È nato a Mantova nel 1943.
Nel 1957 inizia a frequentare la Scuola Superiore di Grafica e nel '60 la Scuola Superiore d'Arte di Milano specializzandosi in pittura ed affresco. Nel 1965-66 incominciano le ricerche sull'acquaforte e le tecniche della scultura; pubblica le prime illustrazioni su testate quali «Il Pioppo» e «La Domenica del Corriere». In quegli anni i frequenti viaggi a Parigi gli procurano contatti con la cultura e con artisti francesi.
Nel '70 diventa giornalista professionista. Contemporaneamente l'elaborazione della forma pittorica lo conduce verso soluzioni sempre più vicine alla scultura.
La sua opera grafica è apparsa su riviste e giornali in Italia e all'estero, tra i quali: «Graphis», «Expansion», «Il Corriere della Sera», «Il Mondo», «La Repubblica», «L'Espresso», «Manager Magazine», «Panorama», «The New York Times». Ha illustrato le copertine di libri per vari editori quali: Gallimard, Garzanti, Longanesi, Mondadori, Rizzoli.
Nel 1989 è stato pubblicato per i tipi della Rizzoli il volume: «Pietro Bestetti, la sua grafica».
Vive e lavora a Milano.
Mostre e rassegne principali:
1979 - Galleria Shop-Art, Milano;
1980 - Rizzoli Gallery, New York;
1981 - “Pietro Bestetti - Le garze”, Galleria del Milione, Milano,16 settembre-17 ottobre;
1982 - “Rilievi, gesti e segni”, Galleria del Milione, Milano, 9 dicembre-12 gennaio ’83;
1990 - Anni Ottanta, Sciacca;
1992 - Bestetti gauzes, Rizzoli Gallery, New York, 5-31 maggio;
1993 - Pietro Bestetti. Grafica 1966/1993, Palazzo Dugnani, Milano, 3 aprile- 2 maggio;
1993 - Pietro Bestetti, Fondazione Mudima, Milano, 25 marzo-10 aprile.
Giudizi critici:
“Giornalismo per immagini”
Pietro Bestetti può essere invidiato da molti giornalisti così come da molti direttori. E non è detto che non lo sia, in un settore professionale che fa di questo vizio capitale una delle principali molle di competitività.
Muovendosi con discrezione (ma pari consapevolezza) è infatti riuscito là dove tantissimi colleghi hanno fallito con la loro penna. Bestetti invece ha fatto della sua arma, la matita, uno strumento decisivo. Se c'è un elemento caratterizzante del Mondo, attraverso gli anni e le gestioni, questo è il suo tratto. Moltitudini di grafici e art director pagherebbero di tasca propria per raggiungere l'identico obiettivo.
Ma in effetti Pietro Bestetti forse è stato un tempo grafico e art director; poi non più soltanto. Altrimenti non sarebbe riuscito a incidere sull'immagine del giornale in una misura che non ha analogie in Italia e pochi precedenti all'estero. Ogni esperto di comunicazione e in particolare d'informazione sa quanto questa circostanza sia difficile, anche perché in genere viene considerata pregiudiziale: l'identità del giornale dovrebbe essere essenzialmente espressa dai suoi contenuti informativi e dalla sua linea editoriale. Eppure nel caso del Mondo e di Bestetti la sfida più complessa era un'altra: tradurre, quasi sempre in una sola immagine e in pochi segni e caratteri distintivi argomenti articolati e fatti assai raramente circostanziati, folgoranti. Prima di tutto perché le vicende economiche presuppongono nell'interesse e nell'attenzione dei lettori una soglia d'approccio quanto meno consolidata. In seconda istanza perché nell'informazione di un settimanale economico (nonostante la voglia di spettacolarità e sensazionalismo che ormai fa premio su tante regole di credibilità e autonomia) il messaggio è composito, sviluppato nella sua formazione e cadenzato nei suoi tempi di sviluppo: non è quasi mai immediato e le sue prospettive si svolgono in varie direzioni e su diversi fronti. Riuscire a catalizzare queste esigenze, con tempi di reazione che non consentono in fase di realizzazione recuperi o ripensamenti, è il risultato massimo. Sempre proponibile a priori; pressoché proibitivo però in assoluto. Eppure molte volte il Mondo attraverso Bestetti, o meglio con Bestetti, è arrivato anche dove non credeva di giungere con i suoi racconti. Nella comunicazione, come in ogni altro settore, il fatto è davvero raro. Quando mai si riesce a essere simmetrici alle proprie ambizioni?
