Giancarlo Cuccù nasce a Torino da genitori marchigiani e vive nelle Marche fino all’età di sei anni nella grande casa dei nonni materni, nella frazione di Collina Nuova, nel comune di Monte Vidon Combatte. Apprezza la bellezza della campagna e del vivere all’aria aperta. Ritorna a Torino, ma per le vacanze estive e natalizie è di nuovo nelle Marche. L’incontro con la pittura avviene nella tarda estate del 1958, quando dipinge su legno un piccolo paesaggio, andato perduto, dai colori rossi e blu. Dei primi anni Sessanta si ricordano un Vicolo di notte, ritratti di attori, figure di toreri e alcuni paesaggi andati distrutti. È del 1960 l’acquisto del primo cavalletto da studio. Della fine degli anni Sessanta rimangono un paesaggio di chiaro influsso morandiano, un ritratto di donna monocromo e un nudo eseguito a spatola, un ritratto della madre malata (databile al 1970), tre ritratti del padre, un piccolo arlecchino, qualche paesaggio oltre a numerosi disegni e lavori a china. Alla fine del 1967 lascia definitivamente Torino e si trasferisce a Fermo nelle Marche, dove abita tuttora.
Nel 1976, in occasione del primo dei molti viaggi a Parigi, incontra la pittura francese del post-impressionismo e vede dal vivo le opere degli artisti che saranno le avanguardie della pittura moderna: l’ultimo Cezanne con i lavori sulla Saincte Victoire, Rouault, Gauguin, Van Gogh, Soutine, Bonnard, il primo Matisse, il Monet delle ninfee e, per finire, Munch e gli espressionisti tedeschi (Nolde sopra tutti ma anche l’austriaco Kokovska).
Mostre collettive a Fermo nel 1982 (Palazzo Comunale), nel 1996 (Cappella di Villa Vitali), e nel 2003 (Cisterne Falconi). Va a Monte Vidon Corrado a ritrovare i paesaggi del primo Licini e le atmosfere delle Amalasunte.
Nel 1990 è in Olanda per la mostra del centenario della morte di Van Gogh e a Parigi conosce Madame Castaing della quale eseguirà tre ritratti. Negli anni 2000 è a Ceret e cerca in quei luoghi la violenza cromatica del “folle di Smilovitchi”. È di nuovo a Parigi negli anni seguenti per le retrospettive di Gauguin, Cezanne e Modigliani. Studia le opere di Scipione e Gino Rossi. Nel 2005 tiene una personale di oli e disegni alla Galleria di Arte Moderna a Montecatini.
Nel 2008 espone a Firenze presso Art in Progress in via dell’Oriolo. È fra i 106 artisti che inviano una formella dipinta alla Libreria Bocca di Milano per partecipare alla iniziativa “L’arte aiuta la cultura”. Viene in contatto con la pittura dissacrante dello svizzero Varlin e nel frattempo continua gli studi e le ricerche sul paesaggio marchigiano proprio in quel lembo di terra (le struggenti colline e i calanchi) che da Fermo s’interna fino a Montottone, Petritoli, San Procolo, Monte Vidon Combatte e Collina Nuova. Nei primi anni Duemila conosce Oscar Piattella e va spesso a Cantiano a trovarlo e lo ritrae con un cagnolino in braccio. Si lega in amicizia con il pittore milanese Attilio Forgioli, che viene in vacanza a Cupra Marittima e del quale eseguirà tre ritratti. Conosce i pittori siciliani Guccione e Sarnari.
