo di concezione nel Poema scimmiesco e specialmente nella Pausa, la bellissima statuetta in legno della III Biennale Romana così viva e vibrante, così piena di movimento e di pensiero, ma vi è sopratutto il segno di una originalità capace di esprimere i soggetti con la passione raccolta del più intimo sentire, sicché, quando ci si trova di fronte al gruppo Il sogno pure della III Biennale Romana e alla Lunetta per il Tempio dei Caduti di San Pellegrino, più non ci sorprende la profondità del sentimento e l’acuta vibrazione di dolore che da essi emana e si diffonde, e soprattutto la sottile efficace interpretazione delle pene spirituali con cui Giovanni Manzoni ci conquista e ci travolge nella sua intima commozione.

Il marmo e il bronzo diedero modo al giovane scultore bergamasco di dimostrare come ormai, se non completamente, pienamente e magnificamente abbia svolto le sue forme stilistiche e come con raccoglimento nuovo egli abbia saputo penetrare nell’intimo delle diverse materie. Già con un gesso plasmato all’età di 17 anni, gli Orfani, esposto nel 1915 alla Permanente di Milano aveva rivelato una semplicità caratteristica nella traduzione in realtà delle ideazioni che più lo commuovono. V’è in quest’opera giovanile il segno di un istinto ottimo che lo guida verso lo studio della forma e diventa sicuro nella austerità del magnifico corpo nudo di Femmina che era notevole e notato all’ultima Biennale Veneziana e vi è pure meglio caratterizzata l’arte sua di quanto, a mio avviso, non fosse nella grande statua in gesso Verso la luce della Biennale di Brera del 1921. Era certamente, questa statua, uno studio ammirevole atto a dimostrare le qualità, diremo così, tecniche del giovane scultore e la sua forza penetratrice di osservazione, ma lasciava anche scorgere lo sforzo superfluo per intensificare l’espressione colla smorfia nel volto, e la troppa cura calligrafica dello stecco per eccessivo amore di efficacia descrittiva. E se pure in questa grande statua i difetti, che a noi parevano derivare da un’appassionata ricerca di effetto, non facessero né perdere né deviare la visione unitaria, sicché l’opera pur nello sforzo conservava una sua propria armonia, cionondimeno con piacere nello stesso 1921 abbiamo veduto il giovane scultore rientrare nell’arte viva, schietta e salda con il ritratto in bronzo del signor Armando Reggiani e con la soave figura di fanciulla in gesso intitolata Prima Rosa. Niente fronzoli in queste due brevi opere, niente minuzie, né tritumi di linee e di masse, ma una rotta passione per il rilievo plastico balzante da una sicura concezione statuaria e da una volontà formatasi nello studio dei piani netti e delle superfici lisce.

A questo punto è possibile staccarsi dal giovane scultore e allontanarsene, con la convinzione ch’egli, se per l’età può considerarsi tuttora una chiara promessa di maggiore maturità, è per altro sicuramente avviato per la strada giusta e vi procede con passo fermo e con occhio vigile, guidato da un istinto che esclude ogni pericolo di deviazione e di smarrimento.

Nel modello in creta per la statua in bronzo di un monumento ai Caduti, mentre lo studio dei volumi, delle forme e della composizione emerge armonicamente dalla larghezza sommaria di modellazione, dalla misura e dalla statica, si trova la sensazione esatta della potenza interpretativa di Giovanni Manzoni nella fiera espressione del volto e nella fissità viva dello sguardo entrambi in naturale corrispondenza con l’atteggiamento del corpo.

In questo monumento, che ha una breve ma bella conferma nel medaglione in marmo per il Giureconsulto del Nuovo Palazzo di Giustizia di Bergamo, vi è un istintivo, forse inconscio, ma per ciò appunto più sentito, ritorno al classicismo, a quel classicismo moderno che vuole il vigore scultorio assunto da masse schiette e da linee sintetiche, e la poesia delle membra e l’armonia del viso dalla felicità della modellazione. Rio di Valverde. (1925 - Rio di Valverde, Un giovane scultore bergamasco: Giovanni Manzoni. La Cultura Moderna, Natura ed Arte, n. 8, agosto, Milano, Vallardi, pp.561/568).


Bibliografia:

1924 - XIV Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, Catalogo, pp. 18, 29.

1925 - Giovanni Manzoni - XIV Biennale di Venezia Femmina (gesso), Napoli, Cimento, Anno V, p. 49 ill.

1925 - Giovanni Manzoni - XIV Biennale di Venezia,, Madonnina (legno), Napoli, Cimento, Anno V, p. 81 ill.

1925 - Rio di Valverde, Un giovane scultore bergamasco: Giovanni Manzoni. La Cultura Moderna, Natura ed Arte, n. 8, agosto, Milano, Vallardi, pp.561/568.

1929 - Roberto Papini, Bergamo rinnovata, Ivi, I.I.D.A.G., p. 115, 119;

1930 - Prima Mostra Internazionale d’Arte Sacra, catalogo mostra, Roma, p. 29.

1949 - Francesco Sapori: Scultura italiana moderna, Roma, Libreria dello Stato, pp. 376, 500.

1996 - La Biennale di Venezia. Le Esposizioni Internazionali d’Arte 1895-1995, Venezia, Electa, p. 516.

2003 - Alfonso Panzetta, Nuovo Dizionario degli Scultori Italiani dell’ottocento e del primo novecento, volume II, M-Z, Adarte, p. 566

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