Bastianini Giovanni

scultore
Fiesole (FI), 17 settembre 1830 - Firenze, 29 giugno 1868

Bastianini Giovanni - Correva la sera del 2 luglio decorso, allorché un funebre convoglio accompagnato da largo stuolo di meste persone, tra il chiarore dei torchi, muoveva lentamente alla Chiesa di S. Marco in Firenze. A trentotto anni, nello stadio più bello della virilità avea lasciato la terra l’autore del ritratto famoso di Girolamo Benivieni, uno fra gli amici più intrinseci del Domenicano Savonarola. Dissi famoso perché anco i meno dilettanti di belle arti videro la stampa nostrana ed estera occuparsi più mesi di una mistificazione - - la question Benivieni - come fu chiamata a Parigi.

È stile di questo periodico tener parola degli uomini già per fama provetti, e sommi o per lettere o per arti, ma io credo non sarà discaro rammentare eziandio coloro da poco entrati in una carriera luminosa e piena di belle soddisfazioni e di più belle speranze?

Nell’anno 1830 il nostro giovane scultore ebbe i suoi natali nel Circondario di Fiesole da parenti onestissimi, ma poveri di censo e di nome. Forse il giovanetto era chiamato a provare col fatto che, pur mancando la fortuna a compagna dei primi anni, l’uomo può, colla tenacità del volere e col fermo proposito, formarsi uno stato, salire in fama, e in onore. Forse egli avrebbe potuto aggiungere col nome suo un fiore novello a quella eletta corona di illustri, dei quali narra con tanto diletto l’aureo libro di Smiles, Chi si aiuta, Dio l’aiuta. - Per volontà dei genitori e per abitudine invalsa nei nativi di quelle amene colline, appena egli potè maneggiare il mazzuolo, levandosi di buon’ora, andava, cantarellando per le scoscese viuzze, alle vicine cavea lavorare le pietre, delle quali è ricco quel suolo.

Non andò guari che il cav. Inghirami, probo e dotto signore, ebbe ad accorgersi del precoce ingegno del giovanetto. Spinto dal desiderio di giovargli, a quattordici anni lo trasse a sé, occupandolo in quel laboratorio di S. Domenico, dove il benefico uomo attendeva a riunire e pubblicare notevoli scritti sulle antichità Etrusche.

Come fiore che, aspirando la brezza mattutina, schiude più vigoroso al profumo la sua corolla, e si fa gradito agli sguardi del suo cultore, tale il fervido alunno grato al suo benefattore, beveva gli amorosi insegnamenti e i consigli che esser dovevano poi benefica rugiada sull’aspro sentiero della vita. Apprese intanto con passione i rudimenti del disegno, base fondamentale dell’arti, e dando ascolto a quel forte trasporto che dentro lo cuoceva sempre più, cominciò da sé a plasticare figurine, piccoli ornati e rilievi.

Cosi l’Inghirami andò lieto del proposito fatto, cogliendo largo compenso nel progresso del suo protetto.

Più tardi l’esimio scultore professor Fedi lo accolse di buon’animo nel suo studio, dove trasse a modellare sotto i migliori principi, facendo raccolta di savi avvertimenti a guida ed a freno di quella spigliata franchezza, che, ben di sovente, tien dietro allo slancio del genio, anziché alle vere regole dell’arte.

Ma il vero amore appreso ai grandi autori del cinquecento fu quando nella officina del defunto Torrini ei lavorò più spedito di stecco e di scalpello; fu lì dove colla più notevole attività imprese a contraffare quei sommi maestri, ai quali avea da lunga pezza rivolta la mente, dando così principio a un tenue commercio di bassi rilievi e di busti, d’una imitazione veramente squisita. Io so di una madonna intagliata nel sasso che riuscì stupenda per esecuzione: quei che la videro, a stento crederono fosse quello un primo lavoro. Avea tutta la impronta di quattro secoli avanti.

