Boffa Tarlatta Luigi

pittore
Rialmosso (BI), 14 luglio 1889 - Rialmosso (BI), 24 novembre 1965

Nato nel 1889 a Rialmosso di Vallecervo, frequentò l’Accademia di Belle Arti di Torino dal 1906 al 1912, vincendo per tre anni consecutivi le borse di studio per la pittura.

Professore all’Accademia Albertina dal 1919 al 1925, fu anche all’estero, dove visitò le principali capitali europee. Approfittò quindi dei suoi viaggi per far conoscere la sua pittura anche al di fuori dei confini italiani ed espose principalmente a Lima, nel Perù. Sue opere si trovano, oltre che nell’aula parlamentare di quella città, anche in importanti collezioni a Bogotà. Ottenne, per la rinomanza che la sua pittura conseguiva in molti paesi, premi e distinzioni in mostre nazionali ed estere.

Trattava principalmente la figura e il ritratto, senza trascurare paesaggi, sempre però popolati di figure di uomini e di animali. Molto noto per questa sua autentica specialità, fece la spola dal Biellese a Torino e per realizzare nelle varie città del Piemonte, ritratti di autorità e di privati.

Cresciuto alla scuola di Paolo Gaidano, di Giacomo Grosso e di Cesare Ferro l’artista è quotato fra i nostri maggiori maestri del colore.

Nato a Rialmosso (nell’alto Biellese) paese di rudi montanari, egli è un pittore gentiluomo e aristocratico. E tale sua natura egli rivela in ogni estrinsecazione della sua arte sia nel ritratto Mia Madre, che gli ottenne la medaglia d’oro a Firenze (1919), sia nell’opera Canto triste di una maschera, che fu premiata con medaglia d’argento dal Ministero della Pubblica Istruzione, come nella colossale tela I lavoratori, che ottenne la medaglia d’oro all’Esposizione di Lima e che ora adorna l’aula del Parlamento del Perù, insieme ad altri due capolavori: Confiteor e Barche pescherecce.

Alle sue opere che ottennero il plauso unanime della critica e del pubblico e che lo fanno annoverare fra quegli eletti che pur rispettosi delle sacre tradizioni, che tanta gloria addussero al nostro Paese, per merito dei grandi che lo hanno preceduto, cercano vie non battute, con dignità e con originalità sono: Il viveur, L’Avv. Sciolla, Il violinista, Le Ceneri, I cantori, La pipetta, Ragazza inquieta, Madonnina, Visione di donna, Danzatrice stanca, Ritratto di Mons. Pietro Sgarzini, Festa e processione al Santuario, Ricreazione al castello, Ritorno dalla festa sul lago, Donne in Chiesa, Acquaiola fiorentina, Antica razza. Opere piene di umanità, di sentimento, di poesia e di espressività, robuste ed insieme delicate, magistralmente studiate e finemente fissate sulla tela, che non solo rilevano la sua personalità artistica ma ne mettono anche in luce la sensibilità dell’animo, la profondità del pensiero, l’inconfondibile genialità.

Vanno ricordate pure del Boffa Tarlatta le grandiose decorazioni del Duomo di Monticelli, che furono molto lodate, e in genere le visioni serene della Valle d’Oropa che, per essere quelle del paese natio, vibrano di un palpito intenso di commozione e rivelano tutta l’anima dell’artista, attaccato più alla sua terra, come le più suggestive d’Italia.

Ma inoltre del Beffa Tarlatta non possiamo passare sotto silenzio l’opera durante la guerra e nell’immediato dopoguerra. Combattente ardito, come tutti quelli della sua provincia di Vercelli, egli fu a fianco di Gabriele D’Annunzio nella tormentata epopea fiumana, e questo non è piccolo titolo di gloria perché chiaramente dimostra come questo italiano, che ha sparso un centinaio di opere in varie collezioni del Perù e che in quelle lontane contrade ha reso, ancora più conosciuto ed onorato il nome della Patria, sa mettere da parte i pennelli e la tavolozza per sacrificarsi al più alto ideale.