Redento Mori
“Da un sogno antico un segno innovativo”
Pietro Bestetti, artista di testa e di teste. Di testa, perché la sua grafica appare sempre guidata dall'intelligenza, una intelligenza sottile ed elegante. Di teste, perché, come vi accorgerete sfogliando questo libro che raccoglie, insieme a materiale di ricerca, molte copertine da lui disegnate nel corso degli anni per riviste e per libri, predilige, appunto, le teste, che, con un segno innovativo, raccontano storie, inventano sogni, interpretano angosce e malesseri esistenziali, denunciano malefatte, scagliano invettive.
Le teste di Bestetti hanno una curiosa storia. Da ragazzo, attorno ai sedici anni, Pietro vide, su una rivista, la foto di una scultura, se ne innamorò, e, come spesso accade agli adolescenti, ritagliò l'immagine, la tenne fra i libri di scuola, quasi fosse un piccolo talismano propiziatorio per le interrogazioni o i compiti in classe, e non avendo, per distrazione, ritagliato anche la didascalia, credette che quella testa (perché di una testa si trattava...), così pura, così ridotta a una montaliana essenzialità, fosse opera di un artista contemporaneo.
Più tardi scoprì, con stupore, che l'amata scultura apparteneva al 3000 avanti Cristo, e si trovava con altre, alle isole Cicladi. Come Picasso rimase folgorato dall'arte primitiva del Continente Nero, Bestetti fu affascinato dall'ignoto artista. E prese le mosse da lui, dall'enigmatico autore delle sculture delle Cicladi (sculture che poi ammirò "dal vivo", non in Grecia, ma durante un soggiorno parigino), per una sua ricerca che dura ormai da anni e che lo ha portato a creare studi che non hanno nulla di metafisico alla De Chirico, come si potrebbe pensare a un primo sommario esame, ma sono tutti testimonianze dolorose del mondo contemporaneo, ritratti dell'uomo ferito (si pensi a quelle crepe profonde che solcano alcuni suoi disegni) dalla volgarità e dal male di vivere, o addirittura (si veda la copertina del romanzo di Albert Camus La peste, realizzata per l'editore francese Gallimard), raffigurazioni della morte cui sia però stata tolta ogni connotazione grandguignolesca, privilegiando una lettura "fredda", che può ricordare il cinema di Dreyer. Tra le copertine che Pietro Bestetti sigla, con professionale puntualità, per il settimanale il Mondo, raramente appaiono caricature (“la caricatura - ama dire - non mi interessa"). Ma quelle poche, Woytila, Reagan, sono azzeccatissime, perfide e insieme soavi, come debbono essere le vere caricature.
Spesso i suoi bersagli sono manager, uomini d'affari, trafficanti di valuta, o simboli dell'auri sacra fames, dell'esecranda fame dell'oro che attanaglia e incanaglisce buona parte dell'umanità. Bestetti è sempre pronto a cogliere, con il suo pennino, soavemente spietato, l'humour, il più delle volte "nero" della situazione.
Data la qualità e la quantità, è difficile scegliere, tra i lavori presenti in questo libro, un disegno che sintetizzi il suo impegno civile, reso civilmente al pubblico; civilmente, perché Bestetti è uno di quegli artisti che non gonfiano le gote, che non si mettono in mostra o in troppe mostre, che non passano e ripassano nei salotti televisivi, ma tentano, settimana dopo settimana, di aprire gli occhi ai lettori dei mass-media, con l'uso, educato, del proprio segno, inconfondibile, e della propria intelligenza. Ma c'è una sua opera-denuncia che amo ricordare: è quella dell'esportatore di capitali in Svizzera, che si cela, come un qualunque gangster hollywoodiano, dietro un paio di occhiali le cui lenti riproducono la croce bianca in campo rosso della troppo compiacente confederazione elvetica. Una perfetta invenzione grafica, degna dello sdegno, ripeto civile, di un Parini. Pietro Bestetti è nato a Mantova, nel 1943, ha studiato a Milano, alla Scuola Superiore d'Arte del Castello Sforzesco, magro ed elegante, sembra disegnato da Sergio Tofano, il grande Sto. Vive e lavora in una casa-studio, bianca e razionale, che gli rassomiglia, a due passi dalla stupenda Villa Litta di Affori. Tira aria di Settecento lombardo, da quelle parti. Non dimentichiamolo.