A chi sa che vuol dire anima di artista, di quell’essere che si agita e vive in un mondo tutto suo, che gode e si allegra dell’incendio che tutto lo avvampa, non riuscirà difficile comprendere la soddisfazione e il coraggio sempre più crescente del giovane Bastianini. Era quasi ventenne allorché il distinto antiquario signor Giovanni Freppa gli espose l’animo suo offrendogli lavoro nel proprio studio, stipendio mensile, e mezzi larghi onde maggiormente istruirsi a suo bell’agio. L’artefice accettò: si strinsero i patti, e l’uno trovossi tosto contento dell’altro. Geloso del tempo che aveva, egli era instancabile, assiduo tanto da non conoscere sollazzo veruno, di una attività quasi febbrile. «L’arte è il lavoro per eccellenza, l’industria suprema» come dice L. Pfau. In certe ore egli attendeva pure alla lettura di libri storici, alla cognizione del'progresso e del decadimento dell’arte, coltivando così la mente delle più utili nozioni, come già aveva educato il cuore alle più belle virtù per natura dolce e sensibile. Frattanto diverse opere, come il busto della defunta contessa Pandolfmi Nencini, quello del cav. F. Sloane vivente e una Sacra Famiglia in rilievo (1) uscirono felicemente dalla sua rapida mano, le quali opere provarono al mecenate non essersi punto ingannato nelle sue prévisioni.

Giunto alla vera finitezza nell’arte, ed in alto grado di meritata reputazione, il signor Freppa nell’ottobre 1866 lo liberò da ogni impegno contratto, cedendogli in pari tempo lo studio, gli strumenti, gli attrezzi di corredo.

Riandando colla mente a più lavori del defunto artista e ai meglio conosciuti, piacemi rammentare una statuetta in terra cotta rappresentante Giovanni delle Bande Nere trattata sulla maniera di quell’epoca, comprata da un negoziante di Parigi; il busto del Frate Savonarola; la statua della Donna mendicante, distinta ed interessante figura; un bellissimo basso rilievo che presenta un’anima che sale al cielo pel monumento del sig. Orazio Halle; la graziosa Cantatrice fiorentina comprata dal sig. André di Parigi, e che lo stesso sig. Butry ammira tanto nel suo libro: Chefs d’oeuvre des arts industriels, chiamandola «opera di un artista di genio». Né passerò sotto silenzio un Giovanetto ed una fanciulla ambo sulla stessa età, condotti al naturale e in atto di danzare. Questo gruppo mirabile per il concetto, per la esecuzione, per l’intreccio e per le movenze delle due figure leggiere e voluttuose, fu richiesto, perché invaghitasene, dalla Granduchessa Maria di Russia mentre visitava lo studio di lui. Ma già lo aveva fermato per dodici mila franchi l’onorevole signor Wonviller di Napoli, commettendo in pari tempo all’artefice di condurre in marmo le quattro stagioni per la sua grandiosa villa di Sorrento. Più tardi ritrasse il vecchio diplomatico conte Oliviero Jenisson Walworth, e non è molto ultimava un camino sorretto da due chimere, tutto sullo stile del cinquecento, ed in broccatello di Spagna.

Poco prima della sua fine ei lavorava il ritratto del marchese Gualterio ministro della casa reale, e quattro figure in pietra ad alto rilievo, L’Abbondanza, Il Commercio, L’Industria e L’Agricoltura per la fabbrica monumentale che si erige adesso in Firenze a sede della Banca Nazionale. La tanta sollecitudine nello attendere alle molteplici commissioni, e la franchezza nell’esecuzione, non può spiegarsi che per la facilità di scolpire molte cose alla prima, senza modellare, cioè, senza mettere i punti. In prova della considerazione alla quale era salito il modesto scultore, il Governo lo volle nominato restauratore dei monumenti antichi dipendenti dall’amministrazione dei Musei.

A quale grado in fine di perfezione si elevasse l’abilità di questo imitatore dei quattrocentisti italiani lo ha dimostrato il rinomato busto eseguito nel 1864, vo’ dire il poeta Benivieni, vissuto nella seconda metà del 1400.