Il consenso unanime della critica, il favore con cui tutta la sua grande opera è stata giudicata, superando le più severe esigenze degli esperti e degli intenditori, premiava il travaglio insonne di quest’uomo che visse intensamente e realizzò il suo sogno d’arte.


Luigi Boffa Tarlatta - Senza vane od interessate lodi o turibolate, intendo parlare del pittore Luigi Boffa Tarlatta nato a Rialmosso, in quel di Biella, il 14 luglio 1889, vero temperamento di pittore nato che, come tanti altri, s’è appartato nella missione dell’insegnamento lasciando libero il campo a quei molti giovani e sedicenti giovani che, fatti arditi - chi dall’effettiva e irriflessiva giovinezza, chi dalle compiacenze delle consorterie -, assaltano e monopolizzano l’effimer ocampo della nomea immediata e, purtroppo, anche quello dell’arte redditizia.

Formatosi anche lui in quell’Accademia Albertina donde uscirono tanti altri valorosi, fra cui Paolo Gaidano, Giacomo Grosso e Cesare Ferro che gli furono maestri, si diplomò nel 1914 (vi era entrato nel 1908), e, nella stessa Accademia, - cessata la grande guerra cui prese parte col grado di sergente, distinguendosi per personali azioni a Monfalcone che gli valsero un encomio solenne, - vi rientrò come professore di prospettiva scenografica e teoretica insegnandovi dal 1918 al 1922. Tenace, come tutti i suoi conterranei, nel lavoro e generoso nei propositi,l’animo aperto a ogni nobile impresa, prese parte alla gesta fiumana compiendo la Marcia di Ronchi che tagliava con l’ala della poesia e il filo dei generosi pugnali dei legionari il nodo gordiano in cui la diplomazia aveva avvolta la città olocausta, e durante le giornate in cui visse nella città antesignana dell’italianità dalmatica, eseguì disegni per Gabriele D’Annunzio.

Dopo il 1922 si dedicò completamente alla professione libera e all’insegnamento privato in cui tuttora continua educando egregiamente, a uno schietto intendimento dello studio dell’arte e di quali sono i suoi superiori ed immutabili fini, i giovani che hanno la ventura di averlo a maestro. Se accenniamo ancora a un lungo e laborioso soggiorno nell’America del Sud e principalmente nel Perù, abbiamo esaurito quella biografia sintetica necessaria per il grosso pubblico.

E poiché la vita di un artista, più che negli episodi comuni a tutti gli animali sublunari e quindi anche agli artisti, si riflette nella sua opera e in quella si identifica e da quella trae la sua ragion d’essere, passiamo a parlare, o meglio, a scrivere della sua attività nel campo dell’arte. Andando per la maggiore si potrebbe senza altro dire che il Boffa è soprattutto un solido ritrattista come il suo grande maestro di Cambiano, aggiungendo che pur avendo derivato da quello la sicurezza costruttiva e la poderosità disegnativa, vi ha aggiunto una sua calda ed espressiva nota personale che forse manca nel maestro inteso più alla magnificenza pittorica che non all’interpretazione spirituale dei soggetti. Ma non ci sentiamo di passar sotto silenzio i suoi quadri di paesaggio e le sue composizioni ed i suoi affreschi. Anche nei paesaggi che in altra sede, molti anni addietro, scrivendo di un’esposizione di nove artisti, fra cui il Dogliani ed il Reycend, definimmo come una rivelazione, ché prima lo conoscevamo quasi esclusivamente come figurista, egli riesce personale e maggiormente quando ferma sull’assicella i profili della sua sana e laboriosa terra biellese.Della sua attività di affrescatore, ci piace ricordare le figurazioni create per l'Edicola Rissone nel camposanto di Biella. Dentro un tempietto di sobria e dignitosa architettura, cui le imposizioni catastali non permettono di adergere maggiormente l’ali che potrebbero aspirare a più alti voli, egli ha saputo trarre, pure in condizioni anguste,opere di vera arte, che richiamano alla mente gli antichi affrescatori, non coerciti da limitazioni di spazio e da decreti municipali. Là dove vive il poema eterno della morte,accanto al tumulo dell’umile, ove il coccio riempito di fiori rappresenta la pietà dei sopravvissuti, e non è inferiore - idealmente - al mausoleo di vaste proporzioni, la limitazione burocratica dello spazio è una nota stonata che contrasta con l’industre sviluppo di una plaga non avara di artisti, di mercatanti e d’artieri che impressero ed imprimono solchi vitali nella Nazione. Contro allo sfondo magico delle vigili montagne, cantate in versi non perituri dal giureconsulto poeta Giovanni Camerana, la lunetta affrescata dal Boffa, simboleggiante il trionfo universale della Croce di Cristo, figura degnamente. La Croce sovrastante le acque, le piante stilizzate che la circondano, la raggiera di luce che da essa si diparte e si diffonde nei lontani orizzonti, dicono chiaramente come egli sappia fondere in sé la fede nella religione e quella nell’arte e trarne quelle possibilità che danno al lavoro eseguito vitalità e poesia, e, all’occhio dell’osservatore, un senso di rassegnazione serena e di speranza pura.