Sulla sua attività pittorica è stato pubblicato nel 2008 il libro-catalogo I colori dell’anima con testo critico di Marisa Calisti e nel 2010 con scritti di Piero Feliciotti e Lucio Del Gobbo in occasione della mostra di Jesi, nel 2011 Orizzonti con testo di Gloriano Paoletti e a seguire Ritorni, con le osservazioni critiche di Stefano Papetti. Nel 2014 espone a Palazzo Ducale di Urbino, presentato da Silvia Cuppini, e a Palazzo dei Capitani ad Ascoli Piceno e ancora all’Alexander Museum Hotel di Pesaro. Nella primavera del 2015 espone 16 opere alla Gallerie Wikiarte di Bologna e nel frattempo viene accettata la sua iscrizione a socio della Società Belle Arti e Museo Permanente a Milano. Nel 2004 è andato ad abitare in una nuova grande casa con uno studio all’ultimo piano, dove «si coglie una veduta della campagna fermana che si spinge a sud fino al Gran Sasso e a nord al di là di Monte San Vicino con una vista sui Monti Sibillini da togliere il fiato».
Altre mostre nel 2017 a Roma - Galleria la tartaruga; nel 2019 A Firenze - Semiottagono delle murate e nel 2022 a Mantova - Galleria Arianna Sartori.
Contatti:
Giancarlo Cuccù
Cell. 333.2120171
Di Lui hanno scritto:
Valerio Biscalkin, Vera Laura Verona, Marisa Calisti, Stefano Papetti, Piero Feliciotti, Lucio Del Gobbo, Floriano Paoletti, Silvia Cuppini, Oscar Piattella, Nani Marcucci Pinoli, Claudio Cerritelli, Maurizio Bonanni, Attilio Forgioli, Elisabeth Pontvik, Nicolangelo De Sanctis, Maria Palladino.
Giudizi crtici:
“Un uso quasi ossessivo del colore che manipola e penetra le immagini sino a trasfigurarle… non è un artista creativo, è a modo suo <creatore>! Le sue creature hanno un alito vitale… se si prende il tempo di guardare oltre il colore e la forma, allora si vedrà emergere tutto l’amore per la sua terra, l’indagine profonda che le figure ritratte rivelano…”.
Valerio Biscalkin
“I colori e le forme dei suoi dipinti mi sono così familiari che mi capita di ritrovarli in natura e non il contrario. È come se fossero diventati degli elementi primi, generatori di realtà, che non si limitano a ritrarla o a rappresentarla ma la inventano e la plasmano nuova e vitale. Non sento però in questa creazione nessuna gara, nessuna sfida o composizione. Nessuno sforzo stridente. Mi arriva invece un senso di pacatezza, di immedesimazione, di profondità. Una forza espressiva solida e robusta che si afferma con straordinaria spontaneità ed evidenza. Mi stanno davanti agli occhi le colline marchigiane, così dolci, morbide e lavorate, i paesini del Fermano, i Monti Sibillini, i calanchi e i campi di girasole…”.
Vera Laura Verona
“Una realtà oltre le apparenze nella quale si coagulano solitudine e angoscia, paura ed indifferenza… emerge uno stile condotto con contrasti forti di colori di terra e di azzurri, di verdi e di gialli, mischiati alle violenze del verde, del rosso. Le pennellate sono ampie, dense, pastose di materica sensualità, rapide e inquiete i cui temi del paesaggio, della natura morta e della figura, colti nella visione deformante della visione esercitano un fascino cui è difficile sottrarsi… arte in cui vi si riconosce anche e prepotentemente un’antica appartenenza, radici ispirative più profonde, certezze consolidate della nostra tradizione artistica che mira all’equilibrio, all’armonia, estranea all’improvvisazione, filtrate attraverso centinaia di disegni e schizzi preparatori…”.
Marisa Calisti
“Dipinti… caratterizzati da una aggressività pittorica espressa attraverso colori incandescenti stesi sulla tela con una gestualità fremente ed incisiva, quasi ferite inferte sulla tela. Si percepisce con chiarezza il movimento della mano armata di pennello che scava nel profondo dell’anima, facendosi sismografo dei sentimenti che la attraversano. Paesaggi, nature morte e ritratti vengono affrontati con una coerenza totale: le amate colline del Fermano, i calanchi che feriscono la struggente bellezza del paesaggio marchigiano, i volti scavati che esprimono la sofferenza di una vita vissuta con intensità si succedono nelle sue opere, rivelando una tensione interiore che sembra non trovare mai requie…… non scade mai nel descrittivo e non indulge al pittoresco: anche nelle vedute si scorge la forte impronta emotiva che deforma i contorni ed accende di colori inconsueti la campagna. Una ruvida tessitura di trame cromatiche giuocate sui verdi, sui toni terrosi con improvvise accensioni di giallo e di rosso danno luogo a vedute pervase da una forza centripeta che ti trascina dentro l’immagine e non ti lascia indifferente…”.
