Nato a Roma il 30 di ottobre del 1836 dal valente miniaturista cadorino Silvestro Boito e dalla intellettuale contessa polacca Radolinski, il futuro presidente della Accademia di Brera, pellegrinò nei suoi primi anni, per molte città italiane, educandosi all’amore ed al gusto del bello. A Firenze il tesoro artistico meraviglioso, a Padova (ove nacque Arrigo Boito a completare il binomio magnifico di agile e potente proteiformità di facoltà artistiche) nella contemplazione delle opere di Giotto, di Donatello e del Mantegna e finalmente a Venezia, dove frequentando lo studio del Caffi, celebrato pittore prospettico ai suoi tempi, Camillo Boito venne affinando colla coltura le sue innate disposizioni all’arte.
Quando il marchese Selvatico, benemerito restauratore degli studi artistici nelle regioni venete, si propose di integrare i suoi nobili sforzi organizzando un insegnamento razionale e metodico dell’estetica, assegnò al Boito allora appena diciannovenne, una cattedra di composizione architettonica all’Accademia Veneziana. E fin da quella età giovanile, l’improvvisato professore dovette comprendere come nella cattedra fosse lo strumento più adatto alla sua fervida natura di apostolo del bello: vi si dedicò con tutto l’amore e con tutte le forze e non lo abbandonò che per completare a Roma, a Firenze ed in Sicilia gli studi sul medioevo italico. Nel 1859 le persecuzioni della polizia austriaca (mal tollerante ch’egli, tornato a Venezia alle prime voci di guerra, partecipasse alle cospirazioni) lo costrinsero ad abbandonare la laguna e cercar rifugio a Milano. Ove ottima occasione gli si porgeva di raccogliere l’eredità e l’esempio austero dello Smidt, l’architetto viennese che copriva allora a Brera il posto tenuto per primo con tanto onore, da Giuseppe Piermarini. Quando la cacciata degli austriaci da Milano obbligò lo Smidt a tornarsene a Vienna, il Boito venne chiamato a succedergli.
E cominciò allora, a ventiquattro anni l’opera vasta e complessa, a vantaggio dell’arte costruttiva italiana, opera così feconda di risultati e di benemerenze chiusasi da pochi mesi colle improvvise dimissioni di Camillo Boito da quella cattedra che aveva tanto illustrata per quasi 48 anni e dove la ammirazione generale lo augurava - sempre valido e giovane campione - per lungo tempo ancora.
Nel 1892, ricorrendo il trentennio d’insegnamento del Boito, gli allievi organizzarono una simpatica festicciola in suo onore, raccogliendosi numerosi intorno all’antico maestro e regalandogli ognuno il disegno di una propria opera in un artistico cofano. A quella riunione simpatica, dissero i diffusi sentimenti di riconoscenza, in nome di tutti, l’architetto Seveso che fu il primo allievo del Boito e gli è maggiore d’età, e l’architetto Diego Brioschi, ultimo licenziato dalla scuola. In tutti era viva la speranza di ripetere le onoranze in forma più grandiosa nell’occasione del cinquantennio di insegnamento. Ma il Boito naturalmente schivo di tutte le dimostrazioni clamorose, volle sottrarsi al giusto desiderio degli allievi e parve voler eludere ogni forma pubblica di onoranza, ritraendosi dalla cattedra un paio d’anni prima dell’atteso cinquantennio.
Ciò non impedì ai discepoli di compiere quello che essi giudicano un dovere collettivo. E tale dovere si concreterà in questi giorni colla presentazione al Boito di una superba medaglia d’oro coniata in suo onore, come testimonianza dell’affetto dei propri allievi opera pregevolissima dello scultore Luigi Secchi fusa colla solita bravura sottile dallo stabilimento Jonhshon.
Parallelamente all’opera di professore, Cannilo Boito venne svolgendo anche una benemerita attività di architetto.
