Malerba Carlo

pittore
Bastida Pancarana (PV), 2 marzo 1896 - Milano, 30 settembre 1954

Carlo Malerba nasce il 2 marzo 1896 a Bastida Pancarana (PV) terzo di cinque figli maschi dei coniugi Giacorno e Angela Marini.

Nell'estate 1900, la famiglia si trasferisce a Castiglione delle Stiviere (MN), il paese dell’alto mantovano che diventa il suo paese d’adozione. Dal 1902 al 1915 completa il suo ciclo scolastico prima a Castiglione, per poi diplomarsi, con borsa di studio, a Mantova; allo scoppio della I Guerra partecipa alle operazioni come Ufficiale di collegamento della Brigata Mantova meritando una medaglia di bronzo al valore e segnalazioni per due medaglie d’argento.

Nel 1919 a Roma consegue la laurea in Economia e Commercio; si reca a Milano dove accetta l’impiego in un ufficio di import-export di prodotti siderurgici.

Tra il 1921 e ’22 si stabilisce definitivamente a Milano e, dedica il suo tempo libero alla pittura e alla caricatura in particolare.

Si sposa nel 1926 con Elena Pedrotti, dall'unione nasce il 7 luglio 1927 Luigi, figlio unico.

Negli anni dal 1927 al 1931, frequenta l'ambiente dei pittori milanesi, conosce Guido Tallone e Sandro Biazzi.

Nell'estate 1932, con Angelo Del Bon è ospite di comuni amici a Castiglione e a Medole, dipinge in compagnia di Umberto Lilloni, nell’antica casa dei genitori. Diviene grande amico di Angelo del Bon e, dal 1933, inizia un’intensa stagione pittorica, caratterizzata dalla profonda amicizia e da un attento sodalizio artistico che li vedrà dipingere insieme, con uno scambio reciproco di conoscenze, i paesaggi di Castiglione, oppure le splendide vedute di Desenzano, poi i prati di San Siro, dove ritraggono fantini e cavalli al maneggio. Va comunque confermata l’assoluta indipendenza stilistica di Malerba nei confronti di Del Bon. Sempre nel 1933, Malerba partecipa all'Esposizione Autunnale alla Permanente di Milano con il dipinto Ritratto di bambino.

Nel 1934 all'Esposizione Sociale Primaverile alla Permanente è presente con tre dipinti: Lago di Lecco, Chiesetta, Paesaggio.

Dal 1939 al 1945, a seguito della guerra, sfolla la famiglia a Castiglione, quella di questo periodo è una produzione di paesaggi, e vedute dei luoghi a lui tanto cari. Negli anni dal 1945 al 1953, la ricerca verso una composizione più matura, sembra allontanarlo dal modo di dipingere "chiarista” sostenuta finora.

A Castiglione quell'ultima estate, è il 1954, la salute non gli permette di lavorare, di ritrarre ancora una volta l'amato paesaggio.

Muore a Milano il 30 settembre di quell'anno.

A vent’anni dalla morte, nel 1974, presso la Galleria Gian Ferrari di Milano, gli viene ordinata una mostra celebrativa, nell’occasione viene edito un catalogo con testi di Gustavo Predeval e Oreste Marini.

Figura nell’ottobre 1982 alla Mostra itinerante “Dal Mincio al Naviglio e ritorno. Artisti nell’Alto Mantovano dal 1900 al 1950”, a cura di Renzo Margonari, che si tiene nel Museo d’Arte Moderna dell’Alto Mantovano di Gazoldo degli Ippoliti, e poi nel 1983 presso il Palazzo Bagatti Valsecchi a Milano.

È presente nel 1986 alla rassegna “Il Chiarismo Lombardo”, a cura di Renzo Margonari e Renzo Modesti, che si tiene nelle sedi di Palazzo Bagatti Valsecchi di Milano, e poi nella Casa del Mantegna di Mantova.

Gli viene dedicata, dal 17 settembre 1990, una mostra antologica, nella Villa Comunale di Gazoldo degli Ippoliti e nella Casa del Mantegna di Mantova, la mostra e il catalogo sono a cura di Renzo Margonari.