Entrando nell’edicola, prima di volgere lo sguardo al soffitto, dove i cieli concentrici fatti di raggiere azzurre ricordano i cieli danteschi dei beati, ciò che colpisce l’occhio è la scena della Deposizione. Nello sfondo il Golgota e Gerusalemme; più avanti le porte della città santa; nel primo piano il Cristo circondato dalle Sante Donne

che coll’aiuto del pio uomo d’Arimatea lo deposero. Qui il pallore delle carni del Cristo, l’incarnato delle Marie sul cui volto è palese l’angoscia infinita, fa degno riscontro coll’affresco che sta di fronte raffigurante la Resurrezione. In ambedue le opere sono rimarchevoli la morbidezza dei drappeggiamenti, la cura sottile nel rendere le mani pietose che, più che d’una bisogna terrena, paiono incaricate d’una bisogna celestiale, e non meno notevole è la ricerca dei blu carichi e delle luci violente che danno alle figure una vitalità emotiva e drammatica ed al contempo spirituale che ben s’addice alla soavità dei paesaggi orientali che fanno da sfondo. Il marmo verde che fascia lo zoccolo interno, è severa ed armonica cornice alle figurazioni dell’epopea del Nazareno. Sopra alla porta, di fronte alle targhe marmoree destinate per le epigrafi, una teoria di angeli, illuminata da una lampada che il Boffa ha reso egregiamente, pare vegliare sui frali delle creature, e diffondere su di essi la luce inestinguibile della speranza. Questa apoteosi della fede che, ai confini della vita, maggiormente alimenta della sua fiamma le creature che d’essa nutrirono il loro spirito, è stata eseguita dal Nostro con quella semplicità che solo i virtuosi sanno raggiungere, attraverso le difficoltà non lievi che la pittura a fresco comporta. Riguardandola, affiora alla mente il nome del Beato Angelico. Non si gridi all’esage-razione: le opere concepite ed eseguite silenziosamente, con passione d’arte e luce di fede, non possono non richiamare - qualunque sia il loro conseguimento - le opere dei grandi delle quali sono non indegne continuatrici.

Sempre nel campo della pittura murale sono da ricordarsi ancora le decorazioni nel Duomo di Monticelli e i restauri nella sala d’aspetto della stazione di Torino,restauri dove seppe conciliare il suo temperamento con quello del Gonin il quale, pur avendo al suo attivo le deliziose e ottocentesche vignette dei Promessi sposi, non si peritò di affliggere le pareti della sala d’aspetto torinese con macchinose figurazioni mito-zoologiche. E sia nel penoso e faticoso restauro di queste, sia in quello delle decorazioni di Pietro Orsi che le completano, il Boffa diede prova della sua perizia.

I paesaggi del pittore di Rialmosso richiamano alla mente due frasi Fontanesiane.