Alfredo Barberis
“Ritratti dall'interno”
I segni antropomorfi che Pietro Bestetti raccoglie da anni come inesauribili variazioni di un «dato» fondamentale, posto proprio nel cuore della sua ricerca, vengono da lontano. Da lontano perché, in primo luogo, a quest'unico grande tema, speculativo e poetico più che iconografico, l'artista ha dedicato si può dire tutta la vita con l'eccezione esclusiva dei primi lavori fatti di sabbia e altri materiali. E in secondo luogo perché queste figure, o più precisamente mezze figure impaginate secondo il taglio classico del mezzobusto, non nascondono le importanti affinità che le apparentano a modelli arcaici, remotissimi, pur senza declinare l'impegno, inderogabile, di confrontarsi col presente e con tutto il suo corredo di tecnologia, spersonalizzazione e alienazione.
Idoli-robot potrebbero essere definiti questi personaggi, da sempre, si può dire aprioristicamente, refrattari a ogni naturalismo, e privi di ogni connotazione individuale, di qualunque tratto fisionomico o psicologico e persino del benché minimo accenno di personalità. Anzi, la prima caratteristica peculiare all'artista è di negare alle sue figure qualunque elemento caratterizzante, pur senza per questo rendersi e rendere il proprio stile meno riconoscibile. Chi vede, anche per una sola volta, questo giardino di segni antropomorfi, non può dimenticare la mano che l'ha coltivato.
Forse Bestetti è stato favorito dalle condizioni operative della sua attività ulteriore, quella del grafico, in una scelta di «campo» tanto precisa (avvenuta molti anni fa). È un fatto che il dato preliminare nella ricerca di Bestetti sia il lavorare sulla figura umana. Ma è anche vero che l'attività grafica, la stringente necessità della professione, non ha condizionato la ricerca «pura» dell'artista, vincolandola alle sue esigenze, essenzialmente comunicazionali, e ai suoi contenuti. Considerando entrambi gli aspetti di questa produzione composita, ci si rende conto che i due percorsi procedono negli anni e nei decenni paralleli, senza che l'uno prevarichi mai l'altro e senza che i due cammini si discostino troppo fra loro. Bestetti ha cura dell'efficacia simbolica e rappresentativa delle sue immagini sia quando «fa» il grafico sia quando «è» artista, rappresenta figure umane sia nei quadri sia sulle copertine dei giornali, e in entrambi i casi caratterizza i personaggi non mediante precisazioni fisiognomiche o caricaturali ma grazie a simboli o stereotipi della «classe» di soggetti cui appartengono. Oppure, come spesso accadeò, non li caratterizza affatto quando decide di non farli appartenere a nessuna classe, nessun gruppo. S'incontrano, è vero, nella sua «galleria», un re, una regina, persino una caricatura di diavolo beffardo con tanto di corna, ma la maggior parte delle figure non sono nessuno e non appartengono a nulla. Talvolta non sono nemmeno provviste di occhi, naso, bocca, il che contribuisce ad accentuare ulteriormente la loro parentela con quegli «idoli» cui si accennava (parentela, è il caso di precisarlo, di carattere esclusivamente linguistico, non iconografico. Bestetti non cita, assimila). Alfredo Barberis ha raccontato con un aneddoto significativo la scoperta delle arcadiche steli e teste della cultura cicladica da parte dell'artista ragazzo, immerso dunque anch'egli in una sorta di preistoria o arcaicismo esistenziale. Trovata per caso la fotografia di un esemplare di quell'arte, Bestetti l'avrebbe incollata sul proprio diario attribuendo l'opera a un contemporaneo. E sarebbe rimasto folgorato nello scoprire che invece si trattava di un reperto del 3000 a.C.. Un aneddoto significativo, perché dimostra che queste teste oblunghe e misteriose, dalla forma essenziale, nel cuore, si vorrebbe dire, o nella memoria più intima dell'artista, ci sono sempre state, lo abitano, e per questo sono state riconosciute da Bestetti liceale: che in quei segni atavici ha trovato quasi junghianamente conferma alla propria aspirazione d'assoluto, della «verità» della forma. Qualcosa di simile è accaduto con le maschere africane, nei cui segni primitivi, in particolare in un segno verticale che si incunea nella forma a partire proprio dalla sommità del cranio e la spacca in due (sebbene le figure non sembrino soffrire di questa aggressione che mette a repentaglio non solo la loro compattezza volumetrica ma, metaforicamente, la loro integrità fisica), l'artista incontra una dimensione non up-to-date anzi atavica e proprio per questo in grado di coniugarsi con le contingenti novità dell'essere moderno.
