Arpini Carlo

pittore
Ancona, 10 marzo 1866 - Monza, 1° aprile 1922


Nato ad Ancona il 10 marzo 1866, muore a Monza il 1° aprile 1922.

Non ha da molto oltrepassato la quarantina ed esordì nell’arte sua, nel 1891, col quadro: Inverno, esposto a quell’Annuale di Brera e il cui bozzetto fu poi acquistato dalla Società per le Belle Arti. Nel 1892 mandò suoi lavori a Genova e a Palermo e negli anni successivi non mancò di esporre in diverse altre Mostre d’arti nazionali ed estere, distinguendosi specialmente con numerosi studi del Parco di Monza, alcuni dei quali ricordiamo di aver veduti anche all’Annuale di Brera del 1895.

Nel 1894 con I Reietti e nel 1897 col Figlio della colpa fu preso in considerazione per il premio Fumagalli: da allora fu un seguito ininterrotto di dipinti diversi che troppo ci porterebbero in lungo pur solo ricordando. Ci limiteremo a richiamare alla memoria dei lettori i quadri: Eco dolorosa e Suso in Italia bella… esposti alla Mostra Nazionale di Milano del 1906 e Pace, Vespro, Barche di pesca esposti all’ultima Quadriennale di Torino.

L’Arpini ha soggiornato non breve tempo all’estero e specialmente a Vienna, a Berlino, a Francoforte, a Lipsia, dove i suoi dipinti, di soggetto in genere suggerito dal lago di Garda, hanno trovato continui ammiratori e numerosi compratori. Egli è stato pure a Roma e da qualche anno alterna il suo soggiorno fra la nostra Milano e il lago di Garda. Amico di Zanardelli, fu più volte ospite di lui nella villa di Maderno e dell’illustre giureconsulto eseguì l’ultimo ritratto, attualmente al Municipio di Brescia.

Oggi l’Arpini è un arrivato e i giorni difficili si può dire non esistano per lui che allo stato di ricordo e di stimolo a far sempre meglio. Egli presentemente attraversa quel periodo di vita calma e felice in cui si raccoglie quanto si è seminato. E, poeta e artista, si sente specialmente attirato verso quel non so che di elegiaco o di idilliaco che è nella natura. I soggetti che egli preferisce per i suoi quadri di paesaggio sono di un genere per lo più suggerito dal tramontare dal sole, o dalla vaporea freschezza delle rive del suo lago, il lago di Garda, o dalla calma melanconia degli stagni, o dalla tristezza propria all’autunno. Questa dolce melanconia è il tratto caratteristico, dominante dell’ingegno dell’Arpini e la sua stessa fisonomia, il suo sguardo un po’ velato sembrano ripetere quanto di quietamente melanconico passa nella sua anima buona di artista: è nelle pupille di lui come un'indefinibile luce, che afferma la coscienza della fragilità della vita e della felicità umana.

Il numero degli studi, delle impressioni che si debbono al nostro artista è grande. Ma egli non si è limitato, come è abitudine di tanti nostri giovani pittori, a darci delle semplici impressioni, eseguite con maggiore o minore abilità: egli ha voluto a più riprese tentare anche il quadro nel più ampio e completo suo valore.

Distingue un quadro da uno studio quel non so che di veramente personale, in virtù di cui un’opera d'arte solamente emerge.

Ma l’Arpini col quadro propriamente inteso ha voluto anche provarci che sa comporre e ha voluto dimostrarci come per un’opera completa la composizione sia una delle maggiori doti.

Purtroppo i pittori oggi ben poco si preoccupano della composizione e se qualche volta avviene che essa richiami la loro preferenza ciò è per eccezione e con estrema timidezza. Un tempo nelle Scuole di pittura si insegnava a comporre il quadro e un tale insegnamento veniva fatto unicamente sull’esempio dei maestri ed era riassunto forzatamente in ricette e formule, sì che si riduceva a puro mestiere ciò che doveva invece essere unicamente manifestazione del genio. Si insegnava ai giovani a combinare le diverse linee di una tela, a fissare i vari gruppi dei personaggi, equilibratamente; ad armonizzare non importa quale soggetto in una apparente unità. Risultato fatale di un tale procedimento, un accademismo riprovevole il peggiore dei risultati a cui può giungere un artista. Corretto, se volete, il genere al quale si arrivava, ma freddo, senza qualità nello stesso modo che era libero da difetti. Ad esso nulla mancava, se non quella dote di innegabile portata che è la vitalità.