Dall’attitudine del volto, dalle linee sostenute e severe della fronte si arguisce che il vecchio fiorentino va meditando sulle traversie della patria, su quei tempi migliori nei quali la sua giovane lira toccava più dolci note, quasi eco di quella leggiadrissima del suo coetaneo Poliziano. Forse tuttora gli ruminavano pel capo quelle idee platoniche di cui intrecciate all’amore divino fioriscono i suoi componimenti, signoreggiando in quel secolo in Firenze, come nella più parte d’Italia, quella filosofia in cui era stato istruito dai suoi ben affetti Marsilio Ficino, e Pico della Mirandola. In mezzo al gusto dominante delle lettere greche e latine, all’ombra della casa Medicea, può dirsi che il Benivieni, per i concetti, la perfezione e lo stile, tenesse alto l’onore della Poesia di quel tempo. Lui ed il Poliziano si riguarderanno sempre a buon diritto i restauratori del Parnasso Italiano. Peccato che al nostro zelante partigiano di fra Girolamo si fosse, per le fanatiche di lui prediche, riscaldata la fantasia tanto da avvilire la sua musa, o cantare con strani modi, vere follie sacre e profane (2).

Sul merito artistico di questo lavoro in terra cotta parafi eloquente d’assai l’interesse preso da quasi un anno dai giornali francesi e italiani. Quelli, a sostenere che nelle diverse fasi subite dal busto in discorso vi era un intrigo fiorentino trattandosi di opera indubitatamente del secolo XV; questi a sostenere che se vi era intrigo lo sarebbe stato francese, perché l’opera era moderna e trattata da un giovane artefice che già ne avea condotte a termine altre credute per un certo tempo vetuste.

« Quanto arrogante sei superbia umana! »

Costava troppo in Francia a confessare di aver preso un abbaglio: meglio durare in una cieca ostinazione, anziché far di cappello al merito di un artista italiano. Eppoi antiquarii e amatori intelligenti (Robinson, His de Lasalle, Davillier, Eug. Piot, Timbal, Castellani, I. Charvet, E. Lequesne) reputarono il Benivieni, per il suo maschio carattere, per la sua fattura, per la sua spontaneità, lavoro antichissimo;… e tanto basta!

Poche parole a cui ne ignorasse la storia.

Il Bastianini plasmò questo busto, tenendo a modello un tal Giuseppe Bonaiuti, lavorante nella manifattura dei Tabacchi. Fu acquistato dapprima dal signor G. Freppa per, lire1,300. Il dottore Alessandro Foresi fece un’offerta di lire 500, ma l’antiquario ne voleva mille. Se ne invaghì M. Rivet, e ne fece parola al socio signore De Nolivos, e questi lo comprò per 700 franchi, e seco lo portò in Francia.

All’ Esposizione del 1865, fatta aux Champs Elysés per cura dell’Unione centrale di Belle Arti, comparve questa terra cotta, la quale attirò l’ammirazione dei visitatori, fino quella dell’imperatore. Il proprietario De Nolivos ne fu astiato, e quando all’Hòtel Drouot fu esposta alla vendita la di lui ricca collezione di oggetti d’arte, il conte di Nieuwerkerke, direttore generale dei Musei imperiali, comprò per tredicimila seicento franchi il Benivieni segnato come antico, e attribuito all’epoca di Lorenzo di Credi.

Ai primi dell’anno 1867 questo famoso busto dalle mani del signor conte di Nieuwerkerke passò al Museo imperiale del Louvre in una delle sale del la Renaissance, appunto là nel mezzo di quella ove si ammirano la Ninfa del Castello d’Anet del Cellini, I prigionieri di Michelangelo un Ritratto di donna , fatto da Desiderio di Settignano, ed altri superbi lavori del secolo XV e XVI.

Improvvisamente sul finir dell’anno 1867 la Gazzette des Beaux Arts mise alla luce certe lettere e documenti pei quali si distruggeva la decantata antichità del noto capolavoro; in breve ne fu tessuta la storia genuina.