Ma, oltre all'idolo, il robot: non è un caso che proprio le teste dalla forma più esplicitamente primordiale, derivata dai modelli antichi, rechino addosso o risultino addirittura costruite con l'impronta di un pneumatico (segno riconoscibile come tale soltanto nella nostra cultura della gomma e delle autostrade), oppure siano coperte da una sorta di maschera a righe orizzontali e verticali, che può ricordare quella degli schermidori. E anche nelle fonti cui fa riferimento, Bestetti non dimostra alcuna vocazione «d'archeologo dei segni» ma anzi rivela tutta la propria attiva partecipazione al «discorso» e all'espressività dell'arte contemporanea.
Nel suo linguaggio infatti non è difficile rinvenire la presenza di artisti come Saul Steinberg, Carlo Carrà, Paul Klee (cui Bestetti si rifà come ai suoi maestri dichiarati), e Amedeo Modigliani. «Bestetti», ha scritto infatti Cillo Dorfles, «ha ereditato (...) la grande lezione di Klee (figure appena tratteggiate, soavi sfumature dell'acquarello, prospettive improbabili)». Ma c'è anche Carrà (e con lui tutti gli altri esponenti della Metafisica), soprattutto nella fase in bilico ha Metafisica e Valori Plastici, per esempio dell'Idolo Ermafrodita (1917) o dell'Amante dell’Ingegnere (1921), con quel suo centrare tutto su accordi impossibili, su forme sospese, strappate dal loro contesto abituale e prive di un'identità definita. E, naturalmente, si nota anche la presenza di Steinberg: per esempio nella sua peculiare modalità compositiva paratattica, nel descrivere qualcuno o qualcosa non in un ritratto ma attraverso un accumulo di connotati e di attributi, e nel richiamo di forme e di segni studiatamente infantili ma proprio per questo più comunicativi, più comprensibili. Anche Bestetti può sembrare infantile nella sua ricerca dell'essenziale: per esempio quando disegna due tondini per denotare una figura femminile attraverso un sintetico seno, oppure quando pone un coloratissimo bersaglio al posto del cuore. Ma, piuttosto che d'infantilismo, si deve parlare di sapienza formale, talmente raffinata ed estrema da risolvere tutti i problemi posti da una composizione con tale leggerezza da farla sembrare «facile», spontanea, naturale.