Il palazzo delle Debite eretto in età ancora giovane a Padova, il restauro della cappella del Santo e dell’altare di Donatello, la elegante facciata romanica e lo scalone del Museo d’antichità, l’edificio delle Scuole alla Loggia Carrarese nella stessa Padova, lo scalone magnifico di Palazzo Franchetti a Venezia nel quale il Boito ebbe il campo di sfoggiare il suo esuberante e leggiadro senso decorativo, il superbo mausoleo dei Ponti, il Cimitero e l’Ospedale a Gallarate, l’edificio scolastico di via Galileo a Milano e finalmente la Casa di Riposo pei musicisti fondata da Giuseppe Verdi, attestano nel Boito una gagliarda personalità di artista, un valore indiscutibile di architetto ed esprimono una estrinsecazione logica e pratica delle idealità ampie ed ardite che ebbero il Boito assertore per quasi cinquant’anni dalla cattedra di Brera.
E nella professione avrebbe certo raggiunto maggior gloria e soprattutto più largo guadagno ove non avesse preferito nella sua coscienza e nella sua abnegazione d’artista, di raccogliere le forze nel compito meritorio di educare e guidare le sboccianti energie dei giovani.
Dalle opere architettoniche del Boito, come nelle sue lezioni appare chiaro l’ideale estetico onde si lega tutta l’opera sua. Anzi, se nella scuola era costretto spesso ad occultarlo per non deprimere le singolari tendenze dei discepoli, nel lavoro d’architetto lasciò libero ogni slancio anche all’ intimo suo sogno: quello di risollevare ad onore l’architettura medioevale interpretandola con larga libertà di inspirazione, e adattandole abilmente alle mutate esigenze della vita sociale.
E finalmente, pur fra le gravi fatiche di professore e di architetto, Camillo Boito trovò modo di integrare il suo vasto apostolato con la produzione del critico e dello scrittore.
Esordendo giovanissimo nel campo della letteratura amena con un volume di Novelle sparse le quali si rileggono con piacere ancora oggigiorno, in tanta evoluzione di gusti e di scuole letterarie, il Boito abbandonò subito le lettere attratto dalle maggiori cure della professione e della cattedra. Ma si ricordò sempre di essere letterato per nutrire di squisita e fiammeggiante eloquenza le sue lezioni (colle quali innamorava dell’arte i discepoli) e per rendere attraenti e piacevoli i libri dedicati alla trattazione degli argomenti scientifici ed artistici.
In una prefazione rimasta celebre, il Boito notava come l’architettura fosse l’arte più noiosa a sentirne a parlare, poiché nella sua nomenclatura ha in sé qualcosa del freddo e del duro dei suoi graniti, del suo ferro, delle sue pietre e dei suoi mattoni. Questa affermazione si direbbe pronunziata per essere giocondamente smentita dagli scritti del Boito, che si fanno leggere e rileggere collo splendore della forma, la vivacità dello stile, la grazia colla quale sono affrontate e dibattute le più aride questioni architettoniche
Le pagine dedicate al Duomo di Milano hanno sprazzi di vera e profonda poesia evocatrice, quelle sul Sant’Abbondio di Como, modestamente dettate in forma epistolare e in dialoghi arguti, sono chiare del fascino letterariamente spumeggiante e nervoso della prosa più agile e saporita.
E le sue Gite di un artista attraverso alle maggiori città d’Italia, per la Baviera, la Germania e la Polonia, non hanno la freschezza delle migliori pagine di Deamicis unita ad una profonda vastità di dottrina? Nulla è pesante e dottrinario nei libri di Camillo Boito. Ch’egli tratti con profondità di analisi le origini dell’architettura in Sicilia, o disserti sulle ornamentazioni dei vaia stili, o illustri il restauro della chiesa del Santo, od insorga contro i tricupidalisti in fregola di sconciare Santa Maria del Fiore,
il suo discorso zampilla sempre arguto, limpido e spontaneo, scevro di ogni posa pedante, rifuggendo da tutti i termini tecnici ostici e complicati per adattarsi a tutti i lettori. Il Boito è un magnifico popolarizzatore di concetti estetici e non poco dell’improvviso ed insperato risveglio di pubblico interesse alle cose dell’architettura è dovuto alla sua abile propaganda di scrittore.