Da qui ne nacque gran chiasso, gran scandalo. Altri giornali, il Nord, la Franco, L’Opinion Nationale, la Liberté, la Patrie prendendo interessamento saltaron su a dir la loro. Proteste da una parte, negazioni dall’altra; si chiese anche una dichiarazione del sedicente autore. Quando per altro si dové tener conto dell’affermazione dello scultore Casarini, il quale avea veduto modellare il vecchio poeta: quando il Freppa dichiarò averlo venduto al signor Nolivos senza alcun commento «ma tale quale era, e quale il signor Nolivos poteva vederlo e giudicarlo»; quando il Bastianini disse per mezzo del Diritto del 10 gennaio «Dichiaro solennemente» in faccia al mondo e sulla mia coscienza di uomo onorato che Girolamo Benivieni ora al Louvre è opera mia», la bile dei conoscitori francesi salì al sommo, e pioveva sin lo sprezzo e gli insulti sull’uomo che pretese chiamarsi autore di simile opera classica.

Si messe in dubbio la di lui rettitudine e lealtà.

Ancoraché non avessero avuto luogo tante dichiarazioni, basterebbe tener conto della tenuità dell’utile che ricavava da questi lavori per escludere in lui ogni idea di complicità e di frode. Per esempio, il busto del Savonarola, che i signori Banti e Costa ricomprarmi da un rivenditore detto il Bracino per 10,000 franchi, procacciò al suo fattore 500 franchi; La chanteuse fiorentine, comprata a Parigi 9,000 franchi gliene diede, soltanto 200; il Benivieni pagato a Parigi 13,600 franchi ne fruttò al Bastianini soli trecento. Perchè vorremmo noi indagare a qual fine agiva così modestamente? probabile che se egli avesse invitato il pubblico nel suo laboratorio a giudicare di un lavoro eseguito alla maniera del cinquecento, questi lo avrebbe beffato,… gli avrebbe detto - voi siete pazzo, - sarebbe stato per certo di contrario avviso se, per accidente, avesse visitato questo stesso lavoro tra diverse anticaglie polverose, all’ombra della bottega d’un rivenditore qualunque.

Non è nuovo il caso che un artefice incognito, imitando uno stile anteriore, componga opere originali di gran merito, le quali da negozianti pratici sono acquistate per poco. Intanto passano da una in altra mano: il loro valore si accresce: la loro origine si perde, e, acquistando il pregio di antichità, raggiungono adagio adagio prezzi elevatissimi. A cui la colpa, se giudici e intendenti abilissimi si trovano delusi? Così press’a poco dice imparzialmente il Times del 14 aprile passato, ragionando del bravo Bastianini e della Tour de Babel, o Objets d’arts faux pris pour mais, et viceversa. - In questo curioso volume del dottore Alessandro Foresi sono riuniti molti documenti e molte rivelazioni che appianano colla massima evidenza la insorta e lunga controversia.

Dietro ad esso sorse altro periodico di Parigi, Il Figaro, che, senza perplessità alcuna, attribuì la paternità dell’opera in esame allo scultore di Fiesole, poiché dietro lo scritto del signor Foresi la verità è stata posta compietamente a nudo, e provò nel modo più chiaro e ragionato, che il signor Soprintendente è stato vittima di una mistificazione.

Fra gli impenitenti resta tuttora M. Charvet antiquario a San Germano, il quale ha creduto rispondere all’autore della Torre di Babele, con un vergognoso opuscolo intitolato «L’àne qui prend la peau du Lion » (L’ asino che si ammanta della pelle del leone).

È questo in sostanza un mazzo di contumelie le più villane, le quali infine ricadono a carico di chi ebbe la impudenza di formularle. Il dottor Foresi replicò per le rime a questo libello da Parigi il 4 giugno decorso. Lo stesso fece in data del 23 giugno da Firenze l’antiquario signor Freppa; e con dignitoso risentimento alle basse ingiurie che il libellista avventa agli Italiani, alle qualifiche di falsari, egli pel suo amico risponde sulla fine della sua lettera a stampa:

«Io non voglio perdere danaro in processi, né attaccarvi in diffamazione, come hanno fatto gli stimabilissimi Rollin e Feuardent, ciò che vi ha già fruttato due condanne, e potrebbe fruttarvene ben altre ancora. Per il momento io mi contento del disprezzo che il vostro opuscolo ispira a tutti i galantuomini».