Scriveva il grande paesaggista: Bisogna farsi ingenui davanti alla natura, che non ama i furbacchioni - Il motivo più bello è più dentro di voi che fuori di voi. Se guardiamo i paesaggi di Boffa: portali isolati; scorci di montagne; vie montane; absidi e facciate di umili chiesine; visioni Oropee animate qua e là di figurine di religiose e di fedeli ottenute con qualche sapiente macchia, ci convinciamo che egli sa accompagnare alla perizia dominativa degli strumenti e alla virtuosità tecnica, una fresca ingenuità di sensazione che lo porta a riprodurre con altrettanta freschezza la visione che ha interessato il suo occhio esperto. Rinunciando ad enumerare i numerosi paesaggi - il che costituirà il compito di una completa monografia della sua multiforme opera -, ci limitiamo a ricordarne qualcuno: Motivo medievale, di ambiente biellese, dalla sicura prospettiva (1919); Notturno Fiesolano, dove su una figura ferma al sommo d’una stradicciuola prospiciente un portale colonico è diffusa quella notturna chiarità azzurra propria delle notti toscane; Estremo conforto, scena di viatico nel casolare che ricorda il motivo analogo trattato da Pelizza da Volpedo, dove suggestive seppure indefinite sagome umane emergono fra un efficace chiaroscuro (1917); L'arrivo nella cappella per la messa, motivo montano sicuramente tagliato dove una piccola folla di fedeli che segue un rustico pievano vive sotto un cielo tormentato (1917); Rustico, scena dell’alto biellese, bravamente eseguita a spatola, animata da qualche figurina, nella quale si respira l’aria degli alti pascoli; Chiesetta di alta montagna, visione di una chiesa romanica nel saluzzese (1913): Alba nel parco(1919), eseguito a Lessona, sempre nel Biellese, paesaggio di tonalità fontanesiana su cui campeggia - fra gli alberi del pic-colo piazzale - una figura d’anacoreta rivolta verso il cielo ampio. Un campanile in distanza dà la misura della profondità dell’orizzonte; sotto il muricciuolo si «sente» la vallata.

Delle composizioni, altro ramo in cui il suo pennello si indugia a narrare con comprensività e avvedutezza, ricordiamo I lavoratori, vasta tela premiata con medaglia d’oro all’Esposizione di Lima nel Perù, che ora adorna l’aula del parlamento in quella capitale; Donne in chiesa (1922), acquistato dal Museo Civico di Novara; Confiteor (1913 - Museo di Lima, Perù), mistica composizione che raffigura un vecchio monaco fra gli stalli del coro, dal viso e dalle mani elaboratissimi, figura faustiana cui s’addicono i versi pensosi di Arturo Graf:

Vota è la chiesa; tra le scarne dita / Fra Benedetto snocciola il rosario; / Il martire contempla del Calvario, / Ricorre col pensier la propria vita.

Accennato a Ricreazione nel parco (1926), dove nudi di giovinette spiccano sul fondale azzurro cupo del parco, ricordiamo ancora Festa e processione al Santuario (1925). È questa una composizione grandiosa la cui laboriosa preparazione vediamo attraverso gli studi Ragazze festose. Cantori e Porta cero, che hanno figurato a parecchie esposizioni. Nell’armoniosa e sentita visione, ispirata dai santuari della sua terra natia, si respira veramente quell’aria di festività propria dei paesini e delle umili popolazioni alpestri. Nella processione che esce dal tempio, sullo sfondo dei monti cari al Delleani si ravvisano figure care al Michetti del Voto e al Pelizza della Processione, e il fatto di ravvisarle non significa riconoscere plagio ma semplicemente affinità di sentire e comunanza di ispirazione. In questo quadro il Boffa eleva un inno di colore e di poesia alla sanità della sua terra, alla viva ed ingenua fede de’suoi conterranei, e attraverso la virtuosità dell’esecutore che non infirma od infrena la vena creativa, è palese l’anelito del figlio verso la terra madre, dove lo sguardo spazia su sconfinati orizzonti su cui si stagliano solenni montagne.

