Caputo Ulisse

pittore
Salerno, 4 (5) novembre 1872 - Parigi (F), 13 ottobre 1948

Nel 1900 si reca a Parigi e vi si stabilisce.

A Parigi, espone annualmente con diverse opere al Salon des artistes français, finchè nel 1909 si aggiudica una medaglia d'oro, e un'altra se l'aggiudica a Monaco di Baviera nel 1910 .

Nel 1907 partecipa alla VII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con il dipinto: Alle prove.

Nel 1909 partecipa alla VIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con il dipinto: Effetto di notte.

Nel 1910 partecipa alla IX Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con i dipinti: Un concerto all'aria aperta, Le due sorelle.

Nel 1922 partecipa alla XIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, con i dipinti: La diva, "Heroica", Il nastro giallo.


ULISSE CAPUTO

Se parimenti viva immediata e profonda è stata l’influenza che, durante gli ultimi cinquant’anni, l’arte francese ha esercitato sui vari gruppi regionali degli artisti italiani, è in ispecie sui pittori e sugli scultori delle province napoletane che l’acuto particolarissimo fascino di Parigi e della brillante e clamorosa sua vita intellettuale ha agito pel passato e agisce anche oggidì, se pure con forza alquanto minore.

Ciò, del resto, si spiega di leggeri con certa omogeneità che indiscutibilmente esiste fra l’indole de! Napoletano e quella del Parigino e che si appalesa soprattutto nella curiosa miscela di malizia e di bonarietà, di scetticismo e di entusiasmo, di gioconda fanfaronata e di amabile indulgenza, di vivacità ribelle e di filosofico adattamento alle esigenze della vita quotidiana che forma il fondo del carattere di entrambi, in cui, per non so quale miracolo di giusta dosatura e di equilibrio psicologico, doti affatto opposte e quasi ostili riescono non soltanto a stare insieme d’accordo, ma anche a vivificarsi a vicenda.

Ecco perché il Napoletano, non conta poi se nato proprio alle falde del Vesuvio o piuttosto a Caserta. Barletta o Salerno, allorquando giunge a Parigi, dopo avervi già vissuto in anticipazione con la fervida sua fantasia meridionale, vi si trova quasi sempre e a bella prima «à son aise», cosa che accade assai di rado ad un Fiorentino o ad un Milanese, e si lascia indurre il più delle volte a soggiornarvi molto più a lungo di quanto nel partire d Italia erasi proposto e talora decide anche a fissarvi stabile dimora, riuscendo ben presto a conquistarvi simpatie, amicizie ed ammirazioni.

Ecco perché di un Napoletano del Settecento, l’abate Galiani, e di uno dell’Ottocento, Pier Angiolo Fiorentino, si è potuto dai francesi medesimi dichiarare che erano riusciti a pareggiare e quasi a superare, per grazia, per sottigliezza e originale spontaneità di spirito, il più arguto dei Parigini, e di un altro Napoletano. Giuseppe de Nittis, fu riconosciuto, con rara unanimità di giudizio di pubblico e di critica, che aveva saputo, come nessun altro, cogliere e riprodurre sulla tela le caratteristiche più delicate della fastosa vita mondana della capitale della Francia.

Questo reciproco e spontaneo sviluppo di simpatia fra il visitatore e la città visitata ha, d’altra parte, fatto sì che pochi siano stati coloro, fra gli artisti napoletani di verace e vivido ingegno recatisi, dal 1860 in poi, a Parigi pel viaggio diventato di prammatica per ottenere la rivelazione di nuove visioni estetiche e d’ignote tecniche, che non ne abbiano ricavato un qualche vantaggio morale o materiale. Infatti, se un Morelli ed un Altamura, un Gemito ed un Belliazzi ne riportarono un possente impulso spirituale per sviluppare meglio e rinnovare in parte la loro individualità artistica, un Tofano vi ricavò l’ispirazione pel suo quadro più fortunatoEnfin seuls!’ e un Dalbono e un Campriani vi trovarono un largo pubblico di estimatori, nonché gene

rosi e intelligenti negozianti di quadri, che li scritturarono per parecchi anni ad ottime condizioni finanziarie.

Qualche altro, che aveva lasciato Napoli per sfuggire l’imperio intransigente di un illustre caposcuola o, più tardi, l’atonia rattristante e scoraggiante di una scuola pittorica in rapida decadenza e di un pubblico sempre più indifferente verso l’arte, vi rinvenne quel tanto agognato sorriso del successo che gli era mancato in patria o che in patria egli si era forse troppo presto stancato di aspettare.