In pittura, non meno che in letteratura e in ogni altra arte, senza la composizione non è possibile terminare vere e complete opere in tutto soddisfacenti la ragione. Lo spirito, non meno degli occhi, per essere interessato vuol essere impressionato, vuole provare, subire un’impressione; una sola, se volete, per la quale però occorre che ogni dettaglio congiuri concordemente, e in pari tempo che armonizza col soggetto e coll’ambiente che al soggetto fa di cornice ogni particolare deve avere importanza e valore tutt'affatto proprio. Ora a ciò nel passato non si poneva mente gran fatto e le scuole avevano il grave torto di non dar importanza a una tale legge e si limitavano a curare i vari dettagli per loro stessi, non mai in armonia all’intera opera, nello stesso modo che oggi si ha il torto di ritenere che i processi bastino a dar valore ad un quadro.

Per ben comporre un quadro o per meglio dire, per comporlo da vero artista convien essere innanzi tutto commossi dalla realtà, dal vero, e occorre pure vedere ben limpidamente in tale emozione. Poi per rendere siffatta emozione bisogna appartenere ad essa interamente, viverla, non vedere che a traverso di essa, tutto subordinando alla completa sua espressione. E così soltanto che la composizione potrà facilmente essere libera e padrona di sé. Essa sarà diversa per ogni soggetto, in virtù appunto del soggetto stesso, ma sempre - e l’opera sia di piccola o grande mole e i personaggi siano numerosi o limitati - dell’insieme di una tela dovrà essere parte integrante, assoluta, per modo che una volta manifesta non sia possibile venga concepita diversamente da come si è appalesata.

Ora l’Arpini ancor lui è innegabilmente stato educato all’Arte sua in una scuola di pittura e in essa, come i suoi colleghi, ha pur lui imparato la comune ricetta, come vi ha appreso ogni norma per riuscire a un buon quadro. Se non che egli è dei pochi che hanno presto fatto ogni sforzo per liberarsi da certi vieti legami, che troppo lo imbrigliavano, e le opere dei suoi primi anni ne fanno fede, sì che in fine è riuscito a dar libero corso alla schietta sua personalità. Tuttavia dell’antico insegnamento non poco doveva fatalmente permanere ancora nell’arte sua. Ma fortunatamente per lui, al contrario di taluni troppo audaci, quanto in lui ha resistito di quello appreso negli anni giovanili gli ha poi per messo di terminare un’opera come Suso in Italia bella, dimostrando così ancor una volta, che un principio, se vero, è di tutte le epoche e di tutte le scuole. Ora il principio immutabile a cui alludo è, che senza unità nella concezione non è possibile condurre a termine alcuna buona opera.

La preoccupazione dell’unità in quest’opera dell’Arpini, e già accennatesi nell’Ora del Crepuscolo, gli ha concesso buoni frutti: l’augurio che essa si accentui ancora per l’avvenire, sì che gli permetta di condurre a fine opere in tutto perfette.

Se può avvenire che la realtà, per un seguito di fortunate combinazioni, offra qualche volta al pittore un quadro in tutto completo, sì che a lui non resti che approfittare della buona occasione, terminando facilmente una opera veramente interessante, purtroppo la maggior parte delle volte il fortunato caso manca all’artista. La realtà offre più particolarmente non altro che dei dettagli interessanti, dei particolari pittoreschi, dei brevi tratti di paese di un carattere spiccatamente degno di attenzione: sono dettagli e particolari sparsi qua e là e che l’artista deve saper poi adunare, se ama terminare un’opera completa. Egli deve armonizzare gli uni e gli altri dottamente, far sì che congiurino a quel’unità d’assieme, senza della quale non è possibile alcuna vera opera d’arte.

Noi tutti sappiamo in qual guisa lavorano tanti nostri pittori. Ogni volta che ad essi è dato di trovarsi in un ambiente o di incontrarsi in una persona che richiamino l’attenzione loro, il loro interesse e che a loro si presentino con una data caratteristica, rispondente al soggetto in precedenza prescelto, si affrettano a fermar e l’uno e l’altra: a fissare l’impressione subita. Sono dei veri documenti che l’artista viene in tal modo pazientemente adunando per l’esecuzione dell’opera vagheggiata e dei quali si varrà poi a suo tempo.