Stefano Papetti
“È la narrazione del tempo che fa e disfa le cose, le cambia. Un’esplorazione delle tracce, dei segni, delle rovine che il tempo lascia e accumula nel paesaggio che ci è familiare, negli oggetti che usiamo, nei corpi che amiamo, nell’io che siamo. Nella pittura non si tratta di riprodurre o di inventare delle forme, quanto di captare delle forze che non sono visibili, né udibili. Per questo nessuna arte è figurativa, il desiderio del pittore non è nell’ordine del visibile. La ricerca di quelle forze, di quelle tensioni fa pensare a un altro grande di tutta la pittura, a Bacon che nei suoi trittici coglieva la trasposizione temporale degli strati della materia lavorando sul colore, deformando l’identico nella figura umana per andare sempre più in profondità…”.
Piero Feliciotti
“E nell’azione del dipingere la tavolozza diventa quadro! Il colore assurge a ductus dominante, quello che stabilisce le forme in sintonia con un sentire che esula dalla volontà stessa. Esso distingue ciò che è familiare da ciò che non lo è, affidando le due sensazioni della lontananza e della vicinanza a due visioni dialetticamente opposte. Una prossimità che si esplicita in una vera e propria convivenza amorosa; una estraneità che suscita invece senso di solitudine e smarrimento”.
Lucio Del Gobbo
“… Ricerca estranea sia ad ogni effusione sentimentale ed uso mimetico del colore, che all’aspetto illustrativo e narrativo dell’opera. I suoi quadri hanno una propria autonomia a prescindere dall’oggetto raffigurato e non sono una copia del reale, ma uno spazio di sperimentazione figurativa e visiva, luogo di conflitti psichici, di ingorghi coloristici e «bruttezze» di impasti e forme. Pittura, dunque, non di incanti lirici o di distaccata oggettività, ma necessità interiore di liberazione ed espressione, vissuta fino in fondo come esclusivo fatto morale e di coscienza. Una coscienza agitata da dubbi esistenziali e rovelli artistici, dalla quale si sprigiona quella energia primordiale che porta in superficie la faccia nascosta e tragica del reale per trovare risposte all’eterno enigma del chi siamo…”.
Gloriano Paoletti
“… (Nei ritratti) di anonimi uomini, donne e bambini… sottolinea con insistenza gli occhi/vista, le orecchie/udito, la bocca/gusto e soprattutto il naso/olfatto. Le mani/ tatto quando compaiono, sono piccole e insignificanti. Il naso è l’orifizio che mantiene nel corpo costante il passaggio interno/esterno: attraverso il naso respiriamo e fra tutti i sensi è quello che, percependo gli odori, è il più aereo. Si allargano le narici sul volto, si appiattiscono mescolandosi nell’impasto denso dei colori con la superficie del quadro. Così come il naso, la parte superiore del volto si abbassa, si amalgama, si spande…”.
Silvia Cuppini
“Il ritmo… della… pennellata quasi scontrosa, inceppante, come se fosse stata la pennellata che dava inizio all’atto primordiale del «pitturare». È questo in parte quel «secondo atto» di quando la scintilla mai spenta del mistero della presenza sulla terra dell’artista si accende e prende fuoco nell’incontro tra evidenza e presenza e poi nell’assoluto dell’opera. È necessario percorrere questo sentiero per avviarsi verso l’evento dell’opera, che non sarà altro che il risultato dell’incontro della terrestrità con l’universo… vedo con i miei occhi il tuo marasma interiore quando polverizzi il mondo attraverso il magma del tuo colorare…”.