Fu questo il caso, una quarantina d anni fa per Giuseppe de Nitfis, il quale vi ottenne tutte le più esaltanti soddisfazioni di un glorioso trionfatore della tavolozza, e, in forma molto più modesta, ma non meno schietta, per due eleganti paesisti, Giuseppe Palizzi e Federico Rossano.

Ed è stato questo il caso, negli ultimi lustri, per Lionello Balestrieri. che la medaglia d’oro, assegnata a buon diritto dalla giuria di premiazione dell’Esposizione Mondiale di Parigi de! 1900 al suo quadro ‘Beethoven’, bene ideato, bene composto e bene eseguito, rendeva celebre dall’oggi all'indomani, e per Ulisse Caputo, a! quale il successo è invece arrivato a piccole e misurate tappe, ma non meno sicuramente e non meno meritatamente e senza il tormento di sentirsi ricordare di continuo la prima opera fortunata, quasi come un tacito rimprovero di non essere ancora riuscito a fare meglio.

Più volte ho avuto occasione di parlare, con viva simpatia, del primo ai miei lettori, e come pittore e come acquafortista. Oggi voglio parlare loro del secondo, che varie tele di delicato sentimento e di gioconda ed elegante grazia cromatica, esposte nelle mostre di Venezia, di Roma e di Milano dell’ultimo lustro, hanno incominciato a far apprezzare anche dal pubblico italiano,

Ulisse Caputo nacque a Salerno il 4 novembre del 1872 ed ebbe la ventura non troppo frequente di vedere accolta dalla propria famiglia col più incoraggiante favore la precoce sua vocazione per la pittura. Certo il padre suo, modesto ma assai valente e abbastanza apprezzato scenografo e decoratore teatrale, dovette esserne gradevolmente sorpreso e anche commosso, nella segreta speranza, realizzata poi ad usura dall’avvenire, che al Figliuolo sarebbe stato concesso di elevarsi su quei superiori gradini della scala dell’arte, diniegati a lui dalle esigenze tiranniche della vita, per quanto, con qualche delicato paesaggio, dipinto nelle rare ore di libertà, egli se ne fosse addimostrato non del tutto indegno.

Ulisse Caputo fu adunque affidato alle cure premurose di un certo professore Alfieri di Cava dei Tirreni, artista di vecchio stampo, fanatico pel disegno accademico e insegnante di rigida severità. Costui, ad onore del vero, s'interessò molto al giovanetto e impiegò tanta diligente buona volontà ne! fargli apprendere i primi rudimenti della pittura da rendergli possibile, appena dopo qualche mese, di venire accolto, in qualità di alunno, all'Istituto di belle arti di Napoli. Quivi il Caputo studiò prima sotto la guida del Lista e poi sotto quella del Morelli, il quale, avendo visto per caso un suo disegno a carboncino ed essendosi ad esso interessato, aveva voluto che egli frequentasse la sua classe.

La catastrofe finanziaria, che, a causa di un'industria andata a male, ridusse a mal partito la sua famiglia, costrinse il Caputo a interrompere di colpo il suo corso di studi e a ritornarsene a Salerno. Il padre, che lo amava molto, non volle però a nessun costo che egli rinunciasse alla pittura per dedicarsi, sia anche con più rapido e sicuro profitto, al commercio o alla burocrazia, e, essendo riuscito a radunare, con non piccolo sforzo e non senza sacrifìcio, una sommetta di denaro, gliela consegnò e lo rimandò a Napoli. Bisogna però dire che il giovane Ulisse era rimasto alquanto sfiduciato del! insegnamento che allora s impartiva all Istituto di belle arti, diligente esatto e coscienzioso, ma senza che vi passassero mai quelle vampate di ribelle rinnovazione estetica le quali eccitano ed entusiasmano i giovani e di cui, con tanto vantaggio, aveva sentito il calore la scolaresca di alcuni anni innanzi, che aveva contato nelle sue file un Gemito, un Michetti e un Mancini.

Prima quindi di rientrare all'Istituto o di recarsi piuttosto a Roma, come gliene era venuta la tentazione, egli pensò di domandare consiglio al suo concittadino Gaetano Esposito, il quale, nella schiera dei giovani pittori meridionali, occupava allora uno dei posti più in vista e la cui brillante carriera doveva, qualche anno fa, naufragare così tragicamente nei gorghi della follia e poi sugli scogli del suicidio.