Nel 1996 viene inserito nella mostra “I Chiaristi - Milano e l’alto Mantovano negli anni ’30” che si tiene contemporaneamente a Castiglione delle Stiviere, Medole e Volta Mantovana, dal 14 aprile al 2 giugno, la mostra è curata da Elena Pontiggia, che in catalogo scrive: “Carlo Malerba, anch’egli vicino a Del Bon, con cui spesso dipinge fianco a fianco alla periferia di Milano e nei luoghi del Mantovano e del Garda, muove invece da esiti larvatamente primitivisti (Il cancello blu) in cui manifesta già una via sensibilità. Nel suo percorso, ancora poco noto, troviamo opere animate da un sentimento panico della natura, e insieme scosso da una segreta ansia esistenziale. Distese di alberi o di campi primaverili in cui compare solo qualche piccola figura in lontananza, strade che si inoltrano verso una meta che non si conosce, visioni abbagliate di luce in cui l’uomo è il vero protagonista soprattutto se è assente, trasformano impercettibilmente il motivo naturalistico in un motivo di riflessione, affidato all’eloquenza del colore.”

Nel mese di marzo 1998, i dipinti Chiesetta del 1933, e Veduta di Castiglione del 1949, vengono donati al Museo d’Arte Moderna di Gazoldo degli Ippoliti (MN), per essere collocati nella sala del “caminetto”.

Nell’aprile-maggio 1999, l’Associazione culturale Margonari di Mantova, gli dedica, negli spazi di via Mainolda, una mostra personale.

Giudizi critici:

La personalità artistica di Carlo Malerba (1896-1954) non ha conosciuto 1a celebrità né in vita né post mortem; destino purtroppo comune a tanti artisti anche se, in questo caso, va detto che si tratta d'un destino cercato e voluto dal pittore stesso, sempre schivo al business artistico e ad ogni forma di presenzialismo alle mostre, due elementi che, quando adottati, non possono che consegnare l'imprimatur alla memoria storica o, quanto meno, alla cronaca.

Va detto che solo in due occasioni il Malerba aveva aderito a pubbliche esposizioni, in entrambi i casi alla Permanente di Milano, la prima volta nel l933 alla Esposizione Annuale, con Ritratto di bambino e la seconda l'anno seguente con tre dipinti, Lago di Lecco, Chiesetta, e Paesaggio; si tratta degli unici quattro lavori firmati, come ad indicare l'eccezionalità che conferma il concetto dell'operare per se stesso, in intimo dialogo con il mondo e con l'elaborazione silenziosa delle emozioni.

Pavese di nascita, trasferitosi a pochi anni di età a Castiglione delle Stiviere, ne assorbe le atmosfere semplici e rurali, la dilatazione psicologica che i vasti spazi imprimono e la preziosità della cultura gonzaghesca che carica i luoghi di rimandi artistici, una culla naturale che coniuga la semplicità bucolica di frugalità virgiliana con la raffinata sapienza storica di questa terra.

Nobile cifra mantovana, che l'artista arricchisce verso la fine degli anni venti, frequentando a Milano l'ambiente artistico e legandosi d'amicizia con Guido Tallone e Sandro Biazzi; e ancora, dopo il 1932 allorché inizia una consuetudine sodale e di lavoro con Angelo Del Bon, venuto a Castiglione per le vacanze, tanto quanto con Umberto Lilloni, che trascorre le estati a Medole con la famiglia, nella casa dei genitori.

Già nelle opere che datano alla metà degli anni venti, in clima quindi pienamente novecentista (il primo gruppo del ‘Novecento' milanese si era costituito nel 1923) l'impianto strutturale appare architettonicamente più costruito e saldo, tonalmente orchestrato sulle cromie spente. ma nulla di quelle che erano le griglie formali in adozione tra i pur diversi stilemi novecentisti. Piuttosto che dal rappel à l'ordre corrente in quel tempo, il nostro si lasciava trascinare in quell’ansa più sciolta di un naturalismo tosiano, un filone di rimando non certamente neo-rinascimentale o primitivista arcaizzante, ma impressionista e postimpressionista; va qui sottolineata anche la presenza della componente fondamentale della tradizione lombarda, la pittura tonale “1umeggiata", quell'attendere ai valori atmosferici leonardeschi e luineschi, l'indagine dei rapporti trà aria e cose, umidità e terra, che Arturo Tosi aveva accorpato allo studio plastico dei piani recuperando Cézanne.

Non esattamente così i chiaristi, che all'attenzione per la strutturazione sostituiscono l'appercezione luminosa della natura con il suo portato emotivo, la traduzione segnica del residuo romantico in essa rimasto entro una forma à plat, secondo, un certo gusto giapponesizzante adottato anche da Del Bon, oltre che presente nell'atmosfera culturale di reazione antinovecentista di quegli anni; il colore si carica di valenze emozionali, non solo, diventa il veicolo espressivo della forma.