Oscar Piattella
“Quando conosco un artista cerco di immaginare, guardandolo e parlandoci, quale genere di opere possa fare. Viceversa, quando vedo le opere di artisti che non conosco, cerco di immaginare l’autore, quale carattere possa avere, cosa possa pensare. Giancarlo Cuccù l’ho conosciuto contemporaneamente alla sue opere e forse per questa ragione mi è sembrato un tutt’uno. Nel guardare i suoi lavori vedevo lui e nell’osservarlo capivo le sue opere. Anche se parte e prende spunto dai temi classici della pittura (paesaggi, ritratti e nature morte), lascia libera la mano a seguire le tensioni interiori, tanto il reale è solo il motivo per iniziare. Non parlerei di interpretazioni ma di invenzioni e addirittura di creazioni. Senza dubbio un pittore visionario ma non onirico”.
Nani Marcucci Pinoli
“Del resto che senso avrebbe continuare a dipingere paesaggi se l’artista non potesse alterare il loro volto apparente, il contrappeso delle forme, i confini dello spazio che non possono essere fissati in modi definiti e prevedibili? … è necessario abbandonare i presupposti teorici ed entrare nei particolari movimenti del colore come un viaggio verso le fonti originarie della forma, immersione vitale nel fervore sensitivo che della visione naturale lascia affiorare tracce fuggevoli, energie fluide e pulsazioni interne. La fitta trama del paesaggio assume un’ampiezza inverosimile, fatta di intrighi di segni e sedimenti materici…. senza altre mediazioni che quelle generate dagli slittamenti del colore, senza un attimo di sosta tra gli elementi che formano lo schermo dell’immagine, Si tratta di sonorità cromatiche avvertite fin dai tempi dell’infanzia, emozioni filtrate e possedute in modo totale, processi profondi e talvolta inesplicabili, paesaggi di luce dalle sembianze familiari eppure sempre diverse, immagini del cuore e della mente che rivelano l’inquieto propagarsi del colore-luce…”.
Claudio Cerritelli
“La sua è una pittura, oserei dire, ‘subliminale’ in cui il colore va a stimolare la parte profonda della coscienza estetica dell’osservatore, proponendogli uno spettro limitato e intenso di verdi, rossi, gialli, rosa, bianchi e fondali azzurri, tenuti insieme da filari robustissimi di sostanza cromatica dai tratti ampi e profondi… non c’è bisogno di pensiero: in lui il pennello è azione più scultorea che pittorica… Luoghi antropizzati che, però, non vogliono intenzionalmente essere confusi con le ondulazioni del terreno al contorno, restando immersi e autonomi nelle loro lucenti armoniche, sorta di accordi ritmati da una pretestuosa quanto spontanea sinfonia di gessi colorati… Le specie arboree si rifugiano nei gradini scoscesi, dove il trattore non regge al richiamo della gravità e dove il seme non può attecchire, mentre i tratturi con i loro rosa delicati e caldi ci dicono che quella natura non è sola, che nasconde una presenza percepita, fattrice e, in un certo senso, allestitrice di quel paesaggio muto e solenne. Lo fa parlare con le sue righe radenti, modellate a lame di rasoio che accarezzano i rilievi collinari per renderli docili e assuefatti, come buoi all’aratro… La sua pittura è sempre in movimento…”.
Maurizio Bonanni
“È come se volesse affondarsi nel colore della pittura. A volte ci sono attimi di smarrimento, non di disperazione, ma quasi di abbandono. Poi il colore prende vita. Riprende la lotta per ottenere l’immagine della sua mente. Immagini di cose viste, che conosce, che vuole afferrare, possedere. Non scorgo rifiuto della rappresentazione e alla fine c’è presenza delle cose, dell’uomo, del paesaggio marchigiano. Inquietudini di paesaggi che si possono solo ottenere con la fisicità del colore. A volte con forti profondità anche nell’imprecisione delle forme. E la materia ha una sua nobiltà. Si potrebbe dire che hanno anche una tensione espressionista quando rappresenta la figura dell’uomo…”.