Alle molte pubblicazioni il Boito ne ha recentemente aggiunta una delle più preziose: quella ch’egli dirige da qualche anno, dedicata all’arte ornamentale e decorativa. Così il suo scopo di democratizzare la bellezza, rivelato dapprima coll’aprire lo studio dell’arte architettonica anche agli umili artigiani dello scalpello e della cazzuola (il povero architetto Armenini, usci dalla scuola del Boito e da quello del Moretti diventato degno collega e successore del Maestro, dopo avere fino a giovinezza inoltrata compiuta modesta opera di scultore in legno) si completa in questa volgarizzazione della bellezza fra gli artigiani, gli eredi di quei maestri milanesi campionesi, comacini, che hanno riempito del loro genio e delle loro creazioni tutto il medioevo architettonico.
I sentimenti di democrazia si esprimono meglio ed in forma più tangibile colle azioni che non colle vane e reboanti parole.
L’antico rigido presidente della Costituzionale milanese, dimessosi per non prestarsi alle manovre opportuniste del trasformismo di Agostino Depretis, afferma in queste sue acute preoccupazioni di portare l’arte alla comprensione ed a contatto della folla, dei concetti di modernità che invano cerchereste nelle azioni di molti democratici… di vociferazione.
L’opera intensa ed illuminata di Camillo Boito si integra e si completa colla partecipazione ch’egli ebbe alla trattazione ed alla soluzione dei maggiori problemi artistici sorti in Italia dal 1860 ad oggi. La sistemazione della piazza del Duomo a Milano lo ebbe progettista e consigliere acutissimo; gli archi di Porta Nuova minacciati di demolizione trovarono in una relazione del Boito la più efficace difesa e gli debbono la salvezza contro le insidie del piccone; le chiese di S. Marco a Venezia, la basilica del Santo a Padova, il duomo di Firenze, al consiglio ed al lavoro febbrile del professore di Brera vanno debitrici dei restauri sapienti e della loro rinascita nella fulgida bellezza antica.
Quando il Boito, colle dimissioni anticipate di fronte al pericolo di un solenne giubileo cinquantennale parve voler sfuggire al frastuono delle feste ufficiali e volle limitate le onoranze di questi giorni alla semplice attestazione di affetto reverente dei discepoli, quel suo gesto venne interpretato come atto di modestia eccessiva. Io vedo invece in quel gesto lo sdegnoso e legittimo orgoglio del Maestro rifuggente dalla volgarità delle celebrazioni ufficiali.
Disse Schlegel che l’architettura è una musica cristallizzata. Certo è una cristallizzazione di bellezza e di sogno. E il presidente dell’Accademia di Brera ben può rinunziare alle vane pompe glorificatrici dal momento che la sua maggior soddisfazione egli trova nel contemplare le opere sorte dalla sua mente, destinate a perpetuare nel granito, nel marmo, nelle linee possenti ed aggraziate, il suo nome e la sua visione.
Ed accanto a quei figli della sua fantasia gli allievi hanno fatto sorgere tutto un popolo di nuovi edifici, nei quali il Maestro vede i segni della sua progenie intellettuale, i validi nepoti che continuano l’opera di rinnovamento e di conquista.
Il sogno diventa realtà, le temerarie speranze assumono forma e gioia di vittoria. L’architettura novella non è ancora, ma diviene col lento passo che il maestro saggiamente profetizzò.
Ecco il premio vagheggiato e raggiunto.
L’intimo tripudio dell’artista nel constatare il trionfo della fede per tanti anni serbata e perseguita cogli sforzi quotidiani non può essere superata dalle lusingatrici conclamazioni della pubblica onoranza.
Queste trombe sonore della fama nelle quali noi soffiamo il nostro entusiasmo, nulla possono aggiungere alla gloria ed alla infinita gioia del maestro. Offrono però a noi la soddisfazione di un grande dovere di riconoscenza liberamente e sinceramente compiuto.
Guido Marangoni.
Bibliografia:
1909 - Guido Marangoni. Un maestro di architettura. Mentre gli allievi festeggiano Camillo Boito, Milano, Natura ed Arte, anno XIX, n. 9, 5 aprile, pp. 650/663.