Le cose non vengono allora più agganciate entro una griglia di valori matematici o geometrici, ancorate alla rigida scansione del disegno, del tratto numerico, della euclidea concezione di proporzione, ma lasciate galleggiare nella luce, a inzupparsi di essa fino a testare un notevole alleggerimento cromatico di ascendenza impressionistica francese, per non dimenticare il riferimento alla modernità del lombardissimo Gola post-l900.

Questo il senso generale dell'illegiadrimento, come era inteso dal critico Pier Maria Bardi portato in campo dai "pittori nuovi", così definiti da Edoardo Persico in occasione della prima collettiva dei chiaristi alla neonata Galleria del Milione (ex Galleria Bardi) del novembre 1930, significativamente titolata '”Studi di artisti lombardi noti e giovanissimi”. I “lombardi noti e giovanissimi” erano De Rocchi, Del Bon, De Amicis, Lilloni, Spilimbergo e altri ancora che avrebbero poi seguito una diversa strada, quella di Corrente; il grosso del raggruppamento avrebbe più lardi assunto l'etichettatura di "chiaristi'' definizione coniata nel 1936 da Leonardo Borghese, confermata nel 1939 da Guido Piovene e posteriormente usata e variamente abusata dalla critica.

Diverso in alcuni aspetti il chiarismo dell’alto-mantovano, nel quale rientra Malerba, in posizione di moderna autonomia nei confronti di quello milanese, anch’esso attento agli influssi artistici d’oltralpe sostenuti da Edoardo Persico, ma più sensibile alla tradizione lombarda del Lotto, del Pitocchetto e, per venire più in qua nei tempi, di Emilio Gola e di Arturo Tosi, anche il vicinissimo Veneto agisce con la propria suggestione, infondendo un'attrazione quasi orientale per il colorismo alchemico e sensuale. Se ne ricava una sorta di religione della natura, vicino al concetto panico goliano del reale che si traduce in termini di misticità quotidiana, di pratica mentale ed emozionale sur le motif.

Sicuramente l’influsso di Del Bon agisce su Malerba, già di per sé incline a concepire una natura spiritualizzata, ma va ricordato in tal senso l'apporto dell'ideologo della frangia chiarista mantovana? Oreste Marini, critico e pittore, che, con Del Bon e Lilloni agisce da anello di connessione con l'ambiente milanese. Il Marini, con un altro importante esponente del chiarismo alto‑mantovano Giuseppe Facciotto, intende la comunicazione con la realtà secondo una via estremamente immediata, basata sulla totalità e complessità delle percezioni, in ciò recuperando per via non programmatica ma semplicemente poetica quel panteismo laico goliano di immersione e immedesimazione nel magma vivo della natura.

Marini richiama il concetto di luce nel colore unito, accennando alla tecnica di Morandi, quel Morandi che ci dice ancora che esiste l'oggetto, sia pur metaforizzato; il critico mantovano si sofferma anche sulle “farfalle informali”, del Del Bon, quella materia che si sfrangia a. fronte degli effetti cromatici e sbriciola l'oggetto in dissoluzione luminosa; qui si innesta il recupero della sensibilità cromatica veneta tipica di Facciotto, grande amico di Pio Semeghini, una sensibilità arricchita dal sostrato lirico del colore.

Carlo Malerba non è estraneo a queste suggestioni e da una partenza moderatamente primitivista evolve verso una progressiva interazione con la natura, entra in comunione con essa, al punto da avvertirne il linguaggio attraverso gli umori, come si trattasse di materia psicologicamente viva e in grado di interagire con l'uomo. Il paesaggio articolato sulla sua sensibilità rifiuta le strutturazioni di rimando cézanniano, non va regolamentato, va respirato, sentito, "starnutito", come a fine ottocento aveva detto Mosè Bianchi, poco o nulla disegno, molto colore, ma più di tutto, un bagno di luce. Quello che Emilio Gola aveva realizzato in una sorta di “conato riassuntivo del reale”, per usare le parole di Giorgio Mascherpa cioè quella connessione con il vero che gli permetteva di ampliare o deformare gli spazi e le cose sul filo esclusivo della propria sensazione, fino a immergere il tutto nel "bagno lucente del giorno", il Malerba lo riviveva in chiave personale di fronte alle marine o al lago di Garda, dove terra e acqua vibrano in un unicum di sostanza luminosa, a due passi dall'astrazione, dalle sensazioni pure, trattenute al di qua del tornante del dissolvimento da punti di ancoraggio come figure lillipuziane o case minuscole, ormai solo metafore dell'esistenza concreta delle cose. Con lo stesso linguaggio in sensistico‑coloristico e insieme mentale si presentano i dipinti campestri, terre di un verde‑acqua intenso, come fossero distese marine, che pare metabolizzino chiostre di case periferiche quasi sciolte in colore nebbioso grigio‑cilestrino, ridotte a sagome sui fondi. In questa esposizione, che raccoglie finalmente i dipinti di un artista tutto da conoscere e rivalutare, sono presenti quei lavori che hanno costituito l’originale atelier del Malerba, occasione non comune, visto la fino ad oggi rara presenza del nostro sui circuiti artistici, per verificare le diverse soluzioni interpretative sul paesaggio, tema questo che il grande amore del pittore, dall’inizio fino alla fine. Paesaggi delle colline mantovane, distese campestri, campagne attorno al galoppatoio di San Siro, che per quei tempi si stendevano alle frange periferiche del capoluogo lombardo.