Attilio Forgioli
“Ogni volta che ho l’occasione di vedere una esposizione di quadri di Giancarlo Cuccù – in verità non sono molte le opportunità perché l’uomo non ama esporre – mi chiedo sempre come mai questo pittore non abbia quella notorietà che il suo lavoro meriterebbe. Mi risulta che sia molto apprezzato in una ristretta cerchia di amici e conoscenti, ma aspettiamo il giorno in cui qualcuno si deciderà a mettere un po’ di ordine nel groviglio attuale dell’arte contemporanea dove – ce lo auguriamo – glorie effimere di una moda e di una stagione si dissolveranno come neve al sole. Questa “dimenticanza” in parte è dipesa dal fatto che i pochi che hanno scritto su di lui lo hanno “ingabbiato” in quel termine “espressionista” che rappresenta una definizione troppo vaga e soprattutto limitante del suo operare. Molto ha concorso quel suo carattere schivo e introverso che non ama le luci della ribalta. Personalità e opere che unite insieme danno vita a un “mix” di carica artistica, di forza, di pathos, di una violenza dolce e dolorosa ma, nello stesso tempo, carica di mistero. Anche se nella sua opera si può evidenziare la forza del segno e del colore a carattere “espressionista” – “fauve” non direi proprio- questa stessa parola applicata ai suoi lavori mi sembra fuorviante e può essere accettata solo se ci fermiamo a una visione superficiale e grossolana di questi. Se ci riferiamo a tutto il movimento cosiddetto espressionista in genere – il filone tedesco il più importante mi è sembrato, almeno in alcuni autori, una moda effimera più che altro dovuta alle condizioni storiche e sociologiche del momento- allora non ci siamo. Se invece pensiamo a Munch, Bacon, Giacometti, a Varlin e uniamoci anche Soutine – tra gli italiani il solo Scipione- imbrocchiamo la strada giusta e maestra per capire la sua pittura. Io lo aggregherei a questi pittori del dolore, dell’angoscia esistenziale, grande e tragica, violenta e distruttiva. Pittura, quella di Giancarlo Cuccù, che comporta una drammatica lacerazione dei sentimenti umani, dove tutto è rimescolato e stratificato per arrivare a una poesia senza tempo. Cosa sono i suoi paesaggi se non espressione di angoscia per un tempo passato e che mai più ritornerà? E i suoi volti ? I suoi personaggi ? Non incombe nelle loro espressioni la tragicità della vita che si apprestano a vivere? Che dire infine dei suoi “folli” – non presenti nella mostra fiorentina alle ex-Murate – colmi di rassegnazione e di dignità nell’accettazione del proprio destino? E che dire dei suoi disegni? Oggi ne possiamo vedere alcuni che sono stati apripista per opere maggiori, di una forza e incisività che vanno a scapito della bellezza intesa in senso classico. Un’opera certamente da apprezzare- questa del pittore marchigiano- che ci invita a riflessioni cariche di inquietudine e di stupore, proprio come scrisse il prof. Stefano Papetti in occasione di una esposizione ad Ascoli Piceno a Palazzo dei Capitani: “l’arte, quella vera e partecipata emotivamente, non quieta l’anima, ma la turba e le impone di riflettere con se stessa”.
F. A.
The Landscape at Work
Le Marche: A land labored, and laboring. A land invaded, conquered, fought over, farmed, lived, and loved. The landscape modelled by human hands continues to toil without them. These frames present microcosms teeming with activity: growing, absorbing, transporting, giving and taking of cells and systems. Giancarlo Cuccù’s hand working the land through paint brings all of this striving and thriving to our awareness. The work of the brushstroke itself is apparent. It is driven forcibly, never on autopilot.