Qualche volta avviene anche che l’artista non sia premuto da alcuna idea precisa per un qualunque suo quadro. Egli osserva e ferma. Ma non appena l’idea informatrice di una tela si presenta, ecco che egli ritorna a visitare attentamente la regione che meglio è rispondente al soggetto prescelto e la frequenta ad ogni ora, nulla facendo in apparenza, ma in realtà imbevendosi di essa, in fino a che egli non l’ha ben compresa, intesa, sentita. Poi tra i diversi punti, fra i vari ambienti ecco che egli presceglie quello che meglio risponde al suo pensiero, al sentimento dell’opera in gestazione e si affretta a fermare sulla tela un ampio abbozzo. Quindi lo vediamo tornare a studiare attentamente e minutamente ogni menomo particolare del paesaggio o dell’ambiente. E in seguito, raccolto nel proprio studio, eccolo a lavorare febbrilmente all’esecuzione del quadro da tempo vagheggiato, vissuto.

Non si farà allora l’artista più alcun scrupolo di modificare anche il vero; di modificar qualche piccolo dettaglio per introdurvene qualche altro sorpreso altrove e che meglio risponde al carattere generale dell’opera. In tal guisa egli non è uno schiavo del vero, come none neppure uno schiavo del quadro quale sulle prime ha egli concepito. Egli modifica, aggiunge o toglie, e il più delle volte semplifica; questo in fino a che non ha raggiunto l’intento desiderato, in fino a che non è riuscito a soddisfare quel bisogno di unità e di armonia che è in ogni vero artista.

Da quale maestro l’Alpini deriva dal punto di vista della composizione? Non saprei a quale egli si sia improntato per la sua tela Suso in Italia bella: non lo so, né mi curo di saperlo. Mi limito a constatare ch’egli è riuscito ad una bell’opera.

Ma nella pittura la composizione non è tutto e se lamento che i moderni pittori a torto troppo la trascurano e se talune volte essa è anche la parte principale di un quadro, non è per questo men vero che il quadro meglio concepito non conterà gran fatto, se mediocre nell’esecuzione e tanto meno se difettoso. Ora il disegnatore nell’Arpini se non sempre si rivela di mano ferma, s’accusa peri» dall’occhio giusto. Difatti l’Arpini sa spesso vedere e rendere il tratto essenziale e caratteristico delle figure e delle cose, e se la forza in lui difetta, ha però una certa grazia, un’apprezzabile finezza. In lui, forse, quel che più difetta è il colorista. Ma, intendiamoci: in lui difetta il colorista nel senso vero del vocabolo, perché se a colorista diamo il valore che oggi a tale aggettivo danno i più, l’Arpini in tal caso è ancor lui un valente colorista. Ma dove il pittore che oggi non vanti una tale qualità.

Rimproverate a un giovane pittore d’essere scorretto come disegnatore: egli vi perdonerà facilmente l’appunto. Ma provatevi a contestargli le qualità di colorista: provatevi a dirgli che malamente egli butta colori su colori sulle sue tele, che li butta fuor di proposito: sarà un grande fatto se riuscirete a togliervi dal pericolo di essere preso a legnate.

Il colorito oggi è qualità di moda: negatela ad un pittore e lo avrete distrutto. Tutti oggi si piccano di saper colorire, di vedere brillante e luminoso. Coloristi, vi dico, coloristi, tutti, senza alcuna eccezione! E la verità invece è, che forse non mai come oggi noi abbiamo avuto deficienza di coloristi e che non mai come attualmente si può qualificare questa nostra epoca l’età dei negozianti di colori.

Se per essere coloristi basta buttare su una tela, con più o meno maestria, delle macchie violenti: opporre un colore ad un altro in aperta opposizione fra di essi; delle macchie rosse, gialle, celesti, verdi, bianche, violette, stridenti, urlanti come una Camera di deputati in un giorno d’interpellanza, oh, in tal caso, noi abbiamo oggi veramente molti, troppi coloristi. Ma se il colore in un dipinto è altra cosa: se innanzi tutto esso è armonia, i nostri odierni coloristi allora occorre pur si adattino ad avere i loro giorni contati nel mondo della fama.