È interessante una osservazione relativa alla risoluzione adottata per taluni tagli paesistici, passati attraverso la mediazione di Arturo Tosi, nel senso non certamente della robustezza di struttura propria del maestro novecentista, quanto piuttosto come adesione sensuale alla terra, alla scansione non architettonica ma “umorale” tra campi e strade, tra zolle e prati; viali che aprono come porte spalancate, emergendo larghi dal piano di base per restringersi veloci, contro ogni regola di prospettiva, risucchiando l’osservatore. Vedute lacustri con piante a fare da quinta di lato per incorniciare fondali di acque e monti; qui le sensazioni colorate ammiccano ad una certa seduzione plastica, dalla quale Malerba si ritrae velocemente ritornando alla penetrazione atmosferica, ai colori mentali, i verdi e gli azzurri raffreddati in contrasto con il calore degli ocra di insidiosa plasticità.

E ancora tele di vibrazione impressionista, pochi alberi che si spartiscono il primo piano con uno scorcio di casa d'un bianco abbacinante, quasi argenteo, di lucore acido vicino al Bonnard delle vedute della Senna del 1910 o della Costa Azzurra del 1923.

Soggetti semplici, viali con una casa di essenzialità formale ardita, colori chiari e piatti, imbevuti di luce, giustapposti al modo dei fauves moderati, il Marquet e il Matisse in versione “chiara” del 1904 o del meno famoso Charles Camoin.

Artisti che il nostro amava e conosceva, avendo spesso visitato i musei di Parigi e di altre città europee., dove si riforniva di libri e cataloghi su Monet, Sisley, Pissarro, Picasso, Cézanne, Matisse, Bonnard e altri.

Insieme a Del Bon, a Marini e agli altri, si riuniva spesso a discutere di problemi artistici italiani e stranieri; curava attentamente l'acquisto dei colori, prediligendo il bianco di zinco di cui si approvvigionava in dosi massicce; prima di uscire a dipingere, preparava le tele a gesso perché il colore vibrasse di luce e la riflettesse. Viveva in funzione del suo lavoro, si sentiva artigiano ispirato più che artista, secondo una modestia molto lombarda; aiutava spesso i colleghi pittori, una specie di piccolo mecenate, acquistava i loro lavori, li ospitava di frequente, in una sorta di tacito ringraziamento per averlo stimolato a trovare la propria espressione pittorica.

Godeva di una visione dell'arte personale, non ascrivibile agli indirizzi estetici indicati da Edoardo Persico, critico e ispiratore del Chiarismo, quanto piuttosto scaturita dall'amore per l'impressionismo francese in sintesi con l’eredità “genetica" lombarda, quella venuta a lui da tre lombardi di razza. Mosè Bianchi, Emilio Ciola e Arturo Tosi. Riferimenti inconsci e non, aggiornati in forma espressiva semplice, quasi ingenua, da una mano immediata e da un animo sintonizzato fino all'ultimo sulle magiche suggestioni del vero. Nicoletta Colombo.


Bibliografia:

2002 - Carlo Malerba, a cura Antonella Piccardi e Italo Magnaguano, catalogo mostra, Milano Galleria Arteidea, pp.nn.

2002 - Adalberto Sartori - Arianna Sartori, Artisti a Mantova nei secoli XIX e XX. Dizionario biografico, volume IV, La - Mu, Mantova, Archivio Sartori Editore, pp. 1753/1764.


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