Each mark counts, assembled as a collective where all players are equally important. The same life force courses through every element, connecting and vibrating strings in the direction of growth. This buzzing created by startling color juxtapositions and energetic marks resonates with expressionists such as the likes of Ernst Ludwig Kirchner. One senses the artist’s compulsion to get these works out, not driven from desperation, but eager expectation. The antithesis of tight or slavish, here, the land is getting at liberation. Enclosing the field within bounds sets it apart from the boundless of which it was, and is, a part, and places it within care. The bounds of the field bind the mind to it. A bride adorned, the field now wears the green veil of a season’s abounding. Open the gate! Open it wide, that time and hunger may come in. 1979, IX
-Wendell Berry, A Timbered Choir: The Sabbath Poems, 1979-97
Elizabeth Pontvik
La consapevolezza dell’arte di Giancarlo Cuccù
Paesaggi, ritratti, nature morte: in questa occasione Giancarlo Cuccù ha selezionato una serie di opere recenti che affrontano i temi ricorrenti nella sua trentennale attività di pittore che ha scelto di vivere appartato, mantenendosi estraneo alle dinamiche del mercato dell’arte contemporanea e scegliendo con cura quando presentare al pubblico le sue opere. Un ritegno che lo accomuna ad altri artisti marchigiani del secolo scorso: in particolare la sua scelta appare assai simile a quella operata da Osvaldo Licini che, dopo una lunga esperienza parigina, dal 1926 optò per vivere isolato dal mondo nel piccolo borgo sibillino di Monte Vidon Corrado, trovando nelle viscere degli Appennini i motivi della sua pittura ancestrale.
Il paesaggio marchigiano, da sempre celebrato per sua varietà e la sua dolcezza, viene interpretato da Cuccù in chiave espressionistica: i colori si fanno violenti, le pennellate assumono spessori materici inconsueti, le linee ondulate delle colline appaiono tormentate da una forza interna che le deforma come se una presenza ctonia le facesse sobbalzare.
I ritratti colgono l’inquietudine esistenziale di giovani donne, di bambini dall’aria affranta e dimostrano come per l’artista marchigiano non sia essenziale la verosimiglianza, ma sia piuttosto determinante indagare l’animo di quanti si pongono davanti al suo cavalletto: richiamando un passo dello “Zibaldone” di Giacomo Leopardi, nel quale il poeta afferma che spesso ci colpisce di più vedere il ritratto di una persona conosciuta piuttosto che incontrarla, Cuccù scandaglia in profondità i sentimenti e li rappresenta con pennellate vibranti, cariche di colore e di umori che nascono dalla conoscenza diretta del male di vivere.
Anche le natura morte non sfuggono a questa ricerca emotiva, per cui i pesci o i mazzetti di fiori di campo mantengono traccia della loro vita anche se ne sono ormai privi, tanto che per queste composizioni si addice di più la definizione di nature vive.
Cuccù ci dimostra come si possa operare nel campo dell’arte anche vivendo in un centro lontano dal clamore e dal caos delle metropoli e che anzi, scegliendo di non condividere la petulante contemporaneità affidata per lo più al mondo dei social, si possa a ritrovare quella dimensione riflessiva che consente di valutare quanto la vita ci riserva con più consapevolezza e coraggio.
Stefano Papetti
Direttore della Pinacoteca civica di Ascoli Piceno, storico dell’Arte
L’arte consapevole. Impara l’arte e mettila da parte…
Ho conosciuto molti pittori nell’arco della mia vita e carriera.
Pochi i veri artisti. Quelli che dedicano anima e corpo al loro operare, al di là delle aspettative, siano esse buone o cattive. Giancarlo Cuccù appartiene a questo gruppo privilegiato dove la passione supera tutte le barriere formali ed informali che il percorso artistico impone. La tela è bianca, la mente cerca appigli da tutte le parti e qualsiasi dettaglio, anche il più piccolo, può essere il fattore determinante, l’innesco che ci fa iniziare questa nuova avventura pittorica (non è in alcun modo determinante avere di fronte il soggetto prescelto da dipingere).