Spesso avviene che i nostri artisti, confondendo con una grande facilità il colorito con il colore, diano prova nei loro lavori di un colorito ingegnoso e vario, senza con questo raggiungere il menomo effetto di colore. Vi ha, a mo’ d’esempio, un pavimento a mosaico di un’esattezza tale da mettere in disperazione un professore di estetica. Tra il primo e l’ultimo piano corrono forse migliaia di rombi, tutti di una correttezza rigorosissima, quanto a seguito di linee: eppure quel pavimento sta diritto, come fosse un muro: quel pavimento appare come uno specchio sul quale nessuno oserebbe indubbiamente a camminare.

Meno colori e il pavimento scapperebbe anche senza quella miriade di linee. Questo notavo ancora tempo fa, guardando un quadro di prospettiva dovuto ad un egregio pittore lombardo. Quella tela rendeva l’interno di una chiesa in cui l’artista aveva voluto provare a gettar della luce frastagliata con precisione insuperabile, al compasso addirittura. Eppure si sentiva che quella luce non vibrava, era fissa: si sentiva che sarebbe rimasta là in eterno, che quel sole non avrebbe mai cambiato posto, rispetto al quadro. Era esso sparso su tutti gli oggetti che l’artista gli aveva voluto porre dinanzi a piccoli scompartimenti; e così precisi che si sarebbero detti presi al dagherrotipo. Ma appunto per questo il quadro al quale accenno, ricco di luce, non aveva sole, né luce, né aria. L’autore di tale dipinto deve evidentemente credere che la luce sia unicamente por abbellire: non deve sapere che la luce è per animare. Ha studiato con precisione accurata, è vero, i menomi effetti della luce sul marmo, sulle indorature, sulle stoffe, ma ha dimenticato una cosa, una cosa soltanto; il riflesso. Egli non dubita che tutto nella natura è riflesso e che tutti i colori non sono che una permuta continua di riflessi. L’armonia, in musica, non consiste soltanto nel formare degli accordi, ma nello stabilire il rapporto tra loro, la loro logica successione e la loro concatenazione, ciò che chiamerei all’uopo il loro riflesso uditivo.

Ora in pittura non si può procedere diversamente. Prendete un cuscino celeste e un tappeto rosso, metteteli vicino. Che avviene dove i due colori si incontrano? Essi tentano di sopprimersi a vicenda. Il rosso si tinge di celeste e il celeste di rosso, dando così vita al viola. Potete mettere in una tela i toni più disparati, ma occorre sappiate dare ad essi tutto il riflesso necessario a legarli: in tal guisa soltanto non riuscirete stridenti.

Perché la natura appare ai nostri occhi così sobria in fatto di toni? E perché non si offre a noi con brusche, repentine opposizioni annientanti la continuata inarrivabile sua armonia? Perché tutto si lega per riflesso. Si vuol sopprimere questo in pittura, dato che ciò sia fattibile? Si arriverà semplicemente a questo risultato: che la pittura sarà d’un sol colpo soppressa.

Esigere da un pittore le cognizioni complesse di un Leonardo da Vinci, l’architetto, il poeta, il filosofo, il pittore, insomma l’enciclopedico dei suoi tempi, oggi è per vero pretendere l’impossibile, tanto più che la qualità dell’uno non può essere la dote dell’altro, ma si può però pretendere che i nostri maestri spingano i loro allievi a quegli studi completi ai quali per naturali disposizioni sono chiamati, tenendo particolarmente conto delle loro preferenze e dei loro gusti.

Ora non mi vorrà male l’Arpini, se affermerò che ancor lui non è un colorista molto profondo. Certo non l’accuserò di mollezza nel pennello. Egli è stato dotato da natura di forte volontà e nell’intera sua opera questo sua dote si manifesta e trova continue belle affermazioni. Ma in lui, come nella maggior parte dei moderni pittori, manca l’armonia del colore e ciò che costituisce l’armonia, insisto, è il rapporto fra colore e colore: ora è l’alleanza loro, il loro accordo ed ora è invece il loro contrasto.