Come spontanea e naturale Bestetti riesce a far apparire la possibilità di costruire una serie potenzialmeute illimitata di immagini tutte apparentemente simili, fra cui, in realtà, viene evitata anche la minima ripetizione. Addirittura si può dire che non sia tanto «l'opera», quell'unicum ispirato e irripetibile, ma proprio la serie a costituire un'unità di misura rappresentativa del suo lavoro: proprio perché attraverso la serie, attraverso il ritmo quasi musicale che collega ciascun episodio al precedente e al successivo, trova adeguata evidenza l'immagine singola, la «variante». Che non è tale, lo si ripete, per connotazioni empiriche, particolaristiche, quindi ancora naturalistiche o psicologiche, bensì puramente semantiche, decorative, cromatiche e talvolta anche simboliche. Ciascun'opera è una «variazione» dell'insieme sempre ed esclusivamente in termini estetici, inerenti al linguaggio pittorico o plastico. I fondi, per esempio, che talvolta ricordano la superficie corrugata e materica degli intonaci (un supporto intimamente sentito da Bestetti che alla Scuola Superiore d'Arte si è specializzato proprio in affresco), in altri casi invece si assottigliano fino a una rarefazione prossima al vuoto, degna, metaforicamente, della profonda solitudine di questa umanità disegnata. Oppure gli elementi decorativi, come linee o grechem che prima di essere segni pittorici veri e propri sono stati collage realizzati, dal '78 all'83, con garze colorate, punto d'incontro fra le composizioni materiche degli anni Settanta e le prime teste. Oppure, ancora, una cornice dipinta posta all'interno della cornice vera, modulo ornamentale che sottolinea il bisogno dell'artista di distinguere e connotare la spazialità inerente all'immagine come intrinsecamente diversa da quella esterna a dispetto della voluta atonia dei valori cromatici e formali. Oppure ancora le forme delle teste, rotonde, oblunghe appiattite, ovali, addirittura aperte come nebulose stellari, talvolta puro segno grafico, talvolta volume. E infine la presenza, particolarmente significativa, di una decorazione, per lo più orizzontale, che infrange il contorno della figura e la attraversa con assoluta indifferenza, come se non ci fosse.
Un'ultima «variante», elaborata da Bestetti soprattutto nel corso degli anni Ottanta, è quella realizzata con un linguaggio diverso, non più pittorico, ma plastico. Col gesso e col bronzo l'artista ha realizzato altri mezzobusti, il cui volto vuoto non è altro che un ricettacolo pronto ad accogliere una maschera altrettanto vuota ma necessaria a «completare», quasi a vestire e a rendere formalisticamente (socialmente) accettabile questa figura sguarnita di senso.
Però, al di là della ricerca estetico-espressiva, al di là del fortissimo interesse artistico-formale di Bestetti, il «contenuto» di tutte queste immagini è sempre lo stesso e si rinforza proprio grazie alla continua reiterazione. L'assenza di un'umanità «vera», non solo nella metafora della rappresentazione ma nei fatti; e al suo posto la presenza di simulacri ingannevoli, di esseri rassegnatamente indifferenti, vacui, inconsapevoli di sè stessi. L'artista però non fugge, non si sottrae all'amarezza di una constatazione come questa: anzi, l'insistenza sul tema ha tutta l'aria di un progetto, di una prospettiva, e molto sentita. Che, con tutta l'umiltà di una coscienza vigile e critica, è la stessa delle migliori avanguardie: cambiare il mondo, cambiare l'uomo per quanto possibile, magari soltanto un pizzico, un frammento, una scheggia. In modo che, chissà, possa acquisire un occhio, una bocca, un'anima.
Martina Corgnati
Uno dei tipici segni della crisi in cui vive questa nostra epoca, e il decadimento quasi totale del gusto per il buon libro, del piacere per la buona musica e per il bell’oggetto d’arte.
I nostri nonni erano assai più disinvolti di noi. Quando era il caso protestavano a viva voce dal loggione o, senza tanti complimenti, restituivano il brutto romanzo, appena consigliato, al libraio di fiducia.
Sono gesti questi che oggi non avvengono più e si vive in una completa e disarmonica abulia.
In cose d'arte distinguere poi il bello dal brutto, l'originale dal déjà vu, è diventato pressoché impossibile.
Sempre più raramente accade di essere avvinti da immagini insolite, che sappiano attrarre la nostra attenzione accecata ormai, per non dire corrotta, da quelle usuali, quotidiane che ci vengono offerte dalla televisione, dai giornali, dalle brutte pubblicità notturne, allucinanti.
Ma quando si riesce a distinguere, a sceglire tra tanta confusione, ci si sente quasi premiati.
È quanto mi è accaduto di fronte a queste recenti composizioni di Pietro Bestetti, feticemente nate sotto l'insegna della poesia. Posseggono infatti il dono di sapere entrare direttamente nel nostro privato, poco sensibile agli incantesimi, di fare centro e di superare le barriere che abbiamo innalzato a difesa di quelle poche cose in cui crediamo ancora.