L’artista, in un istante quasi impercettibile coglie l’attimo per attivarsi in questa nuova avventura. Si accorge al termine di queste vibrazioni, che sono gli oggetti, le persone ed i paesaggi che guardano lui… Questa bellissima, affascinante situazione speculare si chiama “OSMOSI” ed è una sorta di sdoganamento da parte di quello che c’è da ritrarre perché ci permette di vedere l’aspetto più intimo della loro anima. Così, solo il visionario avrà la chiave d’apertura per poter entrare nel fantastico viaggio… Il modus operandi di G.C. appartiene a quella schiera (pur essendo il suo lavoro molto personale) di artisti che amano il colore corposo, materico.
Un colore che lascia tracce sinuose ben evidenti, trasportate da un pennello che passa e ripassa quasi fosse un aratro che lavora senza sosta nei suoi paesaggi urbani e campestri. Cha da volume a questi ultimi, nonché colore, profumo e spessore alle nature morte e che riesce a infondere uno spirito vitale ai suoi ritratti. Cose che un occhio distratto non sa cogliere.
Tornando al discorso sul colore e osservando i lavori eseguiti, mi rendo conto che G.C. ama profondamente la sua terra da cui trae ispirazione cromatica. Predilige il verde nelle sue molteplici gamme. L’ocra ed il marrone. Il rosso, usato con senso e parsimonia, così come il nero che è quasi inesistente nella sua opera. Inoltre l’azzurro, è accompagnato spesso da qualche colpo di blu. Le masse cromatiche da lui organizzate sulla tela servono a supportare l’andamento lineare e induce l’osservatore nella direzione desiderata. Del resto come ribadito, il nostro abita e vive in una zona (colline Fermane) dove questi colori sono di casa e se sei fortunato all’orizzonte vedi anche il mare. È proprio grazie a queste “nozze chimiche” nasce il lavoro dell’artista e alla fine guardandolo ti accorgi che i colori si incrociano, si spalmano e si fondono ma mai in maniera casuale. C’è della tecnica e della misura in tutto ciò ed è quello che permette di arrivare quasi sempre ad un risultato risolutivo ma mai definitivo. Sì perché, nessuno sa quando un lavoro è finito. Nemmeno l’artista.
Alla fine però come per magia (modus operandi) il risultato è sempre gradevole ed i fruitori non ne possono che godere. Giancarlo è un solitario, un artista che ha bisogno di solitudine per potersi esprimere. Si chiude nel suo studio come un navigatore immerso in un oceano di idee che aggallano nella sua mente, dove basta allungare una mano per prenderle.
Comunque, il nostro, non è sicuramente un improvvisatore. Da peso e misura alle cose che produce scegliendo con dovizia di particolari tematiche di non apparente facile fattura. Sa scegliere con gusto e proporzione i formati dove proporre i propri elaborati e con grande capacità professionale usa forme e colori. G.C. è generalmente un taciturno, impagabile qualità, che lascia solitamente spazio solo all’opera. Una mostra da vedere per tutte le opportunità che ci offre.
A lui auguro una buona continuazione.
Nicolangelo de Sanctis, Sabato 29 ottobre 2022
Giancarlo Cuccù
"Pittura tradizionale e innovativa, quella di Giancarlo Cuccù, che possiede tuttora una voce fresca e coinvolgente, una tessitura cangiante, in grado di trasportare la mente dell’osservatore oltre le immagini percepite dagli occhi, e ricondurlo ad un tempo passato, ad una realtà che non è più tale, ma rivivificata nel ricordo.
Queste memorie sono magma in continua evoluzione che testimoniano della lacerante fatica del vivere, il quale da vibrazione sottesa diviene tumultuosa metamorfosi, coinvolgendo figure, paesaggi, nature morte, in un unico turbinio dinamico di materia in progredire".
Maria Palladino, critica d’arte