Esposito, con quella semplicità brusca ma semplice e affettuosa di maniere che riusciva a fargli perdonare, da coloro che lo conoscevano bene, le molteplici spine di un carattere oltremodo scontroso e strabiliare, gli propose senz’altro di recarsi a lavorare nel suo studio, prendendo l’impegno di aiutarlo del suo meglio con l’esempio e col consiglio. Caputo accettò con gioia, ma ben presto si dovette accorgere che, per rimanere durante tutta la giornata accanto ad un uomo così rude e nervoso e per sopportarne i frequenti accessi di malumore e gli impetuosi scatti d'ira, ci voleva l'eroica pazienza di un santo, sicché il giorno che, dopo alcuni mesi d ininterrotta comunanza quotidiana, fu obbligato a lasciarlo per adempiere ai suoi doveri di leva, dette un gran sospiro di sollievo. Allorquando però se ne fu separato, non soltanto sentì nel suo animo una profonda e riconoscente tenerezza per lui, ma comprese che un unico e vero maestro egli aveva avuto e era sfato l’Esposito, poiché, oltre ad avergli rivelato più di un utile segreto di tecnica, avevagli inculcato il principio essere la pittura fatta sopra tutto per la gioia degli occhi e gli aveva insegnalo, più forse con l’esempio che con la parola, che l’artista non si deve mai accontentare facilmente dell’opera propria e deve tentare e ritentare di continuo prima di credersi giunto alla meta prefissasi nella mente e che, d’altronde, il lavoro anche più lento e penoso lo si deve affrontare con risoluta e serena pertinacia da chiunque abbia profondo il rispetto per farle e ami davvero il suo nobile sogno.

Due quadri, esposti dal Caputo alle annuali mostre della Promotrice napoletana e dell’Accademia di Brera a Milano,Dopo la sonata’ eAndante appassionato’, benché non privi di pregi e benché rivelanti già qualcuna di quelle che in appresso diventar dovevano le doti più spiccate della sua peculiare personalità, passarono quasi del tutto inosservati. Egli se ne attristò e se ne indispettì, tanto da prendere la decisione di allontanarsi dalla patria per cercare fama e fortuna all’estero. Fu così che nel 1900. indottovi anche da! gran parlare che. in quel giro di tempo, si faceva in Italia dell’esposizione mondiale francese e dalla facilità di conoscervi tutte in una volta le più svariate manifestazioni dell’arte contemporanea, si recò a Parigi e vi si stabilì, disposto ad aspettarvi il successo di piè fermo e senza impazienze.

Egli, infatti, come del resto accade dal più al meno a tutti i giovani artisti che vogliono vivere all’estero e non posseggono un borsellino ben fornito, non soltanto dovette adattarsi a sopportare ogni sorta di privazioni materiali e di disappunti morali, ma rassegnarsi anche a eseguire instancabilmente, durante varie ore del giorno, figurini di moda, cartoline illustrate e altri simili lavoretti d’ordine affatto mercantile. La sua perseveranza e la sua serenità furono, però, ricompensate. La lunga serie di quadri da lui esposti annualmente al «Salon des arfisfes français» e poi ad alcune importanti mostre straniere richiamarono, a poco per volta. L’attenzione del pubblico, accesero le discussioni dei confratelli d'arte e gli procurarono lodi sempre più lusinghiere dalla critica, finché una medaglia d’oro conquistala nel 1909 a Parigi e un’altra a Monaco di Baviera nel 1910 dettero una doppia sanzione ufficiale alla sua sempre più larga notorietà artistica.

Un senso del colore, schietto e spontaneo nella sua squisita vivacità, che se talora appare di una piacevolezza alquanto superficiale, ha saputo, però, riuscire più di una volta audace nelle volontarie dissonanze e nelle violenti opposizioni di luci; una ricerca assidua accorta e assai felice di quella complessa composizione del quadro, che per parecchio tempo è stata fin troppo trascurata dai nostri giovani pittori; una curiosità indagatrice e agilmente rievocatrice delle scene più interessanti e degli aspetti più significativi della vita infima di famiglia e di quella mondanamente elegante della vita dei caffè, delle trattorie e dei teatri di una grande città moderna: un’espressiva e acuta intensità di sentimento e di fantasia: ecco le doti essenziali, che, ora separate e ora aggruppate e armonizzate insieme, caratterizzano l’opera di pittura, abbastanza varia e abbastanza numerosa, di Ulisse Caputo. Sono esse che soprattutto ne costituiscono l’originalità, la quale, emancipandosi, perfezionandosi e raffinandosi col trascorrere degli anni, è diventata sempre più personale, più persuasiva e più seducente.

Queste sue doti le si ritrovano già, sia anche in germe, nelle sue prime tele, perché ciò che proprio contraddistingue la produzione del valente laborioso e coscienzioso pittore salernitano e la fa degna di singolare encomio, è una quasi ininterrotta linea di continuità d’ispirazione.