La poesia è una di queste. Bestetti è un poeta che abbellisce i propri sogni con il colore, è un giocatore di prestigio che sa utilizzare le tecniche più strane ed inusuali.
Sino a ieri ha fatto uso di pittura su sabbia, oggi compone collages di garze fragili e sottili, sempre in funzione di determinati temi figurali.
In Bestetti sabbia e garze vivono sotto il segno della continuità e hanno in comune lo stesso denominatore: è quello del senso del mutabile, del provvisorio.
«I suoi territori, - ha scritto anni or sono Paolo Volponi - i suoi cumuli sono di una sabbia filtrata da infinite correnti e depositata nel tempo continuo di una speranza mai smessa».
Alberto Burri ha utilizzato in tutti questi anni la tela di sacco per esprimere simbolicamente il dramma dell'esistetiza e Pietro Bestetti pare volergli rispondere con un materiale altrettanto povero, la garza, quasi impalpabile al tatto, silenziosa conte ragnatela, che dà un senso di quella speranza di cui parlava Volponi.
In lui l'uso della garza diventa gesto, segno, concentrazione di stati d'animo. La piega, la incolla, la pittura, la racchiude, come per trattenerla, in nastri colorati.
Sono voli nell'infinito che giocano tra l'allusivo e il reale.
Sin dal primo incontro con queste figurazioni astratte, si riconosce l'eleganza del mattufatto uscito dalla buona bottega artigiana, di scuola, dove il gusto per la forma è di casa.
Se poi la lettura diviene più attenta allora si scoprono incantevoli trame di colore, depositato tra l'intreccio della garza, un pulviscolo astrale, poetico, che ci trasporta in mondi lontani dove forse siamo già stati.
Paolo Levi
(dalla presentazione alla personale Galleria Il Milione, Milano, 1981)
“Fare Arte tra Giornalismo e Industria”
Uno spunto metaforico - sempre giocato tra significato letterario e immagine figurata, o piuttosto, tra rappresentazione iconica e qualità grafica - sta alla base di tutta la ricerca e l'attività di Pietro Bestetti. Almeno di quella dedicata al versante della comunicazione visiva piuttosto che di quella decisamente pittorica e plastica (che costituisce l'altro versante della sua creatività artistica). L'opera di Bestetti è del tutto autonoma e, nella eccezionale continuità del suo stile, unitaria e personalissima. Un'opera che è prima di tutto «pittorica»: ossia non sacrifica mai le qualità estetiche, la raffinatezza del segno, l'accostamento dei colori, all'effetto che vuole ottenere e che deve, pubblicitariamente, trasmettere. Questa mi sembra una delle sue caratteristiche più preziose e insolite: aver saputo, attraverso gli anni, mantenere il difficile ruolo di «disegnatore funzionale», ossia di creatore di disegni, schizzi, illustrazioni, sempre volti a una precisa finalità pratica, ma sempre composti con la stessa preoccupazione di realizzare non solo una buona e incisiva operazione promozionale ma un'«opera d'arte» a sé stante. E bene, infatti, precisare che quasi tutte le opere di Bestetti presentate in questa sua grande mostra a Palazzo Dugnani (meno alcuni pochi esempi «gratuiti» ossia non legati a una precisa funzionalità comunicativa), sono state realizzate «sur commande»; ossia con un preciso «target» (visto che siamo in tema di operazioni comunicative-pubblicitarie-giornalistiche l'espressione inglese è di casa!): quel target appunto di indicare una situazione economica, industriale, politica, cui il bozzetto fa riferimento, e che può essere - il più delle volte - la copertina d'un noto settimanale economico (come il Mondo ), la pubblicizzazione d'un evento culturale, o d'un prodotto tipico. Il risultato - che dal punto di vista estetico, è senz'altro eccezionale, per la preziosità del «ductus» lineare, la sofisticatezza dei colori, lo «stile» personale delle figure - lo è altresì dal punto di vista concettuale: molto spesso la fantasia dell'autore riesce a inventare delle immagini dove la valenza metaforica o metonimica (e in generale sfruttante un peculiare «tropo» retorico) assume la qualità d'una vera e propria trovata medita. Sono invenzioni che fissano