Della sua attività di ritrattista che, come abbiamo detto più sopra, è la sua precipua, vorremmo dire a lungo, ché in quella si manifesta appieno la sua personalità. Poiché il solo elenco de’ suoi numerosissimi ritratti richiederebbe intere pagine, accenneremo ai principali. Anzitutto Mia madre (1919), autentico capolavoro. Non possiamo esimerci dal ripetere a proposito del Boffa ciò che abbiamo detto di altri, e cioè, che quando un artista schietto si ispira alla madre, motivo sempiterno e sempre attuale, non può non far opera vitale. Per questo come per gli altri ritratti non è il caso di fare il solito sfoggio di terminologia tecnica a base di impasto di colori, di pennellata larga o sobria, di solidità disegnativa, di somiglianza somatica e di interpretazione psichica. Davanti alle opere d’arte sentite e inseguite il giudizio del critico vale altrettanto come quello dell’umile profano che si limita a dire «questo mi piace». Ed i ritratti del Boffa piacciono all’aristarco e al bifolco. Nella serie dei ritratti rientra la vigorosa testa del quadro intitolato Vecchia razza, solida figura di vegliardo biellese dal viso sottile e caustico, dalle mani nodose, avvolto il corpo segaligno in un ampio panneggiamento che gli conferisce alcunché di ieratico (1925); ancora fra quelli si può annoverare La Bibbia (1927), figura di vegliardo intento sul sacro testo, efficacemente illuminato, acquistato dalla Promotrice di Torino, e Visione muliebre (1924), figura femminea illeggiadrita da un ventaglio e dalle trine, beltà semplicemente umana, non sgargiante, con accanto un’anfora colma di fiori. Né possiamo tacere del Canto triste di un Pierrot (1923), poderosa maschera di dolore maggiormente evidente sotto il paludamento carnevalesco, rivelante l’acuto studio dei tendini e delle muscolature, i cui occhi doloranti contrastano con la pacata espressione del Fumatore, la cui tipica faccia esprimente la voluttà senile è attraversata da una festa di luci e di ombre che ricorda i fiamminghi (1925). Accanto ai ritratti virili: Caligaris (1924); il Violoncellista Fassiolo (1916), mezza figura dall’espressivo viso glabro dov’è palese la tensione auditiva; F. E. Zuccaro (1923), giornalista ed artista recentemente scomparso; l’Avvocato Scialiti (1923), dalla maestrevole anatomia facciale; Dottor Valfri, serena figura di scienziato in camice bianco e quello del Padre (1933), ricor-diamo ancora quello della bambina Chiaffrino (1923), delizioso ritratto infantile dove fra il bagliore della luce diffusa spicca il candore delle fresche carni sotto i fluidi capelli scuri. In ogni figura umana, muliebre o vi-rile, giovinetta o vegliarda, il Boffa sacolpire quel tanto che basta a riprodurne le linee essenziali senza cadere nella fredda precisione fotografica, sa trovare per ogni incarnato quella fusione coloristica per cui un vecchio è realmente vecchio, un fanciullo appalesa la freschezza delle sue carni, una donna il fascino della sua grazia. In questa profonda dimestichezza coll’effigie umana sta il valore di questo pittore - valore che giustifica anche la sua comprensività del paesaggio che senza la conoscenza della divina meccanica umana non può essere res ocon efficacia - che ha al suo attivo egregie ed emotive opere. Egli, tuttora giovane ed operoso, continua a lavorare silenziosamente e quotidianamente e, fra il disorientamento e la gazzarra di tante forze trascurabili e di tante energie sprecate, è uno dei pochi cui si può guardare con fiducia e dal quale si possono attendere opere vitali degne delle tradizioni italiche.

Teresio Rovere - (1934 - Teresio Rovere, Artisti contemporanei: Luigi Boffa Tarlatta. Torino, a b c Rivista d'Arte, anno III, n. 11, novembre, pp. 3/7).


Bibliografia:

1934 - Teresio Rovere, Artisti contemporanei: Luigi Boffa Tarlatta. Torino, a b c Rivista d'Arte, anno III, n. 11, novembre, pp. 3/7.

1956 - Domenico Maggiore, Supplemento Artisti Viventi d’Italia, Napoli, Edizione Maggiore, pp. 68/74.

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