I dotti possono ricercare le leggi che presiedono a queste alleanze e a queste opposizioni: le scuole possono insegnare quanto hanno ad esse rivelato 1’esperienza e la pratica, ma la guida più sicura, la migliore sarà sempre data dall’occhio ben fatto e bene esercitato. L’armonia che invochiamo è solo l’occhio a rivelare o piuttosto esso solo sa istintivamente vederla. È l’occhio che accusa il meglio di un tono o di un altro e come due toni vicini si facciano mutualmente valere o vicendevolmente si escludano, accarezzando lo sguardo o irritandolo.

Come in musica si hanno cento e cento modi di associare le note e nell’orchestra di unire i diversi timbri, così in pittura si hanno infinite risorse per far cantare armoniosamente i diversi colori.

Ma non è ancora in questo dono o in quest’arte di associazione dei colori che sta il grande segreto del colorito. Ripeto: guardiamo, osserviamo la natura. Essa ha sempre e dovunque, a Nord come a Sud, al levar del sole, come al tramonto, in tutte le ore del giorno, indistruttibile l’armonia più vasta dei colori: essa la possiede tanto in piena aria quanto in un ambiente: nel paesaggio, nelle persone, nelle cose: sempre e dovunque la natura sa dare ad ogni cosa un aspetto generale che seduce, accarezza, non mai urtante.

L’armonia di un paesaggio non è la stessa di un altro: l’armonia dominante in una data ora non è la stessa durante un’altra: eppure questa armonia esiste sempre, mai non viene meno, non un istante.

Io non conosco nella natura che una sola cosa sinceramente discordante e poco gradita all’occhio, per quanto, se dobbiamo credere alla Bibbia, volta a volta col suo riapparire ci rassicuri contro la minaccia di un nuovo diluvio; e fors’anche l’arcobaleno a non pochi apparirà pur esso armoniosamente carezzante.

Ora, più sopra abbiamo detto dove sia il segreto che armonizza fra loro i diversi toni, un fattore essenziale, l’agente primo anzi che sposa le varie tonalità e dà loro l’accordo necessario è da ricercarsi nell’atmosfera, che tutto avvolge, cose e esseri e a loro distribuisce la luce e li circonda di un non so che di sottilmente trasparente e impalpabile.

Osservate i grandi coloristi di qualunque scuola e di ogni età: si chiamino essi Leonardo Vinci, Tiziano, Veronese, Rembrandt, Watteau, Velasquez e Delacroix, tutti sono soprattutto degli ammirevoli pittori dell’atmosfera. Ognun di loro ha diversamente, ma ugualmente reso quel gioco della luce, che in genere di stinguiamo col qualificativo di gaiezza; ognun di loro ha tentato, in una gamma più o meno rifulgente, secondo il proprio individuale temperamento, e secondo il paese in cui ha vissuto, di riprodurre quella magica armonia della quale l’atmosfera è così larga dispensatrice dovunque e sempre.

Ora è appunto nella nessuna importanza che i nostri artisti danno all’azione dell’atmosfera tutto carezzante che dobbiamo ricercare la mancanza presso che assoluta di veri coloristi nei moderni pittori. Essi si danno quotidianamente ogni cura nel sopprimerla quanto più è in loro potere col pretesto di reagire contro la tetraggine della pittura passata. E con loro convengo ancor io, che è assai più facile sopprimerla che vederla e renderla. Ma non è meno vero però, che essi riescono a lavori tutt'altro che ammirevoli.

In Maitres d’autrefois si trova un capitolo, che vorrei ogni nostro artista leggesse e meditasse seriamente: è il capitolo in cui Fromentin dottamente ci intrattiene dei pittori di genere olandese come Gérard Terburg, Pieter de Hoogh e Metzu, e dove bravamente egli dimostra come il colorito sia nel senso preciso dei valori e nella esatta distribuzione della luce, la quale soltanto sa mettere al loro vero posto ogni valore. Ora, ripeto, e l’Arpini mi conceda la schietta affermazione, se egli non è un colorista nel senso comune del vocabolo, non è neppure un maestro del colore.