con immediatezza folgorante il rapporto tra l'immagine e quello che la stessa mira a designare e contribuiscono una volta di più, a sancire l'interdipendenza tra un'idea espressa attraverso la parola e attraverso la figurazione. Per cui, in molti di questi casi, potremmo facilmente includere il lavoro di Bestetti tra quello dei poeti visivi, o più in generale dei pittori che si valgono di scritte e documenti grafici inseriti nella compagine del loro operare pittorico. Si vedano ad esempio, tra le centinaia di figurazioni che sarebbe giusto - e piacevole - citare, almeno quella dove lo stemma svizzero, disegnato al posto degli occhi, richiama subito l'idea di transazioni valutarie; o quello dove una palla ricoperta da una banconota da centomila sta scivolando in un baratro a forma di stivale italiano, con facile - ma ahimé premonitoria - allegoria alla situazione della valuta nostrana in serio pericolo; o si veda ancora quella intitolata «Conti in tasca ai partiti» che non ha neppure bisogno di commento nel momento che stiamo attraversando; oppure quella del «Manager» con un telefono al posto del cappello, o quella del «Super-serpente» dove la forma dello Stivale prende l'aspetto d'un serpente «valutario»... In tutti questi casi è l'ispirazione dell'artista che determina non solo l'impatto visivo ma la valenza stessa del messaggio informativo. L'autonomia di cui gode Bestetti nell'interpretare il tema di copertina del settimanale è tale che, non di rado, l'immagine, da forma estetica, diventa contenuto giornalistico, in grado di influenzare il lettore tanto quanto il servizio stesso, e talvolta anche di più.
È dunque l'indubbia capacità visualizzatrice d'una determinata situazione a guidare la mano dell'artista; ma è anche - vorrei sottolineare - una notevole qualità grafico-plastica che - tanto negli schizzi e nelle centinaia di tavole, quanto nei funamboleschi collages, quanto in alcune statue (manichini ironici qui esposti), e nei cartelloni pubblicitari - riesce a darci una personalissima interpretazione degli eventi e delle vicende quotidiane attraverso una manualità disegnativa sofisticata e tale da «elevare a potenza» pittorica quella che, di solito, è soltanto una abile capacità persuasiva. Il fatto che quasi tutti i lavori esposti siano stati già pubblicati (o sul periodico o sui manifesti e copertine di libri) è, del resto, ribadito dallo stesso autore il quale tiene ad affermare: «la loro realizzazione non è frutto di un libero impegno artistico, ma è dovuta a una commessa di lavoro, con tema, formato e tempi precisi e prestabiliti». Ma è proprio questo fatto che, ancora una volta, vorrei mettere in evidenza; giacché corrisponde a un mio antico postulato; ossia: che anche nelle attività decisamente volte al raggiungimento d'un risultato pratico e utilitario (come quello d'una campagna pubblicitaria, d'uno spot televisivo, d'un oggetto industrialmente prodotto), si alberga - o può albergarsi - una qualità altamente artistica, dove l'abilità tecnica non va disgiunta mai - ma anzi collabora - con la creatività fantastica.
Gillo Dorfles
«I lavori esposti in questa mostra, sono tutti pubblicati; la loro realizzazione, infatti, pur essendo avvenuta in totale autonomia interpretativa e creativa, non è frutto di un libero impegno artistico ma è dovuta a una commessa di lavoro, con tema, formato e tempi precisi e prestabiliti.
Il Mondo
Una grande parte delle copertine de il Mondo sono state disegnate sullo stesso tavolo dove, per anni, ho anche impaginato questo importante settimanale economico.
Sempre in pochissimo tempo (il titolo di copertina viene deciso all'ultimo momento), nella più grande confusione, tra bozze tipografiche e sigarette, colleghi indaffarati, telefoni e tipografi, carte di ogni tipo, matite, pennelli e colori, tra la chiusura di una «segnatura» e l'altra.
Spesso, ho iniziato il disegno prima di avere ben definita nella mente l'idea finale: il rotocalco aspettava, sempre, sbuffante e indifferente ai miei problemi, come una locomotiva dall'imminente partenza.