In tante controversie il signor de Neuwerkerke (e ciò fa davvero meraviglia) si tenne sempre nel più assoluto silenzio, si contentò di fare spargere su diversi periodici che egli offriva franchi 15,000 al Bastianini, sfidandolo a modellare un busto uguale a quello del vecchio poeta. Nonostante questa proposta bastantemente ridicola, mai per altro partecipata direttamente allo scultore toscano, questi pubblicò una lettera di accettazione (3),

impegnandosi di plasticare per decorazione, anco i ritratti dei dodici Cesari, oltre l’esecuzione di un degno compagno al Benivieni.

La morte ha colto in poche ore il modesto e leale artista, di cui abbiamo data la dolce effigie, prima dello scioglimento completo di questa interessante questione; restano a deplorarne la di lui perdita il vecchio genitore, un fratello e gli amici.

Luigi. Setticelli.

(1) Esposto questo basso rilievo presso un antiquario in Firenze, la più parte degli scultori e pittori, esaminandolo, lo ritennero opera del Verrocrhio Comprato da un negoziante francese, figura tuttora in uno dei primi Musei d'Europa, come lavoro pregevole dell’età di mezzo.

(2) Nel carnevale del 1498 fu ordinato dal Savonarola un Auto-da-fè per distruggere tutte le vanità, tutti gli articoli di piacere e di lusso profano. La parola dei seguaci del Frate era - Viva Cristo. - In questo tempo i fanatici e i Piagnoni misti ai frati, ballando e saltando per la via, asserivano esser cosa bella e santa impazzire per Gesù. Allora il nostro poeta cantava :

Non fu mai più bel sollazzo Più giocondo, nè maggiore,

Che per zelo e per amore Di Gesù divenir pazzo :

Sempre cerca, onora ed ama Quel che il savio ha in odio tanto, Povertà, dolori e pianto Il Cristian, perch’egli è pazzo;

Non fu mai ecc. e via di seguito. Ho voluto riportare questi versi, come saggio di quanto possa anco sulle menti più lucide un cieco fanatismo.- (Questo famoso auto-da-fè delle vanità è meravigliosamente descritto nel romanzo inglese di Miss Elliot: Romola, la cui traduzione è in corso nel Romanziere contemporaneo).

(3) Chi sentisse vaghezza di conoscere questa lettera in data del 15 febbraio 1868, piena di spirito e di fierezza ad un tempo, può esaminarla per intiero sulla Nazione di quest'anno N. 57: ed abbreviata nell’Universo Illustrato N. 23 a pag. 382 di questo volume.

(1868 - L. Setticelli, Illustri Contemporanei: Giovanni Bastianini da Fiesole, L’Universo Illustrato, Milano, Emilio Treves, vol. II, n. 48, 30 agosto, pp. 797/798. n. 50, 13 settembre, pp. 845/846.)


Bibliografia:

1868 - L’Universo Illustrato, Milano, Emilio Treves, vol. II, n. 42, 19 luglio, p. 711 (Necrologia).

1868 - L. Setticelli, Illustri Contemporanei: Giovanni Bastianini da Fiesole, L’Universo Illustrato, Milano, Emilio Treves, vol. II, n. 48, 30 agosto, pp. 797/798. n. 50, 13 settembre, pp. 845/846.

1994 - Vincenzo Vicario, Gli scultori italiani, Dal neoclassico al liberty, seconda edizione, volume primo, Lodi, Il Pomerio, pp. 99.

2003 - Alfonso Panzetta, Nuovo Dizionario degli Scultori Italiani dell’ottocento e del primo novecento, volume I, A-L, Adarte, p. 77.

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