Ma se la sua tavolozza manca di quei toni caldi, vivi che bene armonizzanti fra loro costituiscono una delle prime attrattive della pittura, non difetta in ricambio di grazia, sebbene anche nelle sue tonalità un po’ smorzate non sempre l’armonia domini. Tuttavia, non rare volte preoccupato della relazione fra tono e tono e dell’armonia loro, egli giunge, come in Suso in Italia bella, a encomiabile risultato, per quanto questa preoccupazione passi talora anche gli opportuni limiti e lo tragga ad attutire i suoi colori fino ad ammorzarli. E qui è forse la ragione per cui la sua pittura è di un aspetto generale alquanto freddo. Però non è meno vero che le tele di lui quanto più si osservano tanto più si amano, come avviene per quelle sinfonie orchestrali riboccanti di graziosi dettagli, di armonie e contrappunti sapienti e delicati, che non si possono udire senza essere presi dalla più schietta commozione.

Per quanto il nostro artista nell’opera sua varia appaia a noi più figurista che paesista, pure come paesista è tra i più simpatici e le sue molte impressioni di lago in special modo lo confermano. Quando l’Arpini fa del paesaggio porta in esso una fedeltà non comune e in virtù di questa, riproducendo un dato luogo, riesce a dare ad ogni particolare la fisonomia ad esso proprio e facilmente riconoscibile. È senza dubbio in un profondo ed attento studio del vero che egli trova l’elemento primo dei suoi non comuni successi come paesista.

I suoi paesaggi il più delle volte sono delle impeccabili riproduzioni e in essi i dettagli abbondano, senza che mai un momento nuociano all’assieme. I suoi alberi - noi ne ricordiamo parecchi - sono scrupolosamente resi, come forse non mai egli è riuscito nella figura, per quanto, ripeto, dall’assieme dell’opera sua l’Arpini si appalesi più figurista che paesista e al paesaggio, senza che forse egli stesso se ne avveda, dia la miglior parte della propria osservazione.

Per apprezzare un artista nel reale suo valore convien valutarlo nella totalità completa della sua opera, raccolta in uno stesso ambiente. Pochi sono gli artisti che riescono a sostenere una tale prova - e le Esposizioni individuali di Venezia ce ne hanno dato sorprendenti esempi — senza che la loro fama non si pieghi sotto il peso del confronto. Io non so se l’Arpini potrebbe uscire vincitore da un tale poderoso esperimento. Certo è però che da esso emergerebbe evidentissima l’assoluta sincerità del suo pennello, il quale deve aver sempre ritenuto per cosa disonorevole e per imperdonabile debolezza l’uso prestabilito e immutabile di certi procedimenti pittorici dei quali pur troppo continuiamo a vedere menar vanto da non pochi pittori e critici.

Non dirò che nell’Arpini sia una personalità del tutto nettamente spiccata - questa è dote soltanto dei sommi - affermo però che egli di fronte al vero si sforza volta a volta rii vivere in esso quanto più gli riesce. È innegabile che in ogni tela di lui s’afferma il tentativo dell’artista di dimenticale di sapere, per lasciarsi quanto più possibile sinceramente penetrare dall’anima delle cose e l’anima di esse penetrare, onde sieno poi ripetute le impressioni subite quanto più schiettamente possibile, senza preoccupazione alcuna di tecniche e di teorie. E se per ogni tela l’Arpini non tenta una ricerca nuova di mezzi per rendere quanto ha veduto e provato, pur tuttavia nell’opera sua intiera riesce a una bella e discreta varietà. Poi da ogni suo quadro appare evidente lo sforzo di rendere esattamente il carattere proprio al pezzo di paesaggio prescelto, di modo che in ogni sua tela è sempre bene indicata la stagione, il tempo, non meno dell’ora.

Il paesista che si vale di procedimenti propri soltanto per ciò che è del mestiere; che cerca l’effetto all’infuori del vero e non ha per guida se non pochi e sommari schizzi, non riuscirà mai ad opera veramente d’arte. Ognuno potrà forse a primo aspetto riconoscere l’autore del quadro, ma nessuno saprà mai ravvisare il paese, il pezzo di terra che egli ha cercato di riprodurre; un risultato questo tutt’altro che lusinghiero. Ora nell’Arpini ciò non avviene e nel complesso dell’opera sua di paesista è una varietà che lo raccomanda a chi l’arte vera sa valutare e amare.

E.A.Marescotti


Bibliografia:

1910 - E. A. Marescotti, Arte e Artisti: Carlo Arpini, Natura ed Arte, Milano, Vallardi, N. 9 - 5 aprile, p. 577/585, (8 ill.) + 2 tav f.t.

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