Qualche volta, il «coordinatore tecnico», è venuto a strapparmi dalle mani la copertina appena impaginata per correre a farla riprodurre. Sovente ho dimenticato la firma sul disegno...
Col tempo, mi sono inventato piccoli trucchi per avvantaggiarmi nella realizzazione ed essere più veloce: fogli affastellati di appunti e idee per tutte le possibilità, che sfoglio febbrilmente ogni volta; decine di fondi colorati di diverse foggie e gradazioni, preparati in precedenza e che adatto, al momento, al mio personaggio con la sua storia: è così che sono nate le copertine/collages.
Troppo spesso, per me, il risultato non è quello sperato e raramente c'è il tempo per rifare, per rifinire meglio l'idea o il disegno; ma forse, il bello sta proprio in questo.
I lavori qui esposti, dunque, oltre a ciò che possono rappresentare dal punto di vista artistico, giornalistico o storico/sociale, sono anche la viva testimonianza di un lungo periodo, irripetibile per entusiasmo e competitività, durante il quale, veramente, l'eccezione è diventata, sovente, routine.»
Pietro Bestetti
(in occasione della Mostra a Palazzo Dugnani, aprile 1993)
Bibliografia:
1979 - Paolo Volponi, presentazione cartella di 3 litografie alla Galleria Shop-Art, Milano;
1980 - Valerio Castronovo, presentazione cartella 3 acqueforti/acquetinte edita dal mensile Capital;
1981 - Francesco Novelli, Garze e Sabbie d’autore, Rivista Capita, 9 settembre, pp. 65/67;
1981 - Francesco Vincitorio, La parte dell’occhio, Rivista L’Espresso, 4 ottobre, p. 111;
1982 - Paolo Levi, presentazione personale, Galleria del Milione, Milano;
1990 - Redento Mori, Alfredo Barberis, Pietro Bestetti, la sua grafica e le copertine de Il Mondo, Ed. Rizzoli, ottobre;
1990 - Marco Carminati, Il fisco ritratto da un artista, Il Sole 24 Ore, Milano, 2 dicembre;
1990 - Redento Mori, Giro del “Mondo” in cento copertine firmate Bestetti, Rivista Sette, 8 dicembre, pp. 27, 28;
1990 - Cesare Medail, L’economista con le ali, Corriere della Sera, Milano, 13 dicembre;
1991 - Valeria Carones, Il successo è tratto, Capital, febbraio, p. 93;
1991 - Liliana Molinari, Il giornalismo in testa, rivista Prestige, anno VIII, n. 3, pp.53/55,
1991 - Alfredo Dondi, Un artista da copertina, La Repubblica, 9 marzo;
1991 - Gillo Dorfles, Metafore in copertina, Il Mondo, 24 dicembre, pp. 54, 55;
1992 - Paolo Levi, presentazione catalogo, Bestetti gauzes, Rizzoli Gallery, New York;
1993 - Martina Corgnati, a cura di, Pietro Bestetti, catalogo mostra Fondazione Mudima, Milano;
1993 - Bruno Gravagnuolo, 1993 Fuga da Kitsch City, L’Unità, Roma, 3 marzo;
1993 - Amur, Anche l’economia può divenire arte, Il Giorno, Milano, 3 aprile;
1993 - Metafore fra giornalismo e arte, Corriere della Sera-Vivere Milano, p. XIII, 3 aprile;
1993 - Silvia Dell’Orso, Quante teste sono finite in copertina, La Repubblica, 11 aprile;
1993 - Mostre: Pietro Bestetti a Milano, Non soltanto copertine, Il Mondo, aprile;
1993 - Sara Regina, Un artista in copertina, Corriere della Sera-ViviMilano;
1993 - Gilberto Finzi, Il manager? Ha il telefono intesta, Corriere della Sera, Milano, 4 aprile;
1994 - Guido Vigna, Giù la maschera, Rivista Quadrante Padano, Mantova, Anno XV, n. 3, pp. 34, 35.
1999 - Adalberto Sartori - Arianna Sartori, Artisti a Mantova nei secoli XIX e XX. Dizionario biografico, volume I, A - Bona., Mantova, Archivio Sartori Editore, pp. 413/422.