Per persuadersene basterà ricordare che tanto i quadri da lui esposti dal 1897 al 1901 a Milano, Napoli e Parigi, coi titoli ‘Dopo la sonata’, ‘Andante appassionato’ e ‘A teatro’, quanto quello esposto nel 1912, con vivo successo, prima a Monaco di Baviera e poi a Parigi, col titoloLa sinfonia’, quanto il più recenteL’Eroica’, sono stati suggeriti al Caputo da una delicata e poetica impressione musicale, che egli è riuscito a esprimere, con mirabile efficacia figurativa, sia nell’impeto febbrilmente movimentato dei musicanti che suonano e del direttore d’orchestra che li dirige, sia nella psicologica esaltazione e ne! rapimento estetico dei volti e delle pose degli ascoltatori.

Le tele di soggetto musicale e le altre in cui egli ha ritratte, con disinvolto pennello, le eleganze femminili delta Parigina dei giorni nostri e i giuochi di luci ed ombre delle sale dorate dei teatri, delle birrerie e dei caffè-concerti sono certo le sue più personali, perché, mentre in alcune di esse la precisa ed arguta osservazione della vita reale nei suoi brillanti aspetti mondani e lo studio sottile degli effetti luminosi, le allontanano dalla banalità artificiosa del quadro di genere a cui parrebbero condannate dai soggetti prescelti, in altre invece alla gioia affatto sensuale del colore si aggiunge, siccome giustamente osservava tempo fa un acuto critico francese, il riflesso glorificatore di un pensiero o di una sensibilità.

È soprattutto come elegante evocatore della grazia e della leggiadria muliebri e come colorista abile e brillante che egli si afferma nella serie, in particolar modo gradita a! pubblico, di figure di bimbe, di signore e di signorine, presentate nell’intimità dell’ambiente domestico, fra le quali piacemi di qui ricordare ’L’Inglesina’, ‘La tazza di thè’ e ‘La piccola Bretone’. In esse, però, s’intravede già l’inevitabile sopravvenire de! manierismo, tanto nell’uggioso ripetersi di certi accordi e di certi contrasti di tinte e nel ricomparire petulante di alcuni minuti particolari decorativi quanto nell’importanza, sempre più scarsa, datavi alla figura umana in confronto a una chicchera di porcellana, a una lampada da! paralume di lacca rossa e di seta dipinta, a un vezzo di perle, o a uno specchio dalla massiccia cornice dorata.

E, per di più, vi fa capolino, l’influenza imperiosa che i virtuosi del pennello della scuola nord-americana hanno esercitato, dopo il trionfo ottenuto all’esposizione mondiale del 1900, così sul Caputo come su varii altri dei pittori che vivono e lavorano a Parigi.

E forse per tale ragione che alla maggior parte delle opere di questo gruppo, malgrado che tutte riescano gradevoli all’occhio per lieta leggiadria cromatica e per facile amabilità d invenzione, io preferisco alcune minuscole vedute, in cui Ulisse Caputo ha saputo ritrarre, con rara grazia di visione impressionistica, il fascino languidamente luminoso dei cieli grigi o violacei di Parigi, specchiantisi nelle acque lente della Senna.

VITTORIO PICA - Luglio 1915. (1923 - Vittorio Pica, Ulisse Capito, in: Nel Mondo delle Arti Belle, Serie Prima, ..., con 174 illustrazioni, Milano, Bestetti e Tumminelli, pp. 96/113).


Bibliografia:

1907 - VII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 92.

1907 - Settima Esposizione Internazionale d'Arte in Venezia, Fascicolo Primo, Pubblicazione dell'Illustrazione Italiana, p. 21.

1908 - Eugenio Vitelli, L'Arte alla VII Biennale di Venezia, Torino, Soc. Tip. Editrice Nazionale, p. 51.

1909 - VIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 30.

1909 - Guido Marangoni. VIII esposizione Internazionale di Venezia. Pittori Italiani, Milano, Natura ed Arte, anno XVIII, n. 23, 1° novembre, pp. 730, 732.

1910 - IX Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 151.

1922 - XIII Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo mostra, p. 77.

1922 - XIII Esposizione Internazionale d’Arte della Città di Venezia, Numero speciale della Illustrazione Italiana, Milano, Treves, supplemento al n. 31 del 30 luglio, p. 32.

1923 - Vittorio Pica, Ulisse Capito, in: Nel Mondo delle Arti Belle, Serie Prima, ..., con 174 illustrazioni, Milano, Bestetti e Tumminelli, pp. 96/113,

Leggi tutto