Andreozzi Giulio di Canale

scultore filosofo
1880 - 1953

Fra i tipi di Lorenzo Viani

A Pietrasanta. La sera della Candelora.

Aspettavo di cominciar le prove nella sala parrocchiale, mezzo avvolta nel buio. Solo la tastiera del piano sotto la luce del piccolo riflettore risaltava con la sua fila di denti bianchissimi. Una pioggerella invernale picchiettava uggiosa, insistente. Gli attori non si fecero vivi.

Quando stavo per andarmene una voce domandò permesso e mi trovai davanti, nel giro del riflettore, Giulio Di Canale.

Me ne avevan parlato: alcuni presentandolo come vero artista, altri come pazzoide. Io l’avrò incontrato altre volte, ma come s’incontra tanta gente, senza notare.

Ebbi piacere di trovarmi con lui, solo a solo, in un ambiente assai adatto per un colloquio d’arte.

È zoppo: è brutto. Il volto magro, scavato sotto gli zigomi, che si sporgono quasi ad ombreggiare di più due occhi lampeggianti sotto le ciglia folte. I capelli più bianchi che grigi sembrano sconvolti da una diuturna tempesta. Ha una testa da classico vàgero vianesco.

Parla bene: mai rude nel suo forte accento che sa d’Alpi Apuane e di salmastro versiliese.

Subito amici dopo cinque minuti, la conversazione è avviata con aperta cordialità. Cultura spiccatamente personale senza sapore muffoso di libreria o di sciocche ripetizioni pappagallesche. La sua frase scalpella tipi, incide figure, colorisce fatti vissuti con eminenti personalità artistiche.

Si dichiara «astrografista » e spiega che la sua arte consiste nel trarre figure, con mezzi e pazienza da monaco, da marmi scuri a forza di punti che danno la sensazione di un infinito stellato. Trae dalle tasche qualche esemplare. Piccole e fini lastre di marmo del Belgio portano incise a furia di punti bellissime testine di Madonna, di Angeli, di donne. Poi inutili pietruzze fino a ieri disperse sul greto di torrenti apuani, tramutate in tante meravigliose figure di una precisione da Orafo.

Poi ti dice che la sua vita è come una di quelle pietre che sanno la furia degli elementi, che sonO rotolati giù dalle balze montane senza potersi mai fermare, sempre sospinte, sempre in corsa, consumandosi giorno per giorno. Con un velo di mestizia e di nostalgia parla dei suoi viaggi, avventure (mai da romanzo), sogni d’arte, delusioni, ma sempre con una forte certezza del suo valore.

Di Viani è stato intimo e Viani stesso gli ha dedicato svariati articoli apparsi via via sui Corriere della Sera e tutti soffusi da tanto affetto. Ma sebbene sicuro del proprio valore, Giulio di Canale è di un’umiltà eccezionale e non è l’arrivista 900. An-che nel caso della sua vera e provata amicizia con Viani mai se n’è servito per mettersi in luce e ne avrebbe avuto ragione più di altri che con Viani morto fanno quattrini speculando su pochi fatti reali e su molte bugie incontrollabili. Sono questi, sottolinea Di Canale, gli immancabili all'apertura di mostre, scopriture di lapidi, premi ecc.

Eppure ne avrebbe avuto ragione di gloriarsene. Giornate assieme lungo il litorale versiliese, serate e notti trascorse in trattorie fuori mano dove il vin buono faceva cantare strofe e ritornelli accompagnati da Giulio sul mandolino.

Di Canale conserva gelosamente due schizzi autentici dell’amico Lorenzo, dai quali il volto e la capigliatura del vàgero pietrasantino appaiono nelle forti linee caratteristiche dell’artista di Viareggio.

Su «Il Bava» l’autore scriveva questa dedica: «Iddio di per sé stesso plasma e riplasma così io ho fatto di Canale» - Lorenzo Viani - 1932.

Su «Le Chiavi nel Pozzo» c’è quest'altra dizione: a Giulio di Canale, bonificato integrale, nell’immensità totale del firmamento allor che a mille a mille gli astri sgraffiati mandano scintille - Lorenzo Viani. Scritta in una delle solite nottate viareggine.

Giulio di Canale si vanta inoltre di aver fatto il più bel ritratto a Viani poiché, come testimonia la figlia maggiore, soltanto sul suo volle scrivere di proprio pugno: Son io fin nei fondali.

Di Canale è uno dei pochi che va a Viareggio alla Messa di suffragio, tutti gli anni, e li, assenti i blasonati d’Accademie e giornalisti di grido, (perché è cosa troppo umile), si trova contento nella solitudine mistica di S. Andrea.

È già tardi: non piove più: usciamo.

Da quella sera tante ore sono stati con lui. Ho visto lavori di bassorilievo sacro tutti pieni di misticismo seppure scalpellati con la forza di uno stile autoritario. Fra l’altro una Maternità in legno, sotto la cui fotografia lo stesso Rambelli ha voluto scriver! «È bella!»

Giulio di Canale però vale anche come pensatore. Non segue nessuna scuola perché, ed è la sua fortuna non le vuol conoscere; ma niente nel problema psichico umano gli sfugge e tutto annota con una lieve punta umoristica velata quasi sempre di pessimismo.

Un giorno gli domandai di leggere il suo pacchetto d’appunti, in generale scritti nelle frequenti notti d’insonnia perché i pensieri, scrive egli stesso, sono come i topi: girano la notte. La luce, la matita e la carta sono la loro trappola. Me li portò.

Scrive a stampatello ben marcato:

Nella chiesa del Santo, Cristo sembra un disoccupato.

Certe vetrine sono lo specchio della miseria morale di un paese.

Sarebbe ridicolo nella vita cantare accompagnati sempre da orchestra.

La donna non vuole esser copiata, ma immaginata, perché il vero ideale è perfezione.

La purezza della sintesi è dello specchio.

Non manca inoltre in questo mucchio di carte sgualcite un sano umorismo.

Il campanile di Pisa somiglia il primo pezzo di un ombrellone da spiaggia.

Non sarebbe male mettere l’indirizzo del proprio sarto sul biglietto da visita, tanta è l’importanza che ha l’abito nella odierna società.

La vecchia ha un ritratto di giovanotta al collo.

Denti belli: facile pretesto per sorridere.

I morti, per gli artisti, sono gli unici clienti che non reclamino difetti e i committenti sono di facile consenso.

La prefazione somiglia all’estremo conforto.

Anche in conversazione esce via,via, in piccoli scoppi allegri: il più delle volte improvvisando versi:

Carducci avea la testa come un cardo

D’Annunzio fatta a palla di biliardo

Sia co’ capelli barba pizzo o senza

Assurger puote l’uomo all’alta scienza.

Dai suoi appunti avevo preso nota anche di questa sentenza: «l’invidia è più alta dei campanili», ma vedendosela attribuita, da vero artista, non volle assumersi la paternità di roba d’altri, e ci scrisse di proprio pugno: «per la verità questo pensiero me lo insegnò Bassotto «involator di polli».

In questi pensieri, come in tanti altri, si scorge un’anima inquieta, malsicura in fatto di problema religioso, sempre turbata da strani bisogni e sconcertanti paure, ma c’è anche una sintesi chiara di una intelligenza che avrebbe potuto dar buoni frutti se curata a dovere e bene indirizzata.

Invece la sua arte lo strascina randagio, incerto, timoroso del problema del domani, senza una base stabile, e così all’occhio superficiale può apparire per una illusa testa nelle nuvole. Ed è vero artista. Basta a convincersene la delicatezza dei suoi lavori. Quelle miriadi di punti bianchi che in una fosforescenza di nebulosa staccano da fondi neri certe Madonne piene di tanta mistica bellezza, sono frutto e conseguenze del suo genio strano ma ben delineato e evidente. «Astri sgraffiati che mandano scintille», come li chiama Viani, che trasportano al di fuori del circolo breve terreno per metterci a contatto di qualcosa di ultraterreno.

Un tardo pomeriggio d’Aprile. La pioggia recente aveva lavato aria e terra. Il cielo fresco: immensa campana di cristallo-purissima. I pini delle Focette, verdissimi, slanciati a bere l’azzurro. Le Apuane s’eran fatte manto di Madonna.

Di dentro a un giardino Giulio di Canale mi chiamò e lo vidi lavorare. Soltanto quando è preso dalla sua arte si comprende la sua anima e s’indovina l’intimo travaglio geniale dal suo volto contratto in una smorfia che lo rende irriconoscibile. Solo lo sguardo rimane il suo, fatto di fuoco sotto l’arco sopraccigliare irto di peli grigi.

Ed ora l’ho impresso nella mente con quella fisionomia che richiama da vicino uno dei «prigioni» che l’arte superba di Michelangelo ha lasciato appena sbozzati, ma sprizzanti forza da ogni piega scavata dallo scalpello in quei volti quasi di mostri affascinanti.

Tello Taddei.


Bibliografia:

1940 - Tello Taddei, Fra i tipi di Lorenzo Viani, Assisi, La gesta, n. 3, 21 gennaio - XVIII, pp